Questo luglio è più caldo di sempre, dicono gli esperti, e non solo per il clima (un grado e mezzo sopra la media degli ultimi decenni): due guerre infuocano i confini dell’Europa e del Mediterraneo, e, al di là dell’Atlantico, si inaugura una campagna elettorale che potrebbe influenzarne l’esito e segnare le nostre sorti future. Eppure (o proprio per questo) sono altri i temi che animano il dibattito di mezza estate, che pare monopolizzato da questioni editoriali e di genere.
Non soltanto, per la prima volta, alcuni fra i più importanti premi letterari hanno incoronato le scrittrici: Donatella di Pietrantonio con L’età fragile (Einaudi) per lo Strega (e lo Strega Giovani, mentre il premio Strega Europeo va a Neige Sinno, autrice del coraggioso e dolorosissimo Triste Tigre, Neri Pozza); Silvia Avallone con Cuore nero (Rizzoli) per il premio Viareggio-Rèpaci; Aurora Tamigio, con Il cognome delle donne (Feltrinelli), per il premio Bancarella. A queste potrebbe aggiungersi il Campiello, con Federica Manzon, autrice di Alma (Feltrinelli), unica donna in una cinquina invece a dominanza maschile. Magheggi editoriali, tuonano alcuni critici, osservando come la via dei premi maggiori confermi un indirizzo di mercato: nella settimana che precede il 21 luglio, 7 titoli di narrativa italiana su 10 sono scritti di autrici; tra questi L’amica geniale di Elena Ferrante, il long seller pìù discusso della storia, specie da che è stato decretato “romanzo del XXI secolo” dal New York Times.
Non cercherò di riassumere un dibattito che, anche a volerci leggere tentativi di comprensione degli indirizzi di marketing editoriale, ha assunto talvolta toni surrealmente beceri, e non solo sui social. Per molte ragioni, il 2024 non ricorda davvero “l’anno della Storia”, per citare il titolo del prezioso saggio di Angela Borghesi sul dibattito seguito al romanzo di Morante nel 1974. Anticipo l’obiezione: sarà che non c’è una Morante. Forse ma direi che anche i detrattori non hanno proprio la statura di cinquant’anni fa.
Sorprende che il dibattito dia tanto poco peso a un dato incontrovertibile: in un paese in cui si legge poco o pochissimo, sono le donne le più fedeli alla lettura. Stando ai dati ISTAT 2023
la quota di lettori di libri ammonta al 40,1% della popolazione sopra i 6 anni e più (39,3%, nel 2022): tra questi, il 43,7% ha letto fino a 3 libri l’anno, mentre i “lettori forti” (12 o più libri letti in un anno) sono stati il 15,4%. La lettura di libri è soprattutto prerogativa dei giovani (fascia d’età 11-24 anni) e delle donne. Rispetto all’anno precedente, è rimasta stabile la quota di persone di 6 anni e più che ha utilizzato Internet negli ultimi 3 mesi per leggere o scaricare e-book. Anche per questo tipo di attività, si è registrato un vantaggio a favore delle femmine, che diventa più ampio nelle fasce d’età più giovani, in cui la lettura dei libri in formato digitale è più diffusa. Il 30,4% delle ragazze nella fascia d’età tra i 20 e i 24 anni ha utilizzato Internet negli ultimi 3 mesi del 2023 per leggere o scaricare libri online o e-book, rispetto al 22,3% dei coetanei maschi.
Ci sarebbe di che discutere, in un’ottica di promozione della lettura, ma il dibattito, come è noto, ha preso in queste settimane tutt’altro indirizzo, anche sui giornali.
Lasciamo però alla cronaca giornalistica e social lo spazio che merita e proviamo a cogliere l’unica domanda che forse vale la pena porre: esiste una scrittura femminile? Chiederselo presupporrebbe la speculare questione della scrittura maschile, che invece non appassiona, essendo gli uomini, nell’immaginario più tradizionale, una collettività di individui liberi, mentre le donne, appunto, tendono ad apparire piuttosto come genere.
