Metafisica in gioco #1

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Si può pescare tra i tanti giochi di carte esistenti e produrre nuove versioni “filosofiche”, accattivanti e concettualmente significative, da portare dentro il curriculum di filosofia, integrando virtuosamente i giochi filosofici con la presentazione dei problemi, degli autori e dei concetti chiave della disciplina? Si può, a patto che l’insegnante accetti la sfida e si metta in gioco, insieme alla materia che insegna. Una buona pratica per la competenza filosofica, parte prima: le motivazioni teoriche.

Premessa. La buona filosofia si mette sempre in gioco

Principale cura (e cruccio) dell’insegnante sensibile alla dimensione dell’apprendimento è cercare sempre di interpretare e intercettare la forma mentis dello studente, il suo impatto con i problemi e il linguaggio della disciplina, per sfuggire alla trappola dell’autoreferenzialità dei contenuti e organizzare una mediazione didattica il più possibile efficace e virtuosa. In questa prospettiva è utile allargare il proprio campo prospettico al di fuori dell’aula scolastica, e misurarsi con la percezione sociale della propria disciplina, che rappresenta, per così dire, il bilancio consolidato nel lungo periodo dell’insegnamento e della comunicazione pubblica dei saperi.

Se proviamo a considerare la filosofia in quest’ottica, notiamo che essa gode di una singolare e controversa reputazione. Da un lato essa viene esaltata (e rimpianta) da chi l’ha studiata o sfiorata negli anni giovanili per la sua carica ideale e speculativa (le famose domande: chi sono? da dove vengo? ecc.), romanticamente contrapposta alla dimensione più prosaica dei problemi e dei saperi “concreti”, esperiti in seguito socialmente e professionalmente. Da un’altra prospettiva il linguaggio filosofico viene visto come un autentico enigma, un sapere astratto-astruso, avvitato in domande incomprensibili (essere, non-essere, boh…), un incontro insomma fallito, di cui si serba a mala pena qualche nome di pensatore (prevalentemente antico, tipo Talete o il famigerato Parmenide).

Ma a ben vedere le due prospettive sono complementari, in quanto facce della stessa medaglia. La filosofia, un sapere volta per volta ammirato o disprezzato, sempre però lontano dal mondo concreto, non spendibile dentro i casi della vita reale: confinato in un’astratta vocazione fondazionale (estranea alla cultura tecnico-scientifica), oppure ristretto in un orizzonte genericamente esistenziale e valoriale (dove subisce la concorrenza di linguaggi e pratiche sincretistiche filosofico-religiose), o infine semplicemente disconosciuto e inutilizzato nelle circostanze della vita sociale.

L’insegnamento tradizionale è in qualche modo complice della damnatio memoriae sociale di cui soffre la filosofia, perché chiuso in una dimensione astrattamente speculativa, lontana dal mondo dei problemi concreti, nonché attestato ancora su di una prospettiva storico-filosofica che privilegia una veloce narrazione unitaria dello sviluppo del pensiero, a scapito di un’analisi più attenta e meditata di determinati problemi filosofici.

Pensiamo che l’insegnamento della filosofia che recide il suo legame con il “mondo della vita” rischi di compromettere la sua peculiare funzione formativa, degenerando nella famosa “filastrocca delle opinioni” paventata da tutti i filosofi: una dossografia superficiale, per lo più subìta da generazioni di studenti, che alla fine alimenta quella versione caricaturale della filosofia (un sapere astratto e inutile) prevalente nell’immaginario collettivo.

Una riforma dell’insegnamento (non solo in ambito filosofico) dovrebbe muoversi quindi su due strade parallele. Da un lato rovesciare l’impianto didattico tradizionale, imperniato in prima istanza sul pensiero degli Autori, mettendo invece in primo piano da subito la “struttura della disciplina”, la trama dei problemi e concetti fondamentali della filosofia; considerando (poi) le sequenze filosofiche in cui essi si sono generati e applicandoli a “casi di studio” coerenti con i problemi che queste hanno portato alla luce. L’inversione di prospettiva (dagli Autori ai Concetti) non significa rimuovere la storia della filosofia, quanto ricalibrarla all’interno di un asse cognitivo e pragmatico che deve avere sempre la massima visibilità possibile.[1]

