Materialità in trasformazione

Tempo di lettura stimato: 15 minuti
Una riflessione su un impiego critico delle nuove tecnologie digitali in ambito didattico, che parte dall’assunto di scuola come ambiente di apprendimento socialmente e tecnologicamente “denso”, e che si interroga sulle trasformazioni della materialità educativa in uno scenario storico caratterizzato dall’emergenza legata all’attuale pandemia.
ASIMO, sviluppato dalla Honda, è considerato il robot più intelligente del mondo, ma può anche camminare, girarsi, correre a 9 km all’ora, salire e scendere le scale, ballare, dirigere un’orchestra, spostare gli oggetti e molto altro ancora.

La pandemia causata dal virus Covid-19 e le misure adottate per contrastarla, come ben sappiamo, hanno repentinamente scosso le nostre certezze consolidate e hanno stravolto l’organizzazione dell’esistenza individuale e collettiva, rispetto ai tempi, agli spazi, alle relazioni, alle abitudini che contrassegnavano la nostra quotidianità.
L’emergenza sanitaria è divenuta presto anche un’emergenza economica, sociale, politica, culturale, che ha costretto a ridefinire in profondità e radicalmente l’assetto di intere società, i modi di curare e di curarsi, di usufruire dei servizi, di spostarsi, di socializzare, di comunicare, di produrre, acquistare e consumare beni materiali e immateriali.
Non è dato sapere oggi se tale scenario abbia provocato e provocherà delle conseguenze rilevanti, ma per molti aspetti solo temporanee e circoscritte ad alcuni Paesi e ad alcuni ambiti della vita associata, o se determinerà l’emersione di un nuovo (dis)ordine globale. L’incertezza sugli esiti di questa crisi nel medio e lungo periodo è un tratto caratterizzante il momento che tutti stiamo vivendo.
Qualunque sarà lo sbocco socio-economico e politico, comunque, è facile prevedere che quanto accaduto lascerà delle tracce irreversibili in ciascuno di noi e nella memoria collettiva. Tracce che possono e devono divenire oggetto di ricerca scientifica e di riflessione comune e condivisa, anche rispetto all’impatto dell’attuale emergenza sui sistemi formativi, sia scolastici che extrascolastici.
Il presente scritto vuole dunque essere un contributo – seppur certamente modesto – in questa direzione, per provare a interrogarsi sul senso pedagogico di quanto è avvenuto e sta avvenendo, mantenendo un focus specifico sulla scuola.

La scuola ai tempi del Coronavirus

In Italia – ma evidentemente si può supporre anche altrove – la sospensione delle attività didattiche in presenza e il cosiddetto lockdown hanno riconfigurato molto rapidamente la fisionomia dei processi di insegnamento-apprendimento negli atenei di tutto il Paese e nelle scuole di ogni ordine e grado. All’improvviso, senza che vi sia stato tempo per prepararsi, tutto è cambiato: l’organizzazione delle giornate e degli spazi, le procedure amministrative e formative, le strategie relazionali e comunicative, i meccanismi di valutazione, i materiali didattici utilizzati, i rituali quotidiani. La consueta liturgia del fare scuola, insomma, è del tutto saltata ed è stata sostituita da nuove modalità di didattica a distanza, che inevitabilmente hanno portato a enfatizzare il ruolo primario delle tecnologie digitali e hanno obbligato alunni e insegnanti a impegnarsi per reinventare giorno per giorno routine, regole, gesti educativi, modi di relazionarsi.
I media digitali, da semplici mezzi educativi più o meno integrati nella didattica erogata in aula, sono diventati degli attori essenziali, che hanno consentito di poter continuare a fare scuola senza recarsi fisicamente negli istituti. Ciò ha permesso agli studenti di non perdere l’anno scolastico e alla maggior parte di loro di proseguire il proprio percorso di apprendimento, nonché di restare connessi con compagni e docenti, arginando così (forse) una drammatica impennata della dispersione scolastica.
Al contempo, anche grazie all’attivazione di reti di solidarietà e a un cospicuo e fecondo scambio sul web di idee, modelli, documenti, metodologie, strumenti digitali, narrazioni di “buone pratiche” e di progetti educativi, molte scuole hanno dato vita a interessanti e in alcuni casi innovative esperienze didattiche1.

