Una visione politica e un nuovo linguaggio
Gli aspetti che più ho apprezzato nel documento sono due: innanzitutto, il Manifesto restituisce al discorso sulla scuola/università e sul sistema tutto dell’istruzione la centralità politica che esso merita. Il Manifesto ci ricorda con forza che per governare la scuola ci vuole una visione, cioè un’idea di società e di futuro; la scuola non può essere unicamente “amministrata”, innovazione non significa solo migliorare il funzionamento di un sistema, non si tratta di rendere una macchina produttiva più efficace o più economica.
Ne deriva, come viene sottolineato nel documento, che, se riformare la scuola può essere necessario per adeguarla ai bisogni formativi dei giovani di oggi (di tutti, non solo degli italiani da sette generazioni!), va contrastata decisamente ogni logica che intenda subordinare la formazione alle «esigenze espresse dal contesto economico e produttivo».
Il secondo aspetto importante, conseguente al primo, è il richiamo a recuperare un altro linguaggio. Si afferma nel Manifesto: «oggi è ancora possibile, tuttavia, parlare di scuola con un altro lessico, non subalterno all’ideologia egemone». È un invito e un auspicio da raccogliere e da attivare nel confronto tra docenti e in tutti i luoghi dove si voglia discutere di scuola con onestà intellettuale.
Il confronto sulla scuola e sull’università dovrebbe liberarsi da ogni ambiguità linguistica, non cedere al lessico economico che inevitabilmente conduce a rappresentare La scuola, come la sanità, non è settore sul quale fare economie: gli investimenti sulla formazione non possono produrre un risultato né immediato né calcolabile secondo proporzioni prevedibili.ogni processo formativo nella chiave dell’efficienza produttiva. La scuola, come la sanità, non è settore sul quale fare economie: gli investimenti sulla formazione non possono produrre un risultato né immediato né calcolabile secondo proporzioni prevedibili. Proprio perché compito primario di scuola e università è contribuire alla formazione di cittadini pensanti, è evidente che i risultati non si misurano solo attraverso il superamento di un test o altri traguardi di breve respiro.
Altre metafore, dunque, piuttosto di quella dell’economia e del profitto, dovrebbero descrivere quanto facciamo nelle nostre aule, e rappresentare il conseguimento di obiettivi cognitivi e operativi in termini di maturazione, crescita, fructus come “buon esito”, “soddisfazione”, non mero guadagno; oppure movimento, percorso, viaggio, attraverso la vita e il sapere.
Le competenze: una trappola o una risorsa?
In ragione di quanto ho detto, ed entrando nel merito delle questioni didattiche, non condivido la liquidazione delle competenze in quanto giudicate funzionali a una scuola prona al mercato: ribalterei l’impostazione.
La letteratura sulla didattica per competenze è stata corposa e variegata negli anni recenti, così come le sperimentazioni didattiche sviluppate in tutta Italia. In particolare, voglio ricordare l’esperienza di Compìta, che, per la didattica dell’italiano, ha dimostrato la fondatezza scientifica e l’efficacia sul campo di un approccio per competenze inteso come centralità dei discenti e attenzione ai processi e non solo ai risultati degli apprendimenti. I «tentativi di vitalizzare in senso critico il concetto di competenza», per quanto sommessi, hanno dato esiti positivi, e andrebbero rafforzati e non spenti. Compìta ha avviato un processo di democratizzazione dell’insegnamento, ha portato i docenti a impegnarsi in un compito di mediazione dei saperi e di formazione critica, che è il nostro specifico compito, e che nella scuola classista e trasmissiva di certo non si faceva.
Continuare ad alimentare una fuorviante contrapposizione tra conoscenze e competenze credo sia un errore politico e culturale pericoloso: la competenza non si può ridurre a una performance, ma piuttosto richiede un’interiorizzazione profonda del sapere.Continuare ad alimentare una fuorviante contrapposizione tra conoscenze e competenze credo sia un errore politico e culturale pericoloso: la competenza non si può ridurre a una performance, ma piuttosto richiede un’interiorizzazione profonda del sapere, con tempi di riflessione difficilmente difendibili nella attuale scuola-supermercato, nella quale il tempo degli studenti è presidiato e sequestrato da una serie esagerata di adempimenti (il famigerato PCTO, nuova formulazione dell’alternanza scuola lavoro, ne è solo un esempio).
Ogni competenza critica non si può costruire se non su solide conoscenze; non dimentichiamo, peraltro, che nella scuola del passato la conoscenza è stata usata come strumento di potere e di discriminazione. Proprio attraverso una inedita attenzione ai discenti e al loro diritto di acquisire e rielaborare conoscenze ampie e profonde, e non ai bisogni produttivi dell’economia neoliberista, si possono rivitalizzare quelle battaglie democratiche che alcuni decenni fa hanno dato a tutti l’accesso al sapere e che oggi sembrano tanto démodé.