La seconda via da percorrere (speculare alla riforma dei contenuti) investe la forma organizzativa della lezione. Il superamento del tradizionale format storico-istituzionale del “programma” di filosofia (fondato sulla lezione ex cathedra) implica la partecipazione attiva degli studenti e l’adozione conseguente di modalità di apprendimento laboratoriali in forma individuale e cooperativa. Spostare il baricentro della lezione dal docente allo studente può favorire un’esperienza in prima persona del linguaggio filosofico, facendo maturare la consapevolezza che la filosofia, oltre lo stereotipo di scienza inutile, sia una disciplina che può fornire strumenti utili per affrontare criticamente i problemi della vita reale.

La filosofia è dunque condannata (per sua vocazione e natura) a mettersi sempre “in gioco”: interrogarsi costantemente su sé stessa, ripensare il proprio ruolo culturale, confrontarsi con i problemi e le pratiche sociali. A maggior ragione nella prospettiva didattica strutturale e costruttivista qui delineata, tesa a promuovere un approccio pratico-esperienziale al linguaggio della filosofia.

Da qui la proposta della “Metafisica in gioco”, un mazzo di carte filosofiche (o “Tarocchi filosofici”), divise nei 22 arcani maggiori e 52 carte per semi francesi. Uno strumento didattico pensato per i seguenti obiettivi: dare visibilità analogica al pensiero astratto, tenere sempre in primo piano le parole-chiave della filosofia, collegando volta per volta gli argomenti trattati con i simboli-concetti rappresentati dalle carte, realizzare esperimenti creativi e applicativi con il linguaggio filosofico. Nelle pagine che seguono proponiamo le basi teoriche della proposta didattica e infine alcune ipotesi di gioco realizzabile con le carte filosofiche.

1. Perché i “Tarocchi filosofici”: un fondamento teorico

I. La filosofia come attività

La filosofia (intesa come “scienza pratica”) è da sempre legata all’azione. Da Aristotele a Rorty la riflessione filosofica incontra il problema della prassi, ovvero come formulare un giudizio intellettuale su casi pratici particolari che sfuggono ai crismi di un’oggettività ideale. Proprio perché privi di “sostanzialità” i problemi sociali quotidiani sono filosoficamente appetibili e chiedono di essere interpretati, per orientare le persone a comportamenti più opportuni, in quanto “saggi”. A ben vedere anche la scienza contemporanea conosce un incremento di densità filosofica, appunto perché orfana di quei requisiti di oggettività-universalità che caratterizzavano il modello classico.

La filosofia (almeno nella sua versione antimetafisica) è dunque per sua natura “attività”, ovvero (kantianamente) un metodo indagativo, più che una serie di contenuti positivi: l’analisi, mai apoditticamente certa, dei fondamenti del conoscere e agire umano, che a noi si danno sempre e immediatamente in forma incerta e confusa. La riflessione filosofica, intesa come esercizio critico applicato ai diversi campi della cultura, si traduce quindi in un approccio didattico che privilegia l’‟attività” del filosofare rispetto allo studio sistematico degli autori e correnti in un ordine storico.

Un mutamento di prospettiva codificato nei recenti Orientamenti MIUR (2017) per la didattica liceale della filosofia. Il documento ministeriale insiste a più riprese sulla necessità di superare un approccio puramente teoretico e storico alla disciplina per far emergere con più chiarezza la sua vocazione pragmatica ed euristica («uno strumento conoscitivo ed operativo in grado di aiutare a comprendere e affrontare razionalmente alcuni fra i problemi che la vita ci pone ogni giorno»).[2]

II. Pensare per analogie

L’orizzonte pragmatico e dialogico del filosofare s’inscrive in una prospettiva psico-pedagogica che vede l’apprendimento come un processo globale-unitario, in cui la mente opera con modalità “analogiche”, reagendo cioè alle situazioni-problema con immagini sintetiche dei casi proposti.