Tuttavia, l’adozione diffusa delle tecnologie digitali per far fronte alla situazione di emergenza non solo ha creato le condizioni per mantenere e per promuovere un’inclusione sociale e formativa, ma ha anche generato – seppur involontariamente – in alcuni contesti e rispetto ad alcuni casi particolari delle nuove forme di disagio, di povertà educativa, di discriminazione e di esclusione sociale.
Il modo in cui il sistema di istruzione si è riorganizzato, infatti, ha comportato notevoli difficoltà a una vasta platea di soggetti. Ad esempio: a coloro che non possiedono le competenze digitali necessarie per utilizzare proficuamente gli strumenti proposti per fare lezione e per esercitarsi, a coloro che per le più svariate ragioni (economiche, o dovute a carenze infrastrutturali, o per scelte culturali) nelle proprie abitazioni non hanno la possibilità di accedere al web o di utilizzare dei dispositivi (pc, smartphone, tablet, ecc.), a coloro che hanno uno stile di apprendimento e una dieta mediale che si adattano con grande fatica a modalità didattiche digitalizzate, a coloro che già prima dell’emergenza avevano problemi di apprendimento e in generale a tutti quegli alunni che manifestano delle fragilità o hanno dei deficit fisici e cognitivi e che ora rischiano di non poter essere supportati adeguatamente da docenti, educatori e insegnanti di sostegno.

Oltre a ciò, occorre considerare il peso enorme che in questo frangente probabilmente più che in altri hanno i genitori degli alunni, in termini di capacità di ascolto e di dialogo, di tempo e disponibilità nell’aiutare attivamente i propri figli a studiare, ma anche e soprattutto a comprendere e a elaborare dal punto di vista cognitivo e affettivo quanto sta avvenendo e a orientarsi nella complessità di questa situazione inedita e spiazzante.
Un’altra variabile imprescindibile concerne poi il modo in cui le singole scuole nei diversi territori si sono mosse all’interno dei vincoli normativi e materiali per erogare formazione di qualità (anche se a distanza) e per offrire un effettivo supporto a famiglie e alunni, specialmente nei casi di maggiore difficoltà. Pur potendo constatare ovunque un considerevole e ammirevole sforzo da parte di dirigenti scolastici, docenti, educatori, personale tecnico-amministrativo, sembra esserci una certa disomogeneità e frammentazione sul territorio nazionale, che dipende da molti fattori eterogenei, tra cui le competenze digitali degli insegnanti, la loro creatività pedagogica e la loro capacità di riprogettazione delle attività, la flessibilità organizzativa delle istituzioni, le risorse tecniche e le abilità mediatiche possedute dagli alunni, dai genitori e dagli stessi insegnanti, oltre che la tipologia di infrastrutture tecnologiche disponibili nei luoghi di residenza e di lavoro.
In sintesi, l’odierna emergenza si rivela essere anche un’emergenza educativa, che ha aggravato problematiche di varia natura già presenti prima che si diffondesse l’epidemia e al contempo ha fatto deflagrare delle nuove forme di disagio e di povertà, rendendo sempre più accentuato, visibile e tangibile il divario tra generazioni, tra territori, tra plessi scolastici, tra classi sociali, tra culture, tra individui che possiedono risorse e abilità estremamente differenziate o che necessitano di sostegni ad hoc in virtù di bisogni educativi speciali.

Sotto il profilo strettamente pedagogico si può inoltre affermare che sia in atto un’imponente trasfigurazione della scena educativa, che ha prodotto anche un reciproco sconfinamento tra scuola e famiglia. Tempi, spazi, oggetti, materiali, figure di riferimento degli studenti si mescolano e si confondono in un continuum esperienziale casa-scuola che rende assai complicato distinguere e far interagire dialetticamente il sistema scolastico con quello familiare.
Tali sistemi finiscono per sovrapporsi e per collassare l’uno sull’altro, rischiando di far vivere a bambini e a bambine, così come a ragazzi e ragazze, un’esperienza totalizzante e asfittica, in cui peraltro si possono generare infinite interferenze tra docenti e genitori. La scuola colonizza l’ambito domestico e la famiglia invade in modo permanente lo spazio protetto della formazione.
Tutto ciò a mio parere crea un cortocircuito negativo, che andrebbe accuratamente monitorato, al fine di mettere in campo delle strategie volte a presidiare, sua pur simbolicamente, i confini tra scuola e famiglia, regolando per quanto possibile il passaggio tra attività didattiche e attività informali e domestiche.

