… Ma la meraviglia riguarda noi, non la filosofia

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Il dibattito su filosofia e meraviglia, suscitato dall’articolo di Gian Paolo Terravecchia “E se fosse la filosofia a causare la meraviglia?”, cui ha risposto il professor Marco Nardone in “Ancora su filosofia e meraviglia”, e che ha suscitato la replica di Terravecchia in “In principio era la filosofia”, si arrichisce dell’ultimo capitolo (in ordine di tempo). Pubblichiamo di seguito l’intervento del professor Nardone.

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Caro Gian Paolo,
Sinceramente, la mia voleva essere una critica costruttiva e non una schermaglia, perciò ho un po’ di ritegno nel prendermi meriti dove non li ho cercati. Con la mia osservazione sul cercare le cause non intendevo affatto liquidare i tuoi sforzi in un colpo solo. Forse l’ho buttata lì un po’ pigramente, lo ammetto, ma era semplicemente la prima osservazione che mi era saltata all’occhio. E credo che sia anche la prima che salta all’occhio di un lettore qualsiasi, che normalmente è spinto a leggere l’articolo dalla fiducia che il seguito non tradisca le attese suscitate dal titolo.

Comunque francamente a me non sembra che il titolo sia stato disatteso. E anche dopo la tua replica, a me consta che tu vai per cause, e non per accidens. Non saprei altrimenti come prendere sul serio i tuoi argomenti. Per esempio, quando dici che la conoscenza degli atomisti, o della prova ontologica, o di Popper, ti hanno suscitato meraviglia. O quando ti chiedi “cosa succede quando ci meravigliamo?” e rispondi ”qualcosa ci suscita quel sentimento”, ecc.. O quando indaghi su quale sia l’ordine giusto dei termini di un rapporto (“c’è un nesso meraviglia-filosofia”, ma Aristotele “non identifica il momento iniziale”). E potrei continuare.

Certo bisogna intendersi sul concetto di causa. Per “causa” io intendo in generale (lo fa anche Aristotele, e non solo) la risposta ad un “perché”, ovvero l’individuazione di un nesso necessario tra un antecedente e un conseguente. In questo senso la filosofia, e ogni discorso che intenda “spiegare” qualcosa, è uno “scire per causas”, o almeno un tentativo. Un tentativo che ritrovo continuamente nel tuo articolo. È per questo che per me, ripeto, il tuo articolo è d’interesse filosofico, non perché parla della filosofia. Non apprezzo qualunque filosofia, ma apprezzo te e la questione che poni, per come dici che è nata in te, e mi interessa cercare un senso che possa condividere. Continuo perciò a dar retta a questo interesse a modo mio e provo a riprendere il filo del discorso, anche a costo di andare fuori traccia. Dopotutto l’interesse è mio.

Dunque, secondo me la questione la inquadri bene tu stesso quando dici, in sintesi, che la meraviglia, se nasce, nasce sempre quando ci colpisce “qualcosa” di imprevisto, provocando in noi un cambiamento. Abbiamo allora, è solo uno schema per aiutare, questa sequenza: soggetto A: imprevisto, meraviglia; soggetto B: cioè lo stesso soggetto cambiato sotto un certo profilo. Tra A e B ci sono i fattori che determinano il passaggio. Tu aggiungi, giustamente, che d’altra parte noi possiamo meravigliarci solo perché abbiamo una “attesa”, e poi cogli, ma senza approfondire la questione, che “quell’attesa sulle cose” è nello stesso tempouna certa “conoscenza del normale”. Perfetto. Diciamo allora che l’”attesa” è una apertura mai vuota, ovvero per un certo aspetto (A) è una predisposizione al cambiamento, per un altro aspetto (B) è un certo equilibrio già raggiunto nel “normale”; equilibrio peraltro che si ridefinisce continuamente a seguito del cambiamento. È proprio questa convivenza tra i due aspetti che spiega l’imprevisto. L’imprevisto, infatti, per poter accadere, da un lato deve partecipare dell’attesa (per l’aspetto A), altrimenti non sarebbe riconosciuto, dall’altro deve eccederla (per l’aspetto B), altrimenti non ci meraviglierebbe. A e B convivono sempre nell’esistenza, e se nella sequenza li ho separati è solo per far vedere che funzione hanno nel passaggio.