Dopo l’egemonia del modello cognitivista-digitale, negli ultimi decenni si è affermata l’idea di un pensiero “incarnato” (embodied mind), che vive cioè dell’integrazione di sfere cognitive diverse, senza una rigida cesura tra sfera sensoriale, dimensione della prassi e processi cognitivi superiori. In questa prospettiva la conoscenza della realtà non può essere separata dall’azione e dagli schemi intuitivi con cui la mente organizza la sua risposta ai problemi.[3]

Il ruolo del “pensiero analogico” è altresì il principale riferimento cognitivo nella definizione dello statuto teorico della “competenza”, nella prospettiva di una riforma dell’insegnamento capace di mediare virtuosamente l’acquisizione del sapere con la dimensione “enattiva” dell’apprendimento, ovvero la capacità di utilizzare le conoscenze nei contesti d’uso e di fronte a problemi complessi.

Nella scuola italiana continua invece a gravare un’ipoteca intellettualistica che mette in secondo piano il saper fare in situazione e non considera il ruolo costruttivo dell’intuizione nell’apprendimento: un antico pregiudizio epistemologico e didattico (di matrice platonica) vede infatti i concetti scientifici “privi di colore e di forma”, dunque invisibili ai sensi e accessibili solo al puro intelletto, che opera sulle “conoscenze dichiarative” acquisite secondo una modalità analitica, cioè logico-sequenziale. Secondo questa prospettiva la mente apprende isolatamente le conoscenze prima su di un piano teoretico, e solo in seguito (eventualmente) le applica e declina all’interno di un orizzonte pratico di “casi di realtà”.

La conoscenza, al contrario, non nasce dalla teoria per poi proseguire nella prassi, ma si sviluppa sempre nell’orizzonte pratico e vitale dell’esperienza, attraverso le risorse culturali assimilate dall’ambiente, che rappresentano i nostri “strumenti protesici” per interagire con la realtà. Techne non è l’ancella di Episteme, perché l’esperienza è “carica di teoria” e quest’ultima, a sua volta, è declinabile come l’insieme di oggetti e utensili (culturali) che formano lo “sfondo” cognitivo di una “cognizione incorporata” (embedded cognition) nella dimensione della vita e dell’ambiente.[4]

La letteratura sulle competenze si fonda dunque sulla rivisitazione del rapporto tra teoria e prassi e il superamento di una concezione ristrettamente intellettualistica dell’apprendimento. L’orizzonte situazionale e pratico del pensiero riconosce il carattere implicito e inconscio degli schemi cognitivi che utilizziamo nelle diverse circostanze, collegabili, secondo Perrenoud, alla nozione filosofica e sociologica di “habitus”. Anche Le Boterf rileva un aspetto quasi “alchemico” e incognito della competenza, vista come “strano polo d’attrazione” mentale, che innesca la “mobilitazione” integrata delle risorse cognitive.[5]

La prospettiva biologica si salda in questo modo con la dimensione storica e culturale dell’apprendimento. Le dinamiche interne al cervello si coagulano attorno a “attrattori” neurali, rappresentabili, dal punto di vista cognitivo, come “schemi” (frames) che permettono di mappare le informazioni all’interno di un’enciclopedia mentale stabile.

Questi non sono associabili linearmente a puri concetti o a una sintassi logica funzionali alla rappresentazione del mondo, quanto a “un insieme di nodi con forti connessioni” [6] che difendono la stabilità del sistema neurale insieme all’orizzonte di senso in cui facciamo esperienza del mondo e nominiamo le cose. La nostra mente costruisce costantemente e immediatamente, su di un piano prelinguistico, analogie tra le situazioni-problema che incontra e gli schemi percettivi e cognitivi inscritti nel nostro patrimonio genetico e culturale. L’intuizione, orientata da immagini inconsce, guida la nostra scoperta del mondo prima (o all’interno) del pensare formalizzato in parole-concetti.

III.  Memi, prototipi, simboli

Memi

Secondo una prospettiva evoluzionista-selezionista la nostra vita psichica si sviluppa attorno a nuclei di stabilità responsabili della formazione del pensiero: questi si configurano come “memi” culturali, un repertorio di informazioni cablate nel cervello e che (alla stregua dei geni in ambito biologico) tendono a replicarsi nell’ambito socio-cognitivo attraverso processi selettivi in gran misura inconsci.[7]

Il cervello, orientato da questi selettori cognitivi, costruisce in ogni circostanza delle catene associative guidate da schemi o strutture che permettono di “vedere” immediatamente e globalmente i contorni del problema, costruendo da subito un’immagine mentale del “caso” da risolvere. Solo in seguito (o contestualmente) interviene una codifica logico-linguistica sul piano semantico e sintattico, si “trovano le parole” per rispondere adeguatamente alla situazione-problema.