Per quanto detto, sarebbe importante che nel pensare a come reagire alle contingenze e a come agire nella crisi, gli insegnanti tenessero conto anche dei problemi enucleati (disagio diffuso, incremento della povertà educativa, esclusione sociale, discriminazione, fragilità individuali, sconfinamento tra scuola e famiglia), che peraltro ritengo siano già piuttosto noti alla maggioranza del corpo docente.
In questo scenario, il compito educativo della scuola diventa quello di comprendere come poter allestire esperienze e processi che possano contribuire a risignificare quanto è accaduto e sta accadendo e a ricucire un tessuto sociale che si sta lacerando. Oggi più che mai, la scuola è chiamata a essere pienamente un presidio democratico, civile, inclusivo.

Un gruppo di robot IPAL, specializzati nell’assistenza agli anziani e nell’educazione
infantile, si esibisce a una mostra mercato di Las Vegas, 2018.

La scuola come ambiente 
tecnologicamente denso

Il repentino “cambio di scena” a cui si è fatto riferimento (dalla didattica in presenza alla didattica a distanza) mostra altresì quanto è andato temporaneamente perduto e che prima dell’epidemia si dava per scontato, vale a dire tutto ciò che contraddistingue la materialità del fare scuola quotidiano2. Ed è su questo snodo fondamentale che intendo soffermarmi.
In termini generali, si può definire la materialità dell’educazione come un intreccio dinamico di corpi, tempi, spazi, tecnologie, artefatti, oggetti, materiali, rituali, routine, relazioni interpersonali, affetti, parole.
Nei discorsi più comuni che riguardano le pratiche didattico-educative, tuttavia, essa sovente risulta una dimensione poco considerata, residuale e misconosciuta, qualcosa di talmente ovvio e banale che sfugge all’attenzione. Come se la scuola avesse a che fare soltanto con delle nozioni astratte, dei programmi e delle menti disincarnate che insegnano e apprendono muovendosi in un vuoto pneumatico. La scuola, invece, è caratterizzata «da una materialità specifica e diffusa che travalica e condiziona tutto questo, da una vita sotterranea, da routine esistenziali e processi di socializzazione latenti che vengono misconosciuti nel momento in cui se ne è coinvolti massicciamente»3.
Se eliminassimo dall’esperienza scolastica i corpi, gli odori, i suoni, i colori, i corridoi, gli atri, le mense, le porte, le finestre, le scale, i banchi, le sedie, i quaderni, le lavagne, gli zaini, i computer non potremmo realmente comprenderla, tantomeno ambire a rinnovarla. Non si tratta di celebrare la materialità oggettuale che di fatto popola gli spazi della formazione, ma di rilevarne il peso specifico nella produzione dell’esperienza che a scuola ogni giorno vivono i soggetti. Perché è proprio questo genere di esperienza che in questi mesi è venuta meno.

Le scuole e le università durante il lockdown sono dei luoghi semideserti. La maggior parte delle attività si svolge a distanza. Questa situazione, come detto, ha comportato un radicale “cambio di scena”. Evidentemente, insegnare e apprendere immersi nella materialità di un’aula concreta, a contatto diretto con i corpi degli altri e con spazi, oggetti, artefatti, relazioni sociali che mediano a ogni passo ciò che si fa, non è lo stesso che fare lezione nella propria abitazione e (quando va bene) connettersi agli altri – compagni e docenti – tramite dei software, vedendoli e ascoltandoli attraverso gli schermi dei dispositivi digitali.
Nella didattica a distanza ciò di cui si avverte la mancanza è proprio quella materialità a cui prima non si prestava attenzione e che restava invisibile e silente, come uno sfondo inerte. La socialità diffusa, la battuta scambiata con il compagno di classe, le attività “sottobanco”, i giochi durante l’intervallo, la possibilità di spostarsi da e verso la scuola e al suo interno, le urla e gli schiamazzi tra un’ora e l’altra, gli odori, i suoni, i rumori, gli anfratti in cui “nascondersi” allo sguardo sorvegliante degli adulti, la possibilità di disporre di oggetti e spazi che nel contesto domestico non sono accessibili, la gestualità incarnata dei docenti, la materializzazione del sapere tramite un sistema di segni distribuito nell’aula e nell’intera scuola.
Proprio in virtù della sua assenza, il groviglio sociale e materiale che qualifica l’esperienza scolastica e che solitamente si ignora esce dal cono d’ombra e finalmente diventa significativo.

