Il 7 aprile 1815, in seguito agli accordi sanciti dal Congresso di Vienna, nasce il Regno Lombardo-Veneto, subordinato all’apparato amministrativo e politico del governo di Vienna. I primi mesi del nuovo governo austriaco sono sufficienti a far capire agli intellettuali illuminati che si tratta di un regime assoluto, fondato su un accuratissimo ed efficiente controllo poliziesco che faceva capo direttamente al dicastero di Polizia e Censura viennese, secondo le direttive dell’imperatore Francesco I. Lo schieramento di una polizia fedele all’imperatore, la verifica della corrispondenza attraverso gli ufficio postali e l’istituzione di un Ufficio di Censura assicuravano agli austriaci il controllo della città di Milano, uno dei centri più attivi dell’opposizione anti-asburgica.
Nel 1816 Alessandro Manzoni – al principio della storia narrata da Isabella Becherucci nel suo libro Imprimatur. Si stampi Manzoni – ha trentuno anni, vive tra Brusuglio e Milano con la moglie venticinquenne Enrichetta e i tre figli piccoli (a cui se ne aggiungeranno altri sei negli anni seguenti). È autore di alcune poesie religiose raccolte nel libro degli Inni sacri, pubblicato nel novembre del 1816 e destinato a diventare uno dei capolavori del romanticismo, ma solo negli anni seguenti, grazie anche all’apprezzamento di Goethe.
Sono anche, queste poesie, una sorta di assicurazione sulla vita, in quanto garantiscono all’autore una qualche benevolenza da parte degli ambienti ultracattolici vicini agli Asburgo – benevolenza che fa comodo al Manzoni autore di teatro tragico, cui si dedica tra il 1816, data di inizio della stesura del Conte di Carmagnola, e il 1822, anno di pubblicazione dell’Adelchi.
Il teatro, d’altronde, è in quest’epoca la forma d’arte che garantisce la maggiore presa sul pubblico, capace di scaldare i cuori di un’intera comunità all’unisono: è qui dunque che si esercita la scrittura degli oppositori al regime, i quali cercano di creare un’opinione pubblica capace di resistere alla martellante propaganda asburgica.
Un teatro nuovo, moderno, romantico – secondo le teorie che dal mondo tedesco si diffondono rapidamente in tutta Europa – che, secondo Manzoni, avrebbe dovuto funzionare anche in assenza di una vera e propria rappresentazione. Un teatro scritto, da leggere, «uno spettacolo fruibile dalla mente, oltre che dal cuore», scrive Becherucci, tale da evitare le maglie più rigide della censura teatrale, che nel caso degli spettacoli diventavano pressoché insuperabili. Un teatro capace di parlare, «attraverso un’opera cifrata che rappresentasse i dolori e la violenza di un’epoca passata, in realtà dei dolori e della violenza di quella che stava vivendo».
Le strategie e i sotterfugi a cui Manzoni ricorre per sfuggire ai censori asburgici, oltre a rappresentare la parte più gustosa del libro, sono anche l’elemento portante della sua trama narrativa. Becherucci, infatti, documenta con acribia di filologa le leggi e le procedure degli Uffici di Censura e poi i singoli passaggi di ogni carta manzoniana, sottoposta a tagli e integrazioni autocensori e censori, in un continuo e abilissimo gioco di aggiustamenti. E poi, facendosi storica e interprete della cultura ottocentesca e dell’opera di Manzoni, ricostruisce il complesso quadro di relazioni in cui si colloca questo lavorìo, a cui l’autore va incontro consapevolmente e con l’intenzione di ottenere il meglio per sé e per l’idea d’un Italia indipendente che persegue insieme ai suoi amici e sodali milanesi: Ermes Visconti, Tommaso Grossi, Federico Confalonieri, Giovanni Berchet e altri, che pagheranno cara la loro militanza politica.
Preda di paure e di nevrosi, prostrato dalla fatica di scrivere e tuttavia preso da raptus creativi che lo spingevano a produrre nel giro di pochi anni le sue opere più importanti – il Conte di Carmagnola, Adelchi, Il cinque maggio, Fermo e Lucia e quindi I promessi sposi –, Manzoni è rappresentato da Becherucci come un «combattente», che durante gli «anni di piombo dell’Imperial Regio Governo austriaco in Italia» ha molto rischiato e che, se non è finito allo Spielberg come gli amici Silvio Pellico e Federico Confalonieri, è solo perché ha saputo destreggiarsi «con impareggiabile abilità» tra i labirinti e le trappole della burocrazia e della polizia del Regno Lombardo-Veneto.
Esemplare è il caso del Cinque maggio, l’ode funebre per Napoleone, il cui accidentato percorso è raccontato come se fosse un racconto poliziesco. Vale la pena leggerla tenendo presente anche il nuovo testo della poesia, che ha fruttato una nuova edizione critica allestita dalla stessa Becherucci (disponibile online) sulla base della copia presentata da Manzoni all’Ufficio di Censura affinché fosse data alle stampe.
Il capitolo intitolato “Il cinque maggio” e le sue vie segrete si apre con il racconto di una passeggiata di Manzoni nel giardino di Brusuglio, a braccetto con la madre e la moglie, il giorno dopo aver terminato la composizione del IV atto dell’Adelchi.
Alla sera, poco prima di cena, al momento della lettura dei giornali, Alessandro scopre la notizia dalle pagine della «Gazzetta di Milano»: «Napoleone Bonaparte non è più: egli morì il 5 di maggio alle ore 6 della sera di una malattia di languore che lo riteneva a letto da più di quaranta giorni». «Ei fu», traduce subito Manzoni nel primo appunto per la stesura della sua ode: un testo in qualche modo inevitabile, necessario, composto nel giro di quattro giorni a partire dal quel 18 luglio 1821, e poi ricopiato in bella calligrafia in un fascicoletto di sedici pagine tenute insieme da un filo di seta verde.
Ma come fare, adesso, a far digerire alla censura asburgica un omaggio funebre del nemico pubblico numero uno dell’Impero? Il pezzo, scrive Becherucci, «era scottante e di certo era difficile immaginarsi un clima più inopportuno di quello attuale per la sua stampa», ma Manzoni era quanto mai determinato nel riuscire a pubblicare la sua ode, a costo di ricorrere a ogni sorta di sotterfugio, di cui l’autrice rende puntualmente conto nel giro di venti pagine vorticose.
Altrettanto appassionante, poi, il lavoro compositivo di Manzoni intorno all’Adelchi – l’opera che Becherucci ha compitato per lunghi anni, e della quale ha fornito nel 1998 un’edizione critica monumentale – riletto alla luce delle vicende storiche che, proprio nei giorni in cui l’autore mette la penna sul manoscritto, coinvolgono Federico Confalonieri, arrestato con l’imputazione di alto tradimento contro la sicurezza dello Stato, e gli altri amici milanesi, imprigionati uno dopo l’altro e poi condannati, come Silvio Pellico, a lunghe pene detentive.
Al termine della lettura di questo Imprimatur si tira un sospiro di sollievo per il suo protagonista, che è riuscito a superare incolume il momento più rischioso – e il più fecondo – della sua lunga vita. Un periodo che, spiega Becherucci, ha rappresentato una palestra fondamentale per poter affrontare la prova più ardua: la stesura dei Promessi Sposi, la sua opera più audace e la più cifrata, destinata a diventare una delle più affilate armi degli intellettuali e dei politici risorgimentali.