L’organizzazione “bimodale” del cervello (emisferi destro/sinistro) seguirebbe quindi un “principio di direzionalità” cognitiva che procede dalla percezione globale e simultanea (analogica) delle informazioni in entrata, al controllo analitico e sequenziale che costantemente ristruttura e consolida le conoscenze in un universo semantico e sintattico formalizzato.[8]

Prototipi

Anche all’interno della teoria semantica la modalità “analogica” gioca un ruolo cognitivo di primo piano. Soprattutto nell’ambito dei concetti “mal definiti”, ovvero dai confini sfocati e incerti: la matrice che lega insieme gli esemplari di un concetto “mal definito” non è la risultante logica di tutti gli attributi comuni, ma un insieme di “somiglianze di famiglia” ovvero di “analogie” che legano gli individui senza che vi sia una caratteristica che tutti condividono. Il concetto unificante è quindi un “tipo ideale” che possiede “in modo combinato, attributi che nessun membro singolo realmente possiede”: un “prototipo” o “modello” a cui i singoli esemplari si rifanno in misura diversa e da prospettive parziali.[9]

La mente, nel classificare gli oggetti, sembra dunque obbedire, in prima istanza, a un criterio di “economia cognitiva” più che a un imperativo teoretico: i concetti vengono imparati prima e meglio a un “livello base” intermedio tra le rappresentazioni più astratte e generali e quelle subordinate e specifiche relative a un campo di oggetti (ad es. il concetto “base” cane è appreso e usato più facilmente delle categorie più astratte canide-mammifero-essere vivente, oppure quella più specifica bull terrier). Ma cosa rende psicologicamente efficace questa classe di concetti, su cosa si fonda il loro successo cognitivo?

I concetti al “livello-base” risultano pragmaticamente vincenti perché evocano una “forma visiva” comune (es. i veicoli automobile, camion ecc.), non richiamata invece per niente dalla categoria più astratta (veicolo), oppure non immediatamente da concetti subordinati quali auto sportiva, berlina ecc. Il pensiero, in altri termini, è guidato da “prototipi” che forniscono una immagine globale-analogica del campo oggettuale e dei problemi che incontra, prima della mediazione riflessiva operata con categorie “scientifiche”.[10]

Le analogie ingenue non esauriscono a questo punto il loro compito, lasciando il campo al pensiero scientifico “adulto”, ma continuano a vivere e a coesistere con le conoscenze formali trasmesse dalla scuola: tra “concetti quotidiani e concetti scientifici” non esistono confini a tenuta stagna e “ogni disciplina non è un’isola sconnessa dalle altre discipline” e dall’esperienza ordinaria della realtà.[11]

Le analogie e i concetti ingenui svolgono, in questa prospettiva, un prezioso ruolo di ponte (e di mediazione didattica) tra intuizione e riflessione, preconcezioni inconsce e strutture formali della scienza. L’insegnamento non interviene semplicemente a resettare le conoscenze ingenue, sostituendole con il sapere “esperto”, ma a “rifinire l’insieme dei contesti in cui lo studente tende ad applicare un’analogia ingenua”,[12] mantenendo viva la potenza evocativa delle immagini. Queste non rappresentano un residuo irrazionale da espellere, ma l’altra faccia (analogica) della stessa realtà a cui partecipano le “categorie”, ovvero “il cuore pulsante del pensiero”.

Simboli

L’insegnamento non deve quindi affrettarsi a rimuovere le grandi immagini prototipiche che guidano la nostra conoscenza del mondo. I confini dei concetti sono spesso intrinsecamente confusi, oppure la mente-studente per inesperienza non è in grado di afferrare da subito la portata euristica delle categorie proposte dal docente.[13] L’immaginazione e le analogie ingenue possono quindi giocare un ruolo propedeutico fondamentale nell’avvicinare lo studente a un campo problematico e a un repertorio categoriale.

