CANZONE DELLA BAMBINA CHE SONO STATA
Questa storia è triste, è tremenda.
So che lo diranno, so che qualcuno me lo rimprovererà.
Lettori, por favor, sto semplicemente raccontando
una storia accaduta tanto tempo fa.
Non gravate troppe responsabilità sulle spalle di un narratore.
Oppure davvero credete che il mio finale
potrà influenzare e cambiare realmente il corso delle cose?
Mi sembra di sentire un coro: Fai vincere i bambini, salvali.
Ché questo è un mondo dove si esalta soprattutto il lieto fine…
E altri mugugneranno: Che senso ha trasformare un evento reale
in un romanzo, se non si può cambiare ogni cosa,
soprattutto il finale? Che senso ha raccontare una storia,
se non quello di risvegliare il desiderio di una vita diversa
che tutti nascondono in sé?
(L. Pariani, Dio non ama i bambini, Einaudi, Torino 2007, p. 267).
In questi versi c’è una chiave d’accesso alla scrittura di Laura Pariani: l’interrogativo problematico che la scrittrice affida al lettore interpella il senso stesso della letteratura, stretta tra l’imperativo etico di fedeltà alla vita nei suoi aspetti tragici e la potente istanza trasformativa, in virtù della quale a chi prende la penna in mano si chiede un passaporto verso un mondo più felice e giusto, che forse si è realizzato, nei secoli, solo sulle pagine scritte. Sognare una vita migliore, tuttavia, ha aiutato l’umanità a compiere qualche passo verso di essa.
Attraverso la storia dalla parte degli ultimi
Nell’ultimo romanzo, candidato al Campiello 2019, Il gioco di Santa Oca (La nave di Teseo, Milano 2019), Pariani guida il lettore, con la consueta alternanza di piani narrativi, a conoscere la vicenda di Bonaventura Mangiaterra, capo di una banda di “terrieri” (contadini) che nelle campagne lariane cerca di difendere i poveri dai soprusi dei proprietari, predicando una giustizia semplice ispirata dalla traduzione popolare dei precetti evangelici. Il contesto è manzoniano, ma il mondo contadino appare fiabesco e terribile, pervaso da superstizioni e abitato da presenze soprannaturali misteriose: più d’una donna, identificata come “strìa”, incontra una morte orribile.
Ai capitoli dell’autunno 1652 si alternano quelli ambientati vent’anni dopo, protagonista dei quali è la vecchia Pùlvara, che, alla fine della sua vita avventurosa, attraversa le campagne ancora selvagge intorno al lago di Como, sulle tracce di Bonaventura. Il suo percorso indaginoso è segnato da un’ossessione numerologica: ogni evento viene interpretato attraverso dei numeri, associati a singolari corrispondenze astrologiche, nel tentativo di decifrare gli imponderabili del destino. Si compone così una sorta di bizzarro gioco dell’Oca. Il cammino di Pùlvara, segnato da vicende impreviste e misteriose, si chiude con un colpo di scena sconvolgente.
Questo romanzo torna su alcuni dei temi cari alla scrittrice: le violenze che hanno segnato e segnano la vita delle donne; la fuga dagli stereotipi, vissuta sempre come “stranezza” da contenere per il mantenimento degli equilibri di potere all’interno della società; i conflitti sociali e le coraggiose, per quanto perdenti, rivendicazioni dei poveri contro i potenti. Anche la struttura diegetica, che alterna con perfetta naturalezza piani temporali diversi, corrisponde a modalità di costruzione della narrazione già esperite con raffinatezza da Pariani, autrice di lungo corso.
La vita crudele dei bambini
In una produzione ricchissima, che testimonia la eccezionale versatilità di una delle voci più intense della narrativa italiana contemporanea, seleziono poche opere, in ragione di una specifica “fruibilità” didattica, ma precisando che molte altre meritano pari attenzione.
Inizio dal testo dal quale ho tratto la citazione iniziale. I versi della Canzone della bambina che sono stata arrivano, verso la fine del romanzo Dio non ama i bambini, a suggellare una storia “tremenda”, in cui i bambini sono vittime e protagonisti di un Male che ha le dimensioni di un destino irrevocabile e, allo stesso tempo, si incardina in una realtà storica ricostruita con fedeltà: siamo nella Buenos Aires dei primi del Novecento, nei conventillos dove gli immigrati, in larga parte italiani, vivono in condizioni di miseria e promiscuità. Il sogno di un riscatto dalla povertà, allo sbarco nel nuovo mondo, si infrange velocemente contro una realtà fatta di discriminazione, di sfruttamento, di soggezione a complessi meccanismi malavitosi.