Torniamo alla sequenza. Se al posto del soggetto metti la filosofia, la sequenza rimane la stessa. Partiamo quindi dai due estremi della sequenza. Al primo estremo abbiamo la filosofia intesa come disposizione al sapere proprio della natura umana (senso A), al secondo la filosofia intesa come un certo sapere compiuto grazie a questa disposizione (senso B). Va precisato, come sopra, che il senso A e il senso B convivono sempre: la disposizione ad un sapere ulteriore proprio di A implica sempre anche un certo sapere compiuto (“normale”) proprio di B, e viceversa. Uso il termine “sapere” senza problematizzarlo perché il tuo testo non sembra metterlo in questione. E uso il termine “filosofia” senza in alcun modo volerla personificare: la persona protagonista del processo è sempre lui, il soggetto, in quanto impegnato con la sua esistenza nell’azione del filosofare.

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Ora se consideri la filosofia dal lato A, sarà la meraviglia a seguire la filosofia, l’inverso se la consideri dal lato B. I due punti di vista valgono tutti e due, esattamente come i due sensi della filosofia. Ma, siccome solitamente si intende la frase di Aristotele esclusivamente dal secondo (B), è giusto evidenziare che c’è anche il primo (A), ed è importante. Se tu ti fermassi qui non avrei nulla da eccepire. Il problema nasce quando, andando ben oltre, tu attribuisci quell’esclusivismo non solo ad una lettura “romantica” di Aristotele, sulla quale non mi pronuncio, ma ad un “errore” commesso dallo stesso Aristotele, il quale non identificherebbe bene il “momento iniziale” del nesso meraviglia-filosofia. Per cui concludi, rovesciando il… nesso causale, che “la filosofia non è causata dalla meraviglia, semmai è il contrario”. Stando alla mia sequenza, ciò vuol dire disfarsi della filosofia in senso B, per dispetto ad Aristotele, che avrebbe dimenticato la filosofia in senso A. Insomma, per respingere il presunto esclusivismo di Aristotele, finisci per cadere in uno uguale e contrario. Poi però hai un sussulto e, curiosamente, butti lì una seconda conclusione, “la filosofia non nasce da niente”, che sembra smentire la prima, però suona posticcia. E in cui, ad ogni modo, la meraviglia è sparita, e con essa la stessa questione di partenza. A me invece non interessa che sparisca, perché capisco i “cortocircuiti” esistenziali, e so che non si “curano” trasferendoli sul piano teoretico.

Ma vediamo da dove nasce il problema. L’errore di Aristotele, se ti leggo bene, starebbe nella tesi che la filosofia è causata dalla meraviglia, perché dall’esperienza risulterebbe il contrario; nella tua replica però precisi, attenuando un po’, che l’errore primario starebbe nel ritenere che, nel nesso meraviglia-filosofia, “la meraviglia giocherebbe un ruolo causale determinante”. Tale errore, comunque, risalirebbe al fatto che Aristotele “pensa alla filosofia come a un conoscere le cause”.

Ora, io non vedo che rapporto tu possa aver trovato tra il pensare la filosofia come uno scire per causas e il presunto errore di Aristotele. Però, siccome di fatto ne sei indotto a disfarti della filosofia in senso B (io credo contro le tue intenzioni), ho ipotizzato che in te agisca, a livello di presupposto, l’idea che considerare la filosofia un conoscere le cause equivalga a farne un sapere già fatto e concluso, e che per Aristotele la filosofia valga solo in questo senso. Per intenderci, nel senso B allo stato puro, senza commistione col senso A.

E in effetti, mi son detto, ammesso che Aristotele fosse capace di una tale follia razionalistica, avresti perfettamente ragione a volertene disfare: se vedi la mia sequenza, tolta la filosofia in senso A, la meraviglia non solo risulterebbe solo causa e mai “effetto” della filosofia, ma finirebbe del tutto esterna ad essa; e infatti, un sapere tutto già saputo non potrebbe avvertire nessun imprevisto, sicché la meraviglia non apparterrebbe affatto al filosofare, ma finirebbe con l’essere concepita come un’ improbabile ipostasi che agisce sul filosofare come una causa meccanica. Invece la meraviglia si colloca, in qualche modo, all’interno della dinamica filosofica, come attesta l’esperienza, e come tu giustamente protesti.