La riflessione psicologica e antropologica sul pensiero simbolico offre un prezioso contributo nel raccordare insieme immaginazione e pensiero formale, conscio e inconscio. La mente reagisce alle situazioni inedite attraverso “metafore vive”,[14] tali in virtù della loro natura icastica ed esperienziale, non riducibile a semplice ornamento o travestimento del linguaggio verbale convenzionale e del significato letterale delle parole. In questa prospettiva il carattere “insolito” dell’uso metaforico non risiede nella ricerca artificiale di effetti retorici, ma nello sforzo creativo di ricondurre uno stimolo nuovo a un’immagine nota, grazie alla quale l’esperienza inedita viene interpretata e acquista gradualmente un “senso”.

La mente non è una tabula rasa né un operatore logico, ma un denso e fluido repertorio di potenti immagini simboliche che vengono proiettate immediatamente sulla realtà e filtrano la nostra interpretazione del mondo: figure di sintesi e mediazione tra sfere cognitive e psicologiche contigue, ma problematicamente distinte. Dal punto di vista cognitivo esse rappresentano infatti un ponte tra il noto e l’ignoto, l’universale del concetto e il concreto dell’immagine visiva; così come, sotto un profilo psicologico e antropologico, la psiche è abitata da “archetipi” o simboli inconsci che mediano (coerentemente con l’etimologia di simbolo) tra il regno delle pulsioni e l’ordine del pensiero, tra natura e cultura. Una fitta “ragnatela di significati” in cui gli uomini (come “animali simbolici”)[15] sono sospesi, essendone in qualche misura sia produttori che il prodotto e il risultato.

In questa prospettiva il pensare simbolico assume una valenza esistenziale, prima che cognitiva, ricomponendo, attraverso le immagini mitico-simboliche, quei frammenti del Sé dimenticati che chiedono costantemente di essere chiarificati, entrando gradualmente nell’universo dei segni e del pensiero condiviso socialmente.[16] Il parallelismo junghiano tra la coniunctio alchemica e la sintesi di conscio ed inconscio può essere accostato, chiudendo il cerchio del nostro percorso, al carattere “alchemico” e incognito della competenza, vista come “strano polo d’attrazione” mentale, che innesca la “mobilitazione” integrata delle risorse cognitive.[17]

IV. Philosophia ludens

Le dimensioni cognitive fin qui trattate (il ruolo dell’azione, l’immaginazione, il pensare per modelli e simboli) costituiscono anche la trama psicologica del gioco, inteso come forma di narrazione del mondo e di formazione del Sé che trascende l’età dell’infanzia e permea anche la vita adulta.

Nel gioco infantile ritroviamo, con particolare evidenza, la polarità di concreto e astratto, immaginazione e pensiero formale, inconscio e conscio che sembra caratterizzare l’intera sfera conoscitiva. Il carattere “bimodale” del pensiero si esprime qui nell’oscillazione tra un ordine minacciato e poi salvato, lo smarrimento fisico-psicologico (vedi i giochi a nascondino, mosca cieca ecc.), che si ricompone dialetticamente quando il bambino rivede la realtà, oppure trova rifugio nella tana che “libera tutti” dalle insidie dell’ignoto.[18]

Nel gioco, come nella conoscenza “razionale” della realtà, la mente passa da uno stato di confusione e incertezza a una progressiva messa a fuoco della soluzione del problema:[19] un’esperienza cognitiva, legata all’azione e all’immaginazione (quindi in un certo senso all’avventura), che non coincide con una visione puramente intellettualistica dell’apprendimento.

La simulazione della realtà e la costruzione di mondi immaginari non riveste dunque solo un ruolo psicologico, ma anche teoretico: il gioco e il linguaggio costituiscono le prime precoci manifestazioni delle competenze simboliche dei bambini, la raffigurazione-sostituzione fantasmatica di oggetti e situazioni concreti, così come la meta-rappresentazione di stati mentali ed emozioni che chiedono di essere interpretati e codificati.