Lavorare sul serio per competenze non prepara i giovani a inserirsi come docili marionette nel sistema produttivo, ma piuttosto dà loro gli strumenti critici per «comprendere e trasformare il mondo in cui vivono» (P. Perrenoud, Costruire competenze a partire dalla scuola, Anicia, Roma 2010, p. 57).
Regionalizzazione, valutazioni, internazionalizzazione e identità culturali
Ancora: il Manifesto mette in guardia con chiarezza rispetto ai rischi della regionalizzazione, e ai possibili inganni sottesi a concetti ambigui come la “autonomia differenziata”. La scuola – così come, in modo diverso, l’università –, per essere presidio di uguaglianza e democrazia, deve offrire le medesime opportunità a tutti e in tutte le regioni. Una frammentazione finalizzata a fomentare contrapposizioni, e a restringere gli orizzonti culturali, non garantisce i più deboli e aumenta le disuguaglianze. Inutile sottolineare poi che le culture locali non si promuovono avallando l’ignoranza identitaria.
Non vedo inoltre un nesso diretto tra l’internazionalizzazione della formazione e l’accentuazione di un modello neoliberista, né sono contraria alle valutazioni di sistema, La scuola, per essere presidio di uguaglianza e democrazia, deve offrire le medesime opportunità a tutti e in tutte le regioni. E le culture locali non si promuovono avallando l’ignoranza identitaria. non in nome di un appiattimento verso il mito delle misurazioni, ma perché sono uno strumento che fornisce alle scuole dati utilissimi.
Tirando le somme: condivido la ferma opposizione alle derive aziendalistiche e difendo il valore della scuola pubblica come luogo di dialogo che sappia ospitare le diversità, sono preoccupatissima per il clima di ferocia collettiva che sta legittimando, dietro lo scudo di parole vuote (la “sicurezza” prima fra tutte, la “meritocrazia” intesa non come vorrebbe la Costituzione, ma come affermazione dei privilegi), la discriminazione e il razzismo, sta cancellando la solidarietà e sta aprendo la strada a una disumanizzazione inaudita delle relazioni sociali.
Parimenti temo la tentazione di rifugiarsi in posizioni reazionarie e nostalgiche, in nome della giusta battaglia politica contro le derive alle quali stiamo assistendo.
Recuperare una funzione docente. Per una nuova mediazione culturale
Ritengo che i temi proposti dal Manifesto meriterebbero di essere approfonditi in un ampio dibattito, e considero questo documento un benefico sasso gettato nello stagno della nostra stanchezza. La burocratizzazione ci sta sommergendo e ci costringe a difendere con i denti anche il diritto-dovere degli insegnanti di studiare, proclamato nei documenti di riforma (che dichiarano la necessità della formazione in servizio), ma ostacolato nelle complicate traversie del quotidiano. Lo Zeitgeist attuale ci richiede tutto questo, la gestione della formazione si è trasformata negli ultimi anni, anche “grazie” alle norme famigerate citate nel documento.
Accettare di scendere a patti con il sistema, servirsi della piattaforma SOFIA, dunque redigere progetti e rendicontazioni della attività di formazione, non mette in discussione la serietà del nostro impegno; se è un prezzo da pagare per ridare un senso culturale a una professione marginalizzata, per difendere spazi di riflessione e di ricerca condivisi, pagarlo non significa immolarsi acriticamente all’efficientismo.
Tra scuola e università
Un nodo irrisolto e grave, infine, che non voglio tralasciare, sta nell’accesso all’università. L’ultimo anno della scuola superiore è ormai tempestato da una serie ininterrotta di test d’ammissione. Forse anche su questo varrebbe la pena di aprire una riflessione: si tratta di test che richiedono un mero “addestramento”, spesso sono prove di resistenza psicofisica e garantiscono poco sulla tenuta degli studenti sui tempi lunghi.
L’auspicio, credo condiviso da molti, è che questo Manifesto non cada nel vuoto, ma possa ridare linfa a una discussione seria sulla scuola, e che rafforzi sempre più il dialogo tra scuola e università.Tuttavia interferiscono in maniera pesantissima sull’attività didattica proprio in quell’ultimo anno nel quale si dovrebbe fare la sintesi di tutto ciò che è stato appreso, dando spazio all’interiorizzazione critica e alla rielaborazione delle conoscenze.
Chiudo dunque ritornando alle osservazioni iniziali: l’auspicio, credo condiviso da molti, è che questo Manifesto non cada nel vuoto, ma possa ridare linfa a una discussione seria sulla scuola, e che rafforzi sempre più il dialogo tra scuola e università, proficuo per entrambe e indispensabile per la coerenza e la resistenza culturale dell’intero sistema dell’istruzione.