Portare in primo piano la materialità permette di interpretare la scuola come un ambiente socialmente e tecnologicamente denso, un “laboratorio pedagogico” che ogni giorno prende forma tramite un insieme di reti socio-tecniche composte da molteplici connessioni fra le persone, fra le cose e fra le persone e le cose4.  Asserire che la scuola sia un ambiente tecnologicamente denso comporta certamente il riconoscimento del ruolo formativo delle tecnologie digitali utilizzate per fini didattici, ma non si limita a questo. La densità tecnologica non dipende unicamente dalla quantità di tecnologie presenti in un certo contesto, né da quanto queste sono avanzate e complesse, bensì da quanto e come esse mediano le relazioni tra i soggetti e incidono qualitativamente sull’organizzazione delle pratiche.
La scuola, in questo senso, è sempre stata un ambiente tecnologicamente denso, ancor prima dell’ingresso dei nuovi media digitali. Ciò che in essa avviene, infatti, è reso possibile, sostenuto, vincolato, influenzato da una miriade di mediatori materiali, che possono essere considerati in senso ampio delle tecnologie, nella misura in cui condizionano i processi di apprendimento e le modalità di socializzazione. La struttura architettonica degli istituiti e delle aule, le lavagne d’ardesia, i giardini, i cortili, le cattedre, gli zaini, i libri, i cartelloni appesi alle pareti, gli armadi, gli scaffali, i registri, gli astucci, gli strumenti didattici, i quaderni, gli ausili, sono tutti dei dispositivi artificiali e dei mediatori materiali che caratterizzano tecnologicamente la scuola tanto quanto i media digitali. Ciò che a mio avviso è interessante di questa concezione di scuola come ambiente tecnologicamente denso è che ci invita a svincolare lo sguardo dalle sole tecnologie informatiche, per considerare per l’appunto tutta la materialità del fare scuola, ricomprendendo i media digitali in un sistema di relazioni più esteso, complesso e articolato, che prende forma attraverso una pluralità di elementi e di mediatori dell’apprendimento.
Ed è proprio questa pluralità di materiali che dal punto di vista metodologico va salvaguardata, incrementata, presidiata, se si intende educare e istruire in modo pedagogicamente fondato e inclusivo, poiché è grazie a essa che diviene possibile progettare delle pratiche didattico-educative che rispettano e favoriscono una molteplicità di linguaggi, di modalità espressive e comunicative differenti.

Centrarsi solo sull’utilizzo delle tecnologie digitali può essere una buona soluzione didattica in un momento di emergenza come quello che stiamo attraversando, ma non può essere a mio parere una strategia efficace sempre e comunque. Una scuola che punta tutto sui media digitali rischia paradossalmente di impoverire l’esperienza di studenti e docenti, perché si attesta su un’unica tipologia di mediatore, non sfruttando appieno la propria strutturale densità tecnologica. Vorrei rimarcare quest’ultimo punto, in quanto occorre porre grande cura ai futuri sviluppi della scuola, relativizzando sin da subito certi impulsi entusiastici rispetto alla possibilità di usare come unico mediatore didattico le tecnologie digitali, in distanza e/o in presenza.
Ritengo invece che sia molto più proficuo iniziare a interrogarsi su come poter rinnovare l’assetto sociale e tecnologico della scuola, riconfigurandone profondamente la materialità – il groviglio di spazi, tempi, corpi, oggetti, affetti, discorsi, saperi – sulla base di quanto maturato in questi difficili mesi. Si tratta di comprendere come articolare gli strumenti tecnici usati in questo periodo di emergenza con altre strategie e altri mediatori sociomateriali, digitali e non, di modo da offrire agli studenti delle risposte sensate ed efficaci, capaci di intercettare il loro disagio e il loro smarrimento e di accompagnarli in un processo di rielaborazione dell’esperienza vissuta.