In questa realtà oscuramente degradata, in cui le relazioni sociali resistono solo in risposta ai bisogni elementari, si verifica, intorno al conventillo Epifania, una serie di efferati omicidi di bambini, apparentemente senza alcun movente. La polizia non è interessata a scoprire i colpevoli, ma si preoccupa piuttosto di garantire l’ordine, attraverso la repressione sui paria della società, arrivati da mondi lontani come forza lavoro mal sopportata e spremuta senza regole.
Sarà una banda di bambini, figli dell’abbandono, ma dotati di un non scritto e singolare codice d’onore, a impegnarsi per trovare il colpevole, personaggio inquietante, del tutto privo di una coscienza, ma alimentato da un bisogno primordiale e animalesco di violenza. Questo gruppo ha una sua morale: «A scuola t’insegnano a pensare in un certo modo, secondo quello che dicono i maestri, […], ma c’è un altro modo che consiste nel pensare con la propria testa. […] Per esempio, io penso che uno diventa matto per smettere di soffrire. Pensa al papà. Da quando non c’è più con la testa, ha ricominciato a sorridere. Credo che per certe persone impazzire sia l’unico modo per non pensare più a quello che fa male» (p. 163).
La vita di strada per questi bambini è una necessità, per sfuggire, come dalla scuola, anche dalla famiglia, luogo della violenza e delle repressione, antieducativo per antonomasia: «La parola famiglia per noi significa soltanto / calci e ingiurie e un unico letto in cui si dorme male. / Ché per i grandi noi siamo soltanto spalle, braccia, / gambe per lavorare»: così recita la Canzone dei bambini che si mettono in banda (p. 195), giustificando l’amara conclusione del “saggio” capobanda Maurilio: «Ve lo dico io: Dio se ne frega dei bambini» (p. 246).
Il romanzo, scandito in due grandi campate (Dio non ama i bambini… E i bambini lo sanno) procede attraverso voci diverse, e gli episodi sono intervallati dalle “canzoni”, che, come un coro tragico, rivelano al lettore il senso crudele delle vicende raccontate.
Migranti di ieri e di oggi
L’emigrazione è tema ricorrente. Oltre allo struggente romanzo dedicato a Dino Campana e al suo viaggio in Sudamerica (Questo viaggio chiamavamo amore, Einaudi, Torino 2015), da non trascurare Il piatto dell’angelo (Giunti, Firenze 2013), esempio delicato di una penna che sa raccontare il dolore con finezza e senza compiacimenti.
Il piatto dell’angelo era quello che nelle tavole apparecchiate per i giorni di festa si preparava per chi era lontano, ma si sperava che prima o poi potesse tornare. Ieri partivano dalle poverissime campagne dell’Italia contadina gli uomini, che cercavano fortuna oltreoceano; oggi viaggiano, in direzione opposta, le donne che abbandonano le famiglie per venire in Italia a fare le badanti.
In entrambi i casi, si tratta di viaggi segnati dalle sofferenze: talvolta chi parte si perde nell’immensità del continente dall’altra parte del mondo, muore, si costruisce un’altra famiglia, non è più in condizioni di tornare e non dà più notizie di sé; la prima famiglia resta così in un’attesa mai soddisfatta, sospesa nell’incertezza e divorata da risentimenti.
Nel romanzo i duplici opposti viaggi sono incarnati dalle vicende dei personaggi: una coppia di coniugi, stanca e precocemente invecchiata, va a trovare in Sudamerica la famiglia della badante della mamma di lui, e si trova suo malgrado coinvolta in un improvviso lutto. Il racconto evidenzia il senso di straniamento, di solitudine, di abbandono che ogni personaggio porta con sé, nella stanchezza e nell’aridità di relazioni in diverso modo fallimentari o offese dalla vita.
Il viaggio di ieri è quello di Cesare, nonno della protagonista di oggi, che, partito per il Sudamerica, non ha più fatto ritorno, lasciando dietro di sé il rancore di una moglie e una figlia che non hanno smesso di aspettarlo prima, e di recriminare poi.
Anche le badanti di oggi lasciano dietro di sé gli affetti: «i loro cari, rimasti in patria, imparano sulla propria pelle che il termine emigrazione ha sempre un altro nome, più preciso, più duro: si chiama abbandono, separazione, lacerazione»(p. 52).
