Credo proprio di essere anzi un insegnante tecnologicamente autonomo e così consapevole da essere assai critico. Ero infatti assolutamente al corrente di cosa l’agenda digitale prevedeva per la scuola, in particolare per quanto riguardava l’introduzione di libri di testo orientati al digitale in quella scuola dove vado regolarmente ogni mattina. Gli imperfetti non sono casuali: emendamenti governativi e lavori della Commissione Industria della Camera hanno appena imposto una frenata.
Frenata che ha ridotto le mie preoccupazioni; lo dico apertamente: per me è una buona notizia, poiché le forzature non fanno bene a nessuno, tanto meno agli ambienti con finalità educative. Questo non perché una quota significativa di insegnanti non sia (o non si giudichi) in possesso delle pratiche – per favore, non chiamiamole competenze!- d’uso necessarie per gestire gli strumenti; è un fatto assolutamente vero, ma dipendente soprattutto dalla mancata comprensione della loro valenza culturale e intellettuale, prima ancora che didattica. Piuttosto perché sarebbe stato necessario, prima di vincolarci ad utilizzare i nuovi strumenti, verificarne seriamente l’efficacia formativa. E questo non è mai stato fatto.
Si comincia con il Progetto Multilab, a metà degli anni Novanta. A poco meno di 150 scuole distribuite su tutto il territorio nazionale viene affidato il compito di verificare efficacia e fattibilità di percorsi che impieghino i dispositivi digitali (di nuovo per favore, non chiamiamoli informatici!) nella didattica ordinaria. Ancora adesso si ignora quali siano stati i risultati di questa sperimentazione. Tra il 1997 e il 2000, però, il ministero dell’istruzione dà vita al Programma di Sviluppo delle Tecnologie Didattiche, che prevede due tipi di finanziamenti, il primo – meno consistente – destinato a corsi di “alfabetizzazione informatica” (espressione ora per fortuna soltanto nel lessico dei nostalgici del DOS) e il secondo – ben più rilevante – destinato alle scuole che siano già in grado di proporre e realizzare progetti didattici che coinvolgano direttamente gli studenti. Il tutto viene avviato e gestito parallelamente all’attuazione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche e al loro ridimensionamento, con il risultato che i finanziamenti sono di fatto a pioggia. Anche di questo processo si ignorano tuttora le ricadute didattiche effettive, la correlazione con gli apprendimenti.
All’inizio del nuovo Millennio – in contemporanea con la diffusione delle connessioni alla rete ad alta velocità – si avviano piani di formazione massivi, che utilizzano la modalità “blended”, in parte in aula, in parte a distanza. Nasce la piattaforma Puntoedu di Indire. Pochi notano l’inversione di rotta: da stimolo e sostegno all’iniziativa autonoma delle scuole si è passati a una forte centralizzazione, in cui sono il ministero e i suoi enti strumentali a dettare la sintassi dell’innovazione. Tra 2002 e 2003, in particolare, si avvia una campagna di “alfabetizzazione” (ahimè!) rivolta a decine di migliaia di insegnanti, cui viene incredibilmente imposto come riferimento tecnico-culturale di base il syllabus dell’ECDL, la patente europea del computer, nella versione destinata agli impiegati esecutivi. Accanto a questo corso (detto “A”), ve ne sono altri due più ristretti: il “B” è rivolto a formare figure di consulenza sull’uso pedagogico delle TIC; il “C” è frequentato da coloro che aspirano a svolgere funzioni tecniche, di impianto e manutenzione di laboratori e reti di istituto. I consulenti didattici saranno retribuiti per un anno, il primo della loro attività; i loro colleghi nemmeno per quello. Non verranno infatti mai stanziate le risorse economiche e nemmeno discusse le condizioni normative e professionali necessari alla definizione delle “figure di sistema” (espressione molto in voga in quegli anni) che il piano di formazione aveva fatto balenare come specchietto per le allodole, considerato l’impegno previsto. E il tutto finirà nel nulla, per lo meno nella gran parte delle situazioni.
Gli anni successivi sono in primo luogo quelli in cui si afferma la centralità degli strumenti nella relazione didattica: fornisciti di hardware e software e avrai come risultato l’innovazione metodologica! Intorno alla metà del decennio ecco i learning object, a cui attualmente il marketing concettuale ha rinunciato, visto che nessuno ha mai capito davvero che cosa fossero e a che cosa servissero. Poi è la volta delle Lavagne Interattive Multimediali, con ripetuti piani di diffusione e formazione, che hanno interessato in ogni caso una stretta minoranza di classi e di studenti. Da ultimo gli eBook di testo, che avrebbero dovuto addirittura diventare obbligatori prima ancora di esistere, salvo assegnare valenza cognitiva, culturale e didattica ad indicazioni tardo-maoiste come questa: «Dal 2013 avvieremo un processo in cui inizialmente avremo un piccolissimo libretto e poi tanti supporti digitali, dove il libro nasce ogni giorno. Sulla base di uno scritto iniziale ci sarà la possibilità di fare collegamenti con video, risolutori, fotografie, altri testi e quindi costruire un libro personalizzato» (Profumo, iSchool, ottobre 2012).
Al susseguirsi dei totem si affianca l’imposizione da parte delle istituzioni scolastiche centrali a quelle periferiche del darwinismo digitale: non vi sono fondi per finanziare tutte le scuole, per fare formazione in modo massiccio, per cui si introduce il meccanismo dei bandi. Il principio del premio alle buone pratiche nasconde una spietata selezione: ed ecco le Classi e le Scuole 2.0, sempre in percentuali del tutto irrilevanti rispetto al totale, ma utili per interessare i media, sempre pronti a parlare di scuola in modo allusivo e –se possibile – vagamente scandalistico.
Con questi precedenti, il fatto che molti colleghi siano disinteressati o scettici francamente non mi stupisce.