Secondo un proverbio cinese ripreso da Mao Tse Tung «le donne sorreggono metà del cielo», a dire che quanto accade su questa terra riguarda tutte le persone che lo abitano. Scherzando, potremmo dire, che mentre le nostre madri erano impegnate a sorreggere il cielo, alcuni dei nostri padri impugnavano la penna e godevano del privilegio di trasmettere ai contemporanei, e nei casi migliori ai posteri, il proprio punto di vista sul mondo. Poche eccezioni hanno raggiunto le masse dei lettori attraverso un canone per lo più esclusivo, l’Italia più a lungo che altrove ha collocato le scrittrici ai margini dei luoghi in cui la letteratura si poneva come cosa seria: il premio Strega, per dirne una, conta soltanto 13 donne su 78 premiati, 6 di queste nel nuovo millennio.
E dunque, ora? Nulla che non sia nell’ordine delle cose: forse le lettrici, che in maggioranza arginano quella che pare un’ondata di neo-oralità, non si accontentano più e, fedeli alla parola scritta più dei lettori, inseguono sulla carta l’altra metà della storia, inseguite a loro volta da un mercato che in parte risponde e in parte previene. Non è una vera rivoluzione, ma certamente è un processo da osservare con rispetto, tenendosi possibilmente alla larga da semplificazioni e schematismi: è lapalissiano che le scrittrici, non meno degli scrittori, sono individui, e il punto di vista di ciascuna e ciascuno dovrebbe importare proprio in ragione dell’unicità che ogni scrittura può esprimere.
Insomma: le donne amano narrare e amano ascoltare narrazioni da sempre, ora accedono ai gradi più alti dell’istruzione e finalmente scrivono e leggono, soprattutto leggono più degli uomini. Stupisce che la scelta ricada anche e soprattutto su romanzi scritti da donne? Stupisce me che gli uomini abbiano tanta poca curiosità per la scrittura femminile, mentre non è valso il contrario per generazioni di donne allevate con parole e pensieri coniati dagli uomini.
Tre donne
A chiosa di questo mio ragionare offro tre consigli di lettura che serviranno almeno a illustrare quanto poco stereotipate possano essere le trame delle scrittrici. Seguirò il mio ordine di lettura, di modo che sia chiara una selezione che non deve nulla al dibattito più recente. Mi hanno inoltre detto che se in una poesia si accostano il primo e l’ultimo verso, la prima e l’ultima parola, se ne trae un’espressione di verità ignota persino a chi ha scritto; non so se valga anche per i romanzi, nei quali un buon inizio è essenziale a catturare il lettore e dunque è lì che le ragioni dell’editing si accaniscono di più, però l’idea mi diverte e dunque incipit ed explicit introdurranno il mio commento.
Donatella Di Pietrantonio, L’età fragile (Einaudi)
Incipit:
Il disordine che trovo al mattino mi ricorda che non sono più sola. Amanda è tornata, mi guardo intorno e inciampo nelle sue tracce.
Primo explicit:
Sono libera da lei. Lo penso e subito mi vergogno. Un’ondata di affetto mi sommerge. La vedo tra i filari, i capelli raccolti che sempre sfuggono. Mi pesa, la amo. Più di tutto la amo. Sarà lungo questo settembre.
Secondo explicit:
Il coro di stasera è una sorpresa, rompe il silenzio degli anni. Cade nel cielo sopra il Dente del Lupo l’ultima stella dell’estate.
Ho letto il romanzo che ha vinto lo Strega d’inverno e invernale è anche l’impressione che mi è rimasta addosso. Dell’autrice avevo letto quasi tutto, ma questo è il romanzo a cui ho creduto di più, perché, anche se la vicenda mi è estranea, sconosciuti i luoghi, mi pare che nel racconto i silenzi che dividono e uniscono una madre e una figlia ventenne trovino una rappresentazione molto efficace. La trama (esile solo per chi non ha sperimentato la radice complicata di questa relazione) incrocia due storie, quella appunto di una figlia che torna sconfitta e ferita dal nord al paese abruzzese che la madre non ha saputo o potuto lasciare, e quella della giovinezza materna, con il trauma taciuto della violenza femminicida che ha scosso la comunità e che ora riverbera sulle cicatrici più recenti di entrambe.
Ho molto consigliato questa lettura, non a tutti è piaciuta e io credo che sul giudizio influisca l’esperienza di qualcosa che è specifico ma indefinibile nella relazione madre-figlia, un vissuto che tiene insieme prossimità e alterità e mostra nell’altra un ciclo continuo di trasformazione (vita, morte, vita). Illuminanti, in tal senso, mi paiono la dedica “A tutte le sopravvissute” e la citazione in esergo da Simone de Beauvoir, Una morte dolcissima: “Non esiste una morte naturale: di ciò che avviene all’uomo, nulla è mai naturale, poiché la sua presenza mette in questione il mondo.”