Lo stigma della “diversità”
Altra linea di indagine cara alla scrittrice è la fuga dalle convenzioni sociali, facilmente ascritta, soprattutto in passato, alla follia. Oltre al caso già citato di Dino Campana, spiccano in questo ambito alcune indimenticabili figure femminili. Esemplare il romanzo del 2011 La valle delle donne lupo (Einaudi, Torino).
La protagonista Fenisia è una rude donna di montagna, nata e vissuta in una valle isolata del Piemonte. Il romanzo è costituito da 49 capitoli numerati: nei capitoli dispari si racconta la vita della montanara, dal 1928-30 al 2007; nei capitoli pari si riferiscono i dialoghi che intrattiene con Fenisia una “sciura” milanese (controfigura della stessa scrittrice?) che la intervista per ricostruire la vita delle montagne piemontesi nel corso del Novecento.
Questa alternanza di piani narrativi si riverbera sul linguaggio: nell’italiano della narrazione di primo livello viene sapientemente incastonata una lingua mista, ricca di termini regionali, che danno ai racconti di Fenisia un sapore antico ma anche il gusto della concretezza contadina.
Fenisia, insieme alla cugina Grisa, appartiene a un mondo nel quale le donne hanno l’unica funzione di servire i maschi e procreare. A loro non è necessaria l’istruzione, e ogni atteggiamento che evidenzi qualche forma di insofferenza verso il modello patriarcale atavico viene brutalmente represso. Da sempre addetto alla custodia del cimitero, il nucleo familiare delle due ragazze è guardato con diffidenza, come accade nelle civiltà primitive per tutti coloro che hanno a che fare con la morte.
Le donne che mostrano qualche originalità o germe di ribellione sono marchiate come “balenghe”, escluse dalla comunità, ritenute pericolose, da emarginare anche dopo la morte: i loro corpi non vengono seppelliti nel cimitero consacrato, ma in un campo che custodisce nel suo sottosuolo le reminiscenze inquietanti di pericolose contiguità con il mondo demoniaco.
Le due bambine vivono un’infanzia a loro modo felice, legate da un’intesa che con gli anni si fa sempre più stretta. Entrambe orfane di madre, hanno una relazione profonda con la nonna Malvina, donna semplice che però possiede intuito e capacità affettive istintive.
Fenisia è una donna dura e forte, che attraversa le innumerevoli vicende della vita con determinazione e senza farsi schiacciare. Più debole la cugina Grisa, ragazza singolare, capace di contatti misteriosi con la natura, capisce e imita i versi dei lupi, con i quali è vissuta per un breve periodo. Dopo il suicidio della madre, Grisa accentua i comportamenti eccentrici e l’insofferenza verso l’atteggiamento ottuso del padre violento, che, per reprimerne le pretese di libertà, la fa rinchiudere in manicomio, dove Grisa resta circa 30 anni, subendo i trattamenti più devastanti.
Quando muore il vecchio zio Biàs, e la legge Basaglia ha chiuso i manicomi, Fenisia decide di riprendersi la cugina, che, rientrando in un contesto di affetto, recupera la memoria e un equilibrio di vita, pur conservando le bizzarrie proprie della sua peculiare intelligenza.
Il romanzo si chiude con una pagina di grande suggestione: Fenisia, ormai sola dopo la morte della cugina, quando sente avvicinarsi la ranza(in lombardo la falce) del grande Falciatore, si prepara e si abbandona alla morte nel campo delle balenghe, cantando il suo disprezzo per il paese che ha tentato di soffocare la voce ribelle delle donne-lupo.
Con gli occhi della Bambina
Con «Domani è un altro giorno» disse Rossella O’Hara, (Einaudi, Torino 2017) Pariani raggiunge il capolavoro. Il romanzo è la storia (in parte autobiografica?) di un’educazione. Protagonista la Bambina, la cui vita viene scandita, dai sei ai dieci anni, attraverso 54 “Lezioni”, divise in quattro parti, corrispondenti ognuna a un anno.
La Bambina vive in un sonnolento paese di campagna (il Paese della Noia) negli anni Cinquanta. La società arcaica impone un’educazione severa, autoritaria e repressiva: la Bambina, spirto ribelle e curioso per natura, viene cresciuta a botte e punizioni. Questo però non inibisce la sua straordinaria immaginazione: la sua bicicletta è un cavallo che la conduce verso avventure meravigliose, il suo bisogno di libertà si manifesta in continui tentativi di trasgressione delle convenzioni.
