Da quando alla fine del XVIII secolo ha fatto il suo esordio tra le scienze sociali, l’economia si è progressivamente posta come disciplina di ricerca sulle condizioni di efficiente allocazione di risorse scarse. Non a caso, un grande pensatore ottocentesco quale Thomas Carlyle1 la definì «scienza triste» (dismal science), in contrasto con la “gaia scienza” dei poeti, proprio per l’attitudine della prima a occuparsi di rinuncia, di scelte alternative e mutualmente esclusive.
Tra i criteri che devono orientare le scelte degli agenti vi sono, secondo la teoria economica, il riconoscimento e la giusta remunerazione del contributo individuale al benessere collettivo, anche quando contributo non intenzionale o motivato esclusivamente da obiettivi particolaristici. Il luogo in cui tale riconoscimento/remunerazione avviene è il mercato, che grazie ai propri automatismi riesce ad essere un’istituzione efficiente e, diremmo oggi, meritocratica.
In effetti, il termine “meritocrazia” è molto più recente degli scritti dei padri della scienza economica. Esso fa il suo esordio nel 1958 grazie a un sociologo inglese, Michael Dunlop Young, e si tratta di un esordio tutt’altro che trionfale: l’autore, infatti, lo utilizza in un testo, The Rise of the Meritocracy2, a metà tra il romanzo fantasociale e il saggio, in cui descrive una società incentrata sul merito e il talento intellettuale, ma proprio per questo distopica, capace di produrre una nuova classe di superdotati oggetto di rispetto e detentori di potere. È quasi paradossale notare come il termine perda la sua accezione negativa, trasformandosi in un riconoscimento dei “giusti meriti” e del conseguente diritto/dovere a guidare la società, grazie al Labour party di Tony Blair, come altri partiti della sinistra europea di quegli anni affascinato dalle doti demiurgiche del libero mercato.
Il mercato, si diceva. Organo tra i più potenti della società odierna, luogo in cui l’interazione tra domanda e offerta definisce, grazie al meccanismo dei prezzi, il giusto valore di qualunque bene o servizio. Anche dei servizi lavorativi, cosicché ogni singolo lavoratore, in un sistema di mercato, va remunerato secondo il proprio merito, misurabile in termini non di sforzo profuso, bensì di contributo individuale al prodotto finale o, per meglio dire, al suo valore di mercato.
Già su questi primi aspetti, mercato ed efficienza, merito e giusta retribuzione, la stessa teoria economica individua le prime “crepe”. Innanzi tutto, introducendo la categoria dei “fallimenti del mercato”, situazioni cioè in cui le ipotesi di base per il pieno funzionamento del mercato vengono meno, cosicché la sua teorizzata efficienza non si manifesta.
È interessante notare come una delle categorie di fallimento del mercato definite dalla scienza economica chiami in causa in qualche maniera proprio il concetto di “merito”: si tratta dei merit goods3, “beni meritori” in italiano, i cui benefici risultano sistematicamente sottostimati dai consumatori. Consumatori che – contrariamente a quanto preteso dalla teoria (ecco l’origine del “fallimento”) – non sono razionali, né pienamente coscienti delle proprie effettive necessità. I beni ambientali (aria pulita, qualità del paesaggio, capacità di assorbimento delle emissioni) ne sono un esempio, ma lo sono anche servizi come l’istruzione scolastica nelle comunità in ritardo di sviluppo, che scelgono di far lavorare i minori anziché affidarli alla scuola (si pensi allo straordinario Padre padrone di Gavino Ledda4, portato sullo schermo dai fratelli Taviani nel 1977), oppure la tutela della salute personale in contesti collettivi.
Nei casi di fallimento del mercato, è lo Stato a fornire il bene a una comunità di consumatori non abbastanza razionale o informata per esprimere individualmente l’efficiente livello di domanda, intervenendo d’autorità (imposizione dell’istruzione fino ai 16 anni, obbligo di legge a ridurre le emissioni climalteranti, vaccinazione obbligatoria) o con la somministrazione gratuita del bene (istituzione di un parco naturale, riduzione del prezzo all’utenza del trasporto pubblico locale, e così via).
Guardando invece al secondo aspetto, ovvero la remunerazione del lavoratore secondo criteri di merito, è di nuovo la teoria economica a individuare una sorta di cortocircuito, grazie a Bengt Holmstroem, economista finlandese insignito del Premio Nobel nel 2016. In un lavoro del 19825, egli mostra come un sistema di remunerazione basato sul contributo personale finirebbe per eccedere il valore di mercato del bene, generando così una competizione interna per decidere chi remunerare di meno, con effetti dirompenti per l’organizzazione stessa.
Qui, tornano alla mente le parole di Papa Francesco pronunciate allo stabilimento Ilva di Genova, nel maggio 2017:
Quando un’impresa crea scientificamente un sistema di incentivi individuali che mettono i lavoratori in competizione fra loro, magari nel breve periodo può ottenere qualche vantaggio, ma finisce presto per minare quel tessuto di fiducia che è l’anima di ogni organizzazione.
Ed è forse sintomatico che, nell’ambito dello stesso incontro, Bergoglio abbia proseguito parlando di meritocrazia:
un altro valore, che in realtà è un disvalore, è la tanto osannata “meritocrazia”. […] La meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza. Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla diseguaglianza, perché interpreta i talenti delle persone non come dono: il talento non è un dono secondo questa interpretazione, è un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi6.