Verso una rielaborazione 
dell’esperienza

In conclusione, dal mio punto di vista, quando sarà cessata l’emergenza sanitaria, ma si sconteranno ancora gli effetti di quella socio-economica ed educativa, nei contesti formativi si potrà ragionare individualmente e collettivamente (anche insieme ai bambini e ai ragazzi) su diversi ambiti tematici e sulle loro interrelazioni, a partire da alcune questioni trasversali che possono favorire un processo riflessivo di ripensamento dell’esistente. Provo a porle in forma di domanda, dividendole per punti:

  • Che cosa si è appreso durante e in seguito al lockdown in relazione all’uso delle tecnologie e a una metodologia didattica alternativa? Come poter condividere questi guadagni formativi con docenti e alunni, mettendo a disposizione degli altri la propria esperienza per costruire nel tempo un modo diverso di fare scuola?
  • Che cosa è mutato rispetto alla situazione della scuola pre-pandemia? Che cosa si è imparato sul proprio modo di insegnare e di apprendere, anche grazie a un periodo di distacco forzato da abitudini consolidate? Che cosa si desidera e si può concretamente cambiare di queste abitudini ora?
  • Che cosa si è appreso in termini pedagogici ed esistenziali su sé stessi, sugli altri, sulla società e che cosa può essere opportuno condividere con colleghi e alunni per ragionare sull’esperienza scolastica?
  • Come poter rielaborare dal punto di vista cognitivo e affettivo l’accaduto, per esprimere e per comunicare agli altri come ci si è sentiti, che tracce a più livelli quest’esperienza drammatica ha lasciato in ciascuno di noi? Come aiutare gli alunni a dare un senso a ciò che hanno vissuto?
  • Come trasformare l’ambiente scolastico per renderlo maggiormente accogliente, accessibile e inclusivo, così che possa rispondere alle nuove esigenze di insegnanti, studenti e famiglie?

Credo che valga la pena soffermarsi riflessivamente su tali questioni di fondo, eventualmente anche in contesti di consulenza e di supervisione pedagogica, per poter riprendere a insegnare e a educare facendo tesoro delle risorse e delle consapevolezze acquisite faticosamente in questo particolare momento e al contempo senza ignorare il carico di incertezza, dolore, angoscia, smarrimento che tutto ciò che è successo ha provocato in ognuno di noi.


NOTE

  1. Una parte di queste esperienze, di questi documenti e di questi strumenti, ad esempio, è resa disponibile gratuitamente sui siti del Ministero dell’Istruzione e dell’INDIRE: https://www.miur.gov.it/; http://www.indire.it/ (consultati il 30/04/2020).
  2. Sul concetto di materialità in ambito pedagogico, cfr. in particolare: P. Barone, La materialità educativa. L’orizzonte materialista dell’epistemologia pedagogica e la clinica della formazione, Unicopli, Milano 1997; R. Mantegazza, Unica Rosa. Cinque saggi sul materialismo pedagogico, Ghibli, Milano 2001; E. Sørensen, The Materiality of Learning. Technology and Knowledge in Educational Practice, Cambridge University Press, New York 2009; A. Ferrante, Materialità e azione educativa, FrancoAngeli, Milano 2016.
  3. R. Massa, Cambiare la scuola, Unicopli, Milano 1997, p. 79.
  4. Rispetto alla definizione di ambiente tecnologicamente denso, cfr.: A. Bruni, T. Pinch e C. Schubert, Technologically Dense Environments: What For? What Next?, “Tecnoscienza: Italian Journal of Science & Technology Studies”, vol. 4, n. 2, pp. 51-72, 2013; R. Landriscina. e A. Viteritti, Sociomaterialità in classe. Pratiche di innovazione didattica, in «Scuola Democratica. Learning for Democracy», vol. 7, n. 1, pp. 93-115, 2016.
Condividi:

Alessandro Ferrante

è ricercatore presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, dove insegna Pedagogia dell’Inclusione Sociale. Tra le sue pubblicazioni: “Che cos’è un dispositivo pedagogico?” (FrancoAngeli, 2017), “Materialità e azione educativa” (FrancoAngeli, 2016), “Pedagogia e orizzonte post-umanista” (LED, 2014).

Contatti

Loescher Editore
Via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino

laricerca@loescher.it
info.laricerca@loescher.it