Lo sguardo dal basso della Bambina va a posarsi anche su vicende incresciose, su violenze spaventose subite da compagni di giochi; non mancano le tragedie. Il libro tuttavia scorre sul filo di un’ironia straordinaria, generata dalla prospettiva straniata con cui vengono osservati i riti sociali, così come le regole educative e il conformismo religioso.
Alcune “Lezioni” rivelano una genialità esilarante. Pochi personaggi capiscono davvero la Bambina con il suo irrefrenabile bisogno di conoscere e di essere libera. Tra questi c’è la zia Giovane, grazie alla quale la Bambina si accosta al mondo incantato dei libri, e scopre la sua vocazione: «È forse in questo momento che la Bambina prende la decisione di divenire scrittrice, per scrivere i libri che vorrebbe leggere. Certo, a prima vista potrebbe sembrare in contraddizione con la sua scelta precedente: quella di diventare astronauta esploratrice di altri mondi. Ma forse così non è. Come se intuisse che scrivere è la professione più simile all’essere in orbita fuori dal Mondo» (p. 145).
L’umanità viene classificata con gli occhi della Bambina, che osserva le tappe della vita individuale e collettiva, e decide di non crescere: il suo mito è Peter Pan, e ogni notte aspetta che lui la venga a prendere per condurla tra i bambini perduti.
L’esito tragico del romanzo lascia al lettore l’amaro in bocca, ma si configura anche come interrogativa metafora sulla fine dell’infanzia e dell’illusione. Il mondo guardato dal basso richiama il Pin di Calvino, ma nella fuga finale c’è forse traccia anche della corsa disperata di Milton che conclude Una questione privata.
Angosce orwelliane
Pariani è scrittrice che si muove tra diversi tavoli. Non si può ignorare, soprattutto in prospettiva didattica, l’esperienza del romanzo distopico, che arriva nel 2018 con Di ferro e d’acciaio (NN Editore, Milano), singolare riscrittura della passione di Cristo dal punto di vista di sua madre, con evidenti allusioni ad alcune delle vicende dolorose e inquietanti del tardo Novecento.
La città del futuro, in cui un regime totalitario potente controlla perfino la memoria dei cittadini-sudditi, Maria N. si aggira spaesata cercando le tracce di Jesus N., controllata attraverso dispositivi tecnologici da un’addetta che conserva qualche reminiscenza sbiadita dell’umanità come era una volta. La distopia angosciante viene sviluppata attraverso l’alternanza di diverse voci narranti.
Quando, avvenuta l’esecuzione di Jesus, la madre viene invitata all’obitorio a riconoscere il cadavere del figlio, sfigurato dalle torture, il racconto della morte replica attraverso alcuni passaggi simbolici la sequenza evangelica, ricontestualizzandola in un mondo tecnologico e disumanizzato.
Anche in questo romanzo allucinato, oltre alle allusioni alla storia recente, sono incastonate le ascendenze letterarie; la più esplicita dalla Città invisibili: «L’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme, è diventato ormai un’abitudine, rimugina Lusine; e l’unico modo per sopravvivere è probabilmente accettarlo e diventarne parte fino al punto di non vederlo più»(p. 168).
Scrivere come indagine
Molti altri libri meriterebbero attenzione, anche quelli scritti insieme a Nicola Fantini, che declinano verso i territori del giallo.
Laura Pariani interpreta la funzione intellettuale della scrittura come inesauribile ricerca conoscitiva: la capacità di spostare lo sguardo, di calarsi nei punti di vista meno usuali di chi attraversa le periferie della vita, di coniugare lo scandaglio storico con le urgenze dell’attualità, ne fanno una narratrice profonda e poliedrica.
Chiudo circolarmente, ritornando alla Canzone iniziale e all’interrogativo da essa suscitato. Perché la letteratura “serva” a immaginare un mondo migliore di quello in cui viviamo, non deve celarne la verità. Pariani non teme di rappresentare la vita in tutti i suoi aspetti di contraddizione e anche di male, senza alcun compiacimento, ma nella consapevolezza, che, come insegna Claudio Magris, «il compito della poesia è quello di guardare in faccia la Medusa e non già di mandarla dal parrucchiere affinché pettini la sua testa di serpenti e la renda più presentabile» (Alfabeti, Garzanti, Milano 2008, p. 344).