D’altra parte, quel disfarsi della filosofia in senso B sarebbe non solo inaccettabile ma controproducente per la tua stessa tesi. Di fatto, lascia la filosofia (o meglio il soggetto) senza meraviglia, proprio come, penso, hai intuìto nella tua “seconda” conclusione. Infatti la meraviglia è “prodotta” dall’incontro del soggetto con qualcosa che eccede la sua attesa, considerata nell’aspetto (B) del suo sapere. Se togli alla filosofia l’aspetto del sapere, in un primo momento può sembrare che sia la filosofia a suscitare meraviglia, ma in realtà il “qualcosa” non fa più impatto sul soggetto, e della meraviglia non rimane che una larva, una pura autosuggestione. O almeno, non è più la meraviglia di cui parla Aristotele. La filosofia se n’è liberata, ma a prezzo dell’esperienza. Per me, la filosofia non avrebbe più sapore.

Queste conferme mi hanno persuaso a tenere l’ipotesi fatta circa il tuo presupposto.

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Senonché, quel presupposto è francamente difficile da concedere. Ci sarebbe forse da fermarsi sul ruolo che può avere una lettura troppo “spinoziana” nei fraintendimenti di Aristotele, ma non è il caso. Mi limito a osservare che proprio la Metafisicainizia parlando della filosofia nel senso A; e la stessa pagina da te incriminata, in cui pur è presente il senso B, è al tempo stesso una delle più belle mai scritte, non sulla filosofia astratta, ma sull’avventura stessa del “filosofare”; perché la meraviglia di cui Aristotele parla è quella che prova il soggetto, quando è colpito da qualcosa, o da qualcuno, nel suo bisogno di conoscere. È di questo soggetto che si parla in quella pagina, qualificato, socraticamente, “filosofo” in quanto preso, di fronte all’eccedenza sempre nuova della realtà, dalla sorpresa di non sapere. È il senso della filosofia in senso A. Quanto alla meraviglia, appunto, Aristotele, nel testo, la considera propriamente segno del riconoscimento del non sapere. La causalità le sembra attribuita solo transitivamente (per metonimìa), dato che, a rigore, la priorità (o, se vuoi, il “ruolo causale determinante”) spetta al “qualcosa” (“le difficoltà più semplici” e poi, via via, i fenomeni degli astri ecc…). Il soggetto non si meraviglia certo da solo: è l’imprevisto che, offrendosi alla sua disposizione al sapere (filosofia in senso A) ma velando un significato, genera in lui la meraviglia e lo muove alla scoperta. Ne viene che la meraviglia, quand’anche avesse nel testo una causalità propria e non transitiva, l’avrebbe non quale fantastico movente “esterno” alla filosofia, ma quale motivazione interna del soggetto all’azione del filosofare. Quindi, stando alla sequenza, la sua “causalità” rispetto alla filosofia in senso B conviverebbe con la sua derivazione rispetto alla filosofia in senso A. Ciò non toglie che, per Aristotele, la meraviglia abbia a che fare con l’ente, senza che la filosofia se l’abbia affatto a male.

Non vado oltre. Mi basta, se ci sono riuscito, mostrarti che uno studioso serio di Aristotele (quale io NON sono) avrebbe parecchio da ridire su quanto vorresti che ti conceda. Eppure potrebbe essere particolarmente interessato, da collega, alla questione che sollevi. Secondo me è da tenerne conto. Per quanto mi riguarda, ti confermo che non si può parlare di un “errore” di Aristotele nel senso da te inteso. E ciò risulta non solo dalla sua antropologia, ma dalla stessa Metafisica.

Quanto a me, direi che la meraviglia, a rigore, non attiene alla filosofia e alla sua beata essenza, ma all’homo viator e alla sua esperienza. La meraviglia è il modo in cui noi sperimentiamo il destarsi, quando la coltiviamo, della nostra disposizione al sapere (e non solo) di fronte a un regalo del reale. Ciò vale anche per l’esperienza filosofica, che non può certo darsi nella monotonia di una autogenesi. Non amo personificare la filosofia, ma se dovessi farlo direi che noi, sì, la cerchiamo per se stessa, ma lei per vivere non ha bisogno solo di noi. Ha bisogno anche di altro, come noi. È vero che è bella, ma non bisogna stringerla troppo.

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Marco Nardone

Dirigente scolastico e professore di liceo.

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