Ma sarebbe riduttivo concepire l’attività ludico-simbolica come semplice anticamera del pensiero astratto, superata quindi definitivamente dallo “stadio formale” dello sviluppo mentale. L’immaginazione creativa e il pensare per associazioni visive permangono vive dentro il pensiero adulto, fornendo gli schemi interpretativi e le tracce intuitive da cui prende le mosse il pensiero ipotetico-deduttivo, che formula la versione razionale definitiva di un problema. L’apprendimento muove sempre da una situazione fluida di dubbio e incertezza che richiede un’immagine globale di risposta ai problemi incontrati: la vita del pensiero conosce quindi una “zona di sviluppo prossimale” verso la scienza, una dimensione dinamica e costruttiva dell’apprendere in cui giocano un ruolo decisivo le preconcezioni (ancorchè) ingenue iniziali delle situazioni-problema.[20]

La funzione ludica e l’immaginazione rivestono un ruolo cruciale nella “transazione” fluida tra i problemi cognitivi e le precognizioni che filtrano l’apertura all’esperienza, una “zona di sviluppo” cognitivo in cui promuovere una “rifinitura” intellettuale progressiva delle “analogie ingenue” iniziali e l’‟accomodamento” di strutture concettuali più mature e vicine alla complessità del sapere esperto.

La dimensione creativa e immaginativa del gioco rappresenta in particolare una risorsa preziosa per l’apprendistato del linguaggio filosofico. L’astrattezza delle categorie filosofiche (un vero tabù per il neofita come ricordavamo all’inizio) può recuperare un “corpo sensibile” grazie al repertorio di potenti immagini analogiche depositate nella memoria collettiva e in qualche modo associabili ai concetti chiave della filosofia. La storia della filosofia non difetta d’altronde (come del resto la storia della scienza) di immagini analogiche e miti che richiamano concetti astratti (Sfera-Essere, Sole-Bene, Caverna-Corpo, Demone-Anima, Idoli-Pregiudizi, Teatro-Mente ecc.), consentendo di sfrondare il linguaggio filosofico dei suoi aspetti tecnicistici (se non esoterici per molti). La filosofia vive, d’altro canto, nel movimento circolare tra l’ab-strazione di concetti-significati dalla realtà immediata naturale e il ritorno alla dimensione del concreto, rappresentato dai problemi quotidiani vissuti nelle diverse sfere della vita sociale.

La “serietà” della filosofia non risulterà quindi compromessa da un approccio ludico ai temi filosofici, che può utilizzare diverse modalità d’interazione creativa con il linguaggio della disciplina: la forma teatrale del role play che drammatizza celebri episodi della storia della filosofia, la pratica ormai collaudata del debate imperniato su questioni etico-politiche, oppure (è l’argomento di questo scritto) la sperimentazione di giochi combinatori con carte che raffigurano i principali problemi e concetti filosofici.

Il gioco, al di là della sua valenza teoretica, incontra un altro aspetto costitutivo della filosofia: la sua dimensione dialogica e sociale, spesso disattesa nella normale prassi didattica, ora invece esaltata perché vede gli studenti interagire tra loro per gestire le regole del gioco praticato e soprattutto negoziare il significato dei concetti filosofici coinvolti.

Il gioco si fa sempre assieme, un’interazione e condivisione dei significati che accomuna anche semanticamente (nella radice cum-petere) la competizione e la competenza, mostrando la comune appartenenza dei due termini alla dimensione sociale e simbolica della cultura.[21]

Nella sua natura di esperienza “in prima persona”, vissuta al margine tra ordine e crisi cognitivi, come dimensione creativa dell’″esplorazione e del cambiamento”, il gioco è quindi una costante dell’apprendimento e, come tale, non deve essere rimosso dalle buone pratiche dell’insegnamento. Nello specifico della filosofia il gioco può svolgere un prezioso ruolo ponte tra immaginazione e pensiero formale, oltre che valorizzare la dimensione sociale e dialogica che è costitutiva della sua identità.

Dopo aver gettato le basi teoriche dei “Tarocchi filosofici” proviamo ora a definire un set provvisorio di giochi didattici, capaci di sviluppare in modo creativo le competenze filosofiche.

