Qualche anno dopo, grazie alle generazioni successive e ai loro pomeriggi trascorsi in compagnia di gente di nome Ken, Akira, Doraemon, quei padiglioni d’oro, paesi delle nevi e morbose fantasie e i loro eterei ukiyo-e in copertina sarebbero stati spazzati via dai colori pop e dalle trame naïf di Yoshimoto Banana, e dal realismo magico così western di Murakami Haruki. Norwegian Wood (in Italia Tokyo Blues), Dance Dance Dance, L’uccello che girava le viti del mondo i primi titoli, d’immediato successo. Fino ad arrivare a oggi, con l’attesa uscita del terzo volume di 1Q84, ultima fatica dello scrittore e maratoneta, nonché autore giapponese contemporaneo più letto in Italia (e non solo).
Una produzione e uno stile contrassegnati da un’evoluzione (più che semplice maturazione di tratti acerbi) che, considerandone gli estremi (gli esordi e le ultime opere), appare piuttosto significativa. A grandi linee: i primi romanzi più brevi, dalla sintassi frammentata e dalle atmosfere e topoi quasi hard bolied; romanzi-mondo dalle trame allegoriche e complesse, e dal ritmo e respiro più ampio gli ultimi. All’attività di romanziere Murakami da sempre affianca quella di traduttore di letteratura americana (Carver, Salinger, Capote, Chandler tra gli altri), cui si aggiunge una continua e particolarmente felice gemmazione laterale di racconti, periodicamente pubblicati in raccolte. La specialità di casa Murakami, il suo vero brand, ovunque, è una scrittura morbida, piana, poco “letteraria”, cui riesce a conferire una malleabilità che la rende adatta a servire in modo perfetto sia una narrazione prosaica, oggettiva e realistica, sia costruzioni decisamente più ardite e surreali.
È una scrittura che sembra sempre frutto di un qualche caso fortuito, di una distrazione propizia che crea un momento magico, quasi un’epifania del reale, uno squarcio – tra un sandwich al formaggio e il ritornello di una canzone dei Beach Boys – a rivelare l’autentica natura delle cose, il loro vero esistere, la loro reale dimensione. È in questa casuale ermeneutica, in bilico tra il quotidiano e lo straordinario, tra ricerca e serendipità (e il dualismo, il frequentare pari modo gli opposti, il sommarli e riconciliarli quasi senza sforzo, almeno apparente, il non-prendere posizione, sono tratto distintivo dell’autore) che si dipana il filo della narrazione, in un processo che somiglia al ghiaccio che si scioglie e si trasforma in altro: un cambio di stato più che un inizio e una fine.
Murakami ostenta il quotidiano, lo promuove da fondale di cartapesta ad attore con una sua vivida, toccante materialità, e cui la delicatezza (non distacco né inconsistenza) del suo tocco stilistico riesce a infondere un’aura di familiarità, di identificazione, di riconoscimento che è di nuovo rivelazione, non priva di stupore, e immediata vicinanza, immedesimazione. Ma questa “leggerezza” non è che un sottile strato di brina, la piacevole e immediata glassatura di un’opera dalla straordinaria profondità, dal sapore complesso e non privo di note amare, e che continua a deliziare e sconcertare insieme lettori e critica, e forse anche l’Accademia di Svezia.
Qui un’intervista di Dario Olivero, tradotta da Antonietta Pastore e uscita su Venerdì di Repubblica.
Sul New Yorker, una recensione di Kafka sulla spiaggia di John Updike, uscita qualche anno fa, e la reazione dei fan di Murakami all’annuncio del mancato Nobel.
Qui Giorgio Amitrano racconta cosa significa tradurre Murakami (suo l’italiano di molte opere pubblicate in Italia, compresa l’ultima trilogia).