Si può leggere questo romanzo familiare come un libro politico e non perché tratti di donne, e di violenza sulle donne, o perché nel racconto si parli anche di luoghi e paesaggi da salvare, ma perché la voce della protagonista riferisce con delicata precisione la concomitante deflagrazione del mondo interno e di quello esterno (famiglia, comunità, paese) e poi il suo ricomporsi, grazie anche alla capacità di ricordare, che in buona sostanza equivale a offrire un significato per ciò che resta.
Federica Manzon, Alma (Feltrinelli)
Incipit:
Ad aprile sono poche le barche che fanno la spola dalla terraferma all’isola. Lei cammina nel paese chiuso.
Explicit:
Si guardano. È così sexy, pensano. La solitudine e le incomprensioni, tutto l’amore e tutti quei morti, la Storia e la geografia da teppisti e la memoria che risale agli imperi e che vorrebbero seppellire in fondo a una dolina, quei loro teneri anni, e anche tutti quei pensieri sul caos delle loro vite lontane.
Ho letto il romanzo a fine gennaio, poco dopo l’uscita. Di Manzon, proprio su La ricerca (qui), avevo apprezzato la capacità di narrare le zone di confine e una guerra dei Balcani che ha visto presenti molti di noi ma che non ha prodotto consapevolezza né ha intaccato le certezze con cui siamo stati allevati: l’idea buona di Occidente e di Europa. Il romanzo ha struttura circolare, parte dall’isola di Brioni, residenza d’elezione del maresciallo Tito, e lì riapproda, seguendo il ritorno a Trieste della protagonista chiamata a raccogliere l’eredità di un padre slavo, affascinante e misterioso. La guerra di Jugoslavia ha reciso legami compositi e fragili e Alma, giornalista che ora vive a Roma, ha posto una distanza protettiva tra sé e la città, tra sé e sé.
L’explicit potrebbe essere una sintesi perfetta sia della trama del romanzo sia degli ultimi trent’anni di storia nazionale ed europea: viene da chiedersi se il noi nasca soltanto dalla vicenda particolare di Alma, dal suo ritrovato legame con Vili, il ragazzino nato nella terra al di là del confine e poi cresciuto con lei, amato e odiato con uguale passione, oppure se la prima persona plurale non alluda implicitamente anche al pronome collettivo che Ernaux ha scelto nel suo libro più famoso, Gli anni – nel qual caso diremmo che c’è un po’ di tutti noi nell’indagine che Alma compie tornando nella sua Trieste ed esplorando le radici che la collegano alla sua città, alla sua famiglia e dunque alla sua identità, sospesa tra qui e là.
Trieste è d’altro canto città chiave per capire la storia del Novecento, i vertici del pensiero e della letteratura, le asprezze di conflitti mai risolti: ma l’indagine familiare di Alma, la sua questione privata, ci mette in guardia dalla tentazione di guardare al passato come a qualcosa di semplice e pacificato. «Ricordati che i politici che hanno scatenato questo finimondo hanno fatto proprio così, sono andati indietro a guardare il passato e l’hanno ricostruito come volevano loro», le spiega suo padre nei giorni più infuocati. «Chi controlla il passato può controllare il presente». Manzon traduce così l’esperienza di ieri, nella speranza che se ne possa fare la consapevolezza di oggi. Ma non è tutto: il romanzo sorprende con pagine di struggente tenerezza quando evoca proprio l’età fragile di Alma, i suoi primi palpiti, il mare. E allora, specularmente a quanto si è detto per Di Pietrantonio, la lettura collettiva dei primi anni Novanta e del conflitto oltre confine, si fa personalissima. E commuove.
Carmen Pellegrino, Dove la luce (La nave di Teseo).
Incipit:
Credevamo di essere salvi. Figli dei figli di un miracolo, guardavamo all’Europa che si univa, guardavamo alla nazione che era stata vestita di pezze, poi con la camiciola nera, ma che ora, tutto d’un tratto, poteva comprarsi la pelliccia di visone a rate.