[continua qui]


Note

[1] Per una proposta complessiva di riforma della didattica della filosofia v. Siess, 2019.

[2] Orientamenti per l’apprendimento della Filosofia nella società della conoscenza, a cura del Gruppo tecnico-scientifico di Filosofia, MIUR – Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici e la valutazione del sistema nazionale di istruzione, 2017, Roma, p. 13.

[3] Per un approccio olistico alla teoria cognitiva cfr. Morin 2000, Maturana e Varela 1985, Edelman 2004, e soprattutto la svolta globalista di Fodor 2004.

[4] Embedded-embodied nelle moderne neuroscienze sono una coppia di termini che indicano, in opposizione al modello cognitivista, un pensiero “integrato” nell’ambiente e “incorporato” nei processi vitali. Alla base di questo orientamento v. Damasio 1995, Edelman 1994, Maturana e Varela 1985.

[5] Perrenoud 2010. La citazione di Le Boterf ivi, pp. 26, 32-33.

[6] Searle 2006, p. 160. Qui l’idea di “sfondo” cognitivo viene accostata al modello “connessionista” versus il modello di elaborazione seriale dell’informazione proprio della tradizione cognitivista.

[7] Il concetto di “meme” (Dawkins 1979), per il suo carattere insieme organico e culturale, può essere accostata all’idea di “attrattore” cognitivo nelle neuroscienze contemporanee. Sulla teoria dei “memi” v. in particolare Dennet 2015.

[8] Il ruolo svolto dalla modalità analogica-intuitiva del pensiero nei processi di apprendimento è al centro degli studi psicolinguistici. Begotti 2006, Danesi 1998.

[9] Il carattere “raffigurativo” dei concetti viene criticato da semantiche che evidenziano il carattere pratico e contestuale dell’uso dei predicati, guidati da “somiglianze di famiglia” e “prototipi” generali. Frixione 2007, Fodor 2004, Hofstadter-Sander 2015.

[10] Per un’analisi delle semantiche pragmatiche e la loro ricaduta sul piano didattico v. Damiano 2004, pp. 93 sgg.

[11] Hofstadter-Sander 2015, p. 423.

[12] Ivi, p. 421.

[13] L’ambiguità dei concetti può essere ricondotta sia ai loro confini incerti, sia alla scarsa dimestichezza delle singole persone con determinati campi semantici. Damiano 2004, p. 131, Hofstadter-Sander 2015, p. 422.

[14] Ricoeur 1981 evidenzia come l’immagine metaforica, investendo la dimensione categoriale, cioè un insieme di fattori di natura logica, sia parte costitutiva della formazione dei significati.

[15] La definizione dell’uomo come “animale simbolico”, che pone la contiguità tra sfera semantica e dimensione antropologica e sociale, è al centro dell’opera di Geertz 1987 e Cassirer 2015.

[16] Per Jung l’integrità e salute esistenziale del Sé si gioca nella continua mediazione tra coscienza e inconscio, tra il regno dell’istintualità e l’ordine del pensiero. L’immagine alchemica della coniunctio come simbolo di trasformazione (l’unione finale delle sostanze chimiche per la produzione dell’oro) “corrisponde all’integrazione dell’inconscio nella coscienza, operazione che produce una trasformazione di entrambi”. In Carotenuto 1995, p. 213.

[17] Il sopra citato Perrenoud 2010, pp. 26, 32-33.

[18] Sul gioco come agire simbolico che struttura le psiche infantile v. Bettelheim 2012, pp. 259 sgg. Di notevole interesse il parallelismo rilevato da Einstein tra il gioco combinatorio (es. puzzle) e l’intelligenza scientifica, ivi, p. 269.

[19] L’ambiguità e l’incertezza, come è noto, sono visti da Dewey come veri e propri motori epistemici nel processo di apprendimento. Dewey 1961, pp. 61-78.

[20] La “zona di sviluppo prossimale” rappresenta in Vygotskij 1973 la dimensione evolutiva della cognizione presidiata e attivata dal docente. Per una discussione critica del concetto rinviamo a Siess 2017, pp. 249-258.

[21] Bettelheim 2012, p. 37.

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Dario Siess

È docente e Presidente dell’associazione “Filosofi per Caso”.

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