Talento e merito come concetti distinti, un tema già affrontato da un filosofo molto apprezzato tra gli economisti eterodossi, quel John Rawls che ha definito il merito come somma di talento e sforzo7. Nella concezione del filosofo di Baltimora, il talento rappresenta una sorta di «dotazione iniziale» dell’individuo che dipende dal contesto: non pura espressione della “genialità” del singolo, bensì prodotto delle competenze – o meglio, di quelle che un altro filosofo e premio Nobel per l’economia del 1998, Amartya Sen8, definì capabilities – che l’individuo ha potuto accumulare nel tempo. Ma le capabilities hanno una radice fondamentale nelle opportunità di partenza, a loro volta esito primario e ineguale di quanto ereditato dall’ambiente sociale ed economico di provenienza.
Per essere davvero efficiente, un sistema meritocratico non può prescindere dall’assicurare ai propri membri pari condizioni di partenza. È questo un aspetto alla base di una recente proposta del Forum Diseguaglianze e Diversità: l’istituzione di “un’eredità universale” di quindicimila euro, da assegnare a ogni cittadino al compimento del diciottesimo anno d’età, finalizzata a che «la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza accumulata dalle precedenti generazioni non sia determinante per le opportunità individuali, avvicinando così le opportunità di ultimi, penultimi e vulnerabili a quelle di primi e resilienti»9.
Infine, l’ultimo elemento di attenzione, se non di critica, al concetto di merito e al corollario rappresentato dalla meritocrazia, proviene – forse inaspettatamente – da uno dei campioni del pensiero neo-liberale e della sua trasposizione alla teoria economica. Si tratta di Friedrich von Hayek, Nobel per l’economia nel 1974, un premio che inaugurò un lungo e non ancora esaurito periodo di sfiducia verso le teorie keynesiane e redistributive che avevano caratterizzato le politiche economiche del Secondo Dopoguerra.
In un recente lavoro di approfondimento dell’opera di von Hayek10, Alberto Mingardi11 – direttore del Centro Bruno Leoni, uno dei principali think tank sul liberismo in Italia – rimarca come spesso l’economia si riduca a un “gioco di fortuna”, che remunera chi ha l’unico merito di trovarsi al posto giusto, al momento giusto. Questa lettura riporta alla mente L’estinzione dei tecnosauri12, il piacevolissimo volume di Nicola Nosengo che, adottando gli strumenti della Teoria della complessità applicata ai temi economici, racconta la storia di una serie di innovazioni troppo avanzate rispetto ai tempi e alla capacità di accoglierle della società coeva, tanto da essere abbandonate o, nei casi più fortunati, da avere successo solo a decenni di distanza. Che si tratti dell’auto elettrica, del videotelefono o di tecnologie di riproduzione audiovisuale, a essere premiato per l’innovazione in questo secondo caso non è stato il suo inventore originario, ma chi ha avuto la prontezza di riscoprirla o reinterpretarla nel momento in cui si è rivelata più adatta alle esigenze della collettività, e quindi richiesta dal mercato.
A conclusione di questo breve ragionamento, si può affermare che la nozione di merito nella trattazione della scienza economica conosca più di un’articolazione e di uno sviluppo. Spesso il concetto è citato a supporto del libero mercato, o quantomeno della necessità di adottare meccanismi e incentivi in grado di allocare le risorse secondo criteri di efficienza. Proprio per questo motivo, secondo alcuni critici l’idea di meritocrazia rappresenterebbe un semplicistico fattore di legittimazione di un sistema iperliberista e, soprattutto, poco favorevole alla redistribuzione, se non all’intervento pubblico in economia tout court. In realtà, il concetto è così nebuloso – «l’idea di meritocrazia può avere molte virtù, ma la chiarezza non è una di quelle virtù», afferma lo stesso Sen in Merit and justice – da conoscere più di una critica e più di un distinguo, spesso provenienti dagli stessi fautori del liberismo neoclassico.
Note
- T. Carlyle, Occasional Discourse on the Negro Question, in «Fraser’s Magazine for Town and Country», Vol. XL, 1849.
- M. D. Young, The Rise of the Meritocracy, Thames and Hudson, London 1958.
- R. A. Musgrave, A Multipl]e Theory of Budget Determination, in «FinanzArchiv», New Series 25/1, 1957.
- La prima edizione è per Feltrinelli, Milano 1975.
- B. Holmstroem, Moral Hazard in Teams, in «The Bell Journal of Economics», 13/2, 1982.
- Citato in un editoriale di De Mauro apparso su «Internazionale» il 31 marzo 2017 e consultabile all’indirizzo www.internazionale.it/opinione/giovanni-de-mauro/2017/05/31/lavoro-papa.
- J. Rawls, A Theory of Justice, Harvard University Press, Cambridge, MA 1971.
- Di Sen si vedano almeno La disuguaglianza, il Mulino, Bologna 1992; A. Sen, Merit and Justice, in J. K. Arrow, S. Bowles, S. Durlauf (a cura di), Meritocracy and Economic Inequality, Princeton University Press, Princeton 2000.
- Consultabile all’indirizzo www.forumdisuguaglianzediversita.org/wp-content/uploads/2019/03/3-passaggio-generazionale.x96206.x84368.pdf.
- F. von Hayek, Law, Legislation and Liberty: A New Statement of the Liberal Principles of Justice and Political Economy, Routledge, London 1982.
- A. Mingardi, Contro la tribù. Hayek, la giustizia sociale e i sentieri di montagna, Marsilio, Venezia 2020.
- N. Nosengo, L’estinzione dei tecnosauri, Sironi, Milano 2003.