Explicit:
Invenzioni, mettiamola così, necessarie a intravedere quel filo di paglia a cui aggrapparsi. Solo un filo, una suggestione se si vuole. Ma tra niente e qualcosa, è qualcosa.
Carmen Pellegrino e il suo libro sono stato un incontro recente. Il titolo, bellissimo, allude a quella scintilla di speranza che Walter Benjamin chiama “immemorare”: ossia l’occasione di un «determinato momento del presente che entra in relazione con un determinato momento del passato». La storia si dipana tra due trame: quella che indaga, con molta fedeltà e molta libertà, la figura dell’economista Federico Caffè, e la sua scomparsa nel 1987, e quella che ricompone i ricordi della scrittrice (poco più che bambina all’epoca) e la sua relazione con il padre ormai anziano e con la madre che nei mesi della scrittura è molto malata. I due intrecci procedono per frammenti, capitoli brevissimi con titoli evocativi, prose immaginifiche e fulminee. Il ritratto di Federico Caffè richiama certamente La scomparsa di Majorana di Sciascia, ma con un di più di nostalgia per il paese che potevamo essere e non siamo stati dal momento in cui sul talento di alcuni sognatori («uomini liberi a cui non siamo abituati») ha prevalso la furbizia lupesca di molti, quando, proprio in quegli anni Ottanta, non a caso poco raccontati, la buona profezia è andata sprecata.
L’invenzione degli ultimi giorni dell’economista offre l’occasione per mettere in scena la sua visione di mondo e la sua idea di giustizia sociale, attraverso l’incontro con Milo, uomo senza fissa dimora che ha perso tutto per colpa di una banca, e attraverso le lettere indirizzate all’amica Alphonsine, nella finzione Simone Alphonsine Weil. È lei la musa che collega le vicende spicciole dei personaggi alle cose ultime, in una dimensione di attesa di Dio che Weil tentò di incarnare con tutte le sue scelte di vita: non semplicemente vicina agli ultimi, ma ultima fra gli ultimi. Scomparire allora è, da un lato, un modo per sgattaiolare via e così affermare “ciò che non siamo e ciò che non vogliamo”, ma anche, forse, una via speciale per partecipare ai misteri del creato, per sottrazione, secondo un processo che Weil chiamerebbe “decreazione”.
In coda al testo una ricca bibliografia rende ragione delle molte stratificazioni storiche, filosofiche e spirituali della scrittura; seguendole, come un filo rosso, si può leggere questo libro, che l’autrice definisce il più personale di tutti, come un’avventura dell’anima e insieme un’assunzione di responsabilità da parte di chi appartiene alla prima generazione senza traumi bellici, l’unica a cui sia stato chiesto di ereditare senza doversi porre davvero il problema di quel che comporta un’eredità.
L’eredità, paterna, è del resto il leit motiv di tutti e tre i romanzi di cui parlo, che inscenano proprio tre donne alle prese con una qualche forma di eredità, reale o metaforica.
E, dunque, come scrivono le donne?
Esistono buone e cattive scritture, libri belli e libri brutti: in parte è il gusto di chi legge a distinguere gli uni e gli altri, ma è certo che, al di là dell’interesse personale, un buon romanzo è un racconto a cui si crede senza sforzo e questo è il caso dei tre titoli che consiglio e che non sono neppure gli unici bei romanzi a firma femminile letto quest’anno (volevo una terna, diciamo). Forse non saranno i più adatti per chi cerca nella lettura soltanto uno svago, ma hanno alcuni tratti in comune (il tema dell’eredità) e bastano a dire che le donne, scrivendo, possono esplorare tutto, lo spazio delle relazioni parentali, quello della geografia che vince sulla storia, quello della riflessione etica e spirituale. E nessuno di questi spazi sarà mai una cosa sola fintanto che, a guidare l’indagine, sarà una vocazione universale. Dunque, chi pretende di inscatolare queste o altre buone scritture femminili attraverso sintesi astratte o non ha letto i libri di cui dice di parlare (e a cui infatti allude soltanto) oppure non sa leggere, il che, in qualche modo, confermerebbe la statistica: si legge poco, pochissimo, e forse anche alcuni “critici” mancano della curiosità e della pazienza necessarie alla lettura, qualità essenziali quando si voglia, appunto, «mettere in questione il mondo», come suggerisce Simone De Beauvoir.