A volte chiedo agli studenti: «Ma secondo voi perché all’istituto professionale vi fanno studiare letteratura, perché io vi porto tanti autori in classe, perché propongo e leggo libri ad alta voce?». La risposta è sempre la stessa: è cultura prof, ci serve per la cultura – o forse per la Cultura (con la C maiuscola).
No. Non è affatto così, ma i ragazzi non lo sanno. Ripetono vuote formule, le stesse che sentono dire da anni. Le stesse che li inducono a pensare di essere, loro che amano lavorare con le mani, meno “acculturati” e quindi di valere meno. Si sentono inferiori, non “da liceo”, come dicono loro se per esempio leggo ad alta voce il canto III dell’Inferno. Ma non siamo al liceo! E via così.
Non è per la cultura che lo faccio, o almeno non per la cultura intesa come la pensano loro e, come purtroppo, va per la maggiore spesso anche a scuola. Non è quella cultura che serve, fatta di nozioni e contenuti, studiati su pagine di manuali, tramandate dai docenti che a loro volta le hanno studiate su pagine di altri manuali – o magari gli stessi.
La letteratura in un istituto professionale – così come in ogni scuola e in ogni esperienza di studio – serve perché allena alla vita. La letteratura aiuta ad avere una visione completa e non parziale del mondo: detto in poche parole, aiuta a vivere anche esperienze che non si farebero di solito, a prepararsi per il futuro. Non c’è nulla di meglio per affrontare la vita che conoscere le storie degli altri, chi le racconta e cosa ci sta dietro. Tutto questo lo fanno i libri. Lo fanno gli autori contemporanei come quelli del passato, lo fanno in assoluto le storie.
Umberto Galimberti dice che la letteratura insegna, con la simulazione, i sentimenti. È come una grande macchina che simula il volo: ci sali sopra e impari a dare un nome alle cose, anche se non vissute in prima persona. È quello che si chiama sapere umanistico, il sapere dell’Uomo – questo sì – con la U maiuscola.
Che ci fa dunque il sapere umanistico in un istituto professionale? Rende le persone migliori, più consapevoli, più avvedute, più capaci di compiere scelte adeguate. Quindi li rende anche operai migliori, lavoratori migliori.
Un manutentore meccanico che è abilissimo nel suo lavoro e che inoltre conosce e sa trovare e aggiustare parole nel mondo delle storie e dei suoi autori è molto più bravo e utile a sé stesso e al mondo intero di colui che non ha mai avvicinato un libro. Questo dico sempre ai ragazzi. Si aggiustano i motori anche con Dante o con Fenoglio. Perché la visione della vita e degli accadimenti che impari dai grandi autori e dalle opere ti rende migliore a prescindere.
All’esame di stato i miei studenti sapevano quasi tutti qualcosa di letteratura o dei libri letti durante l’anno. O per lo meno vi si erano avvicinati non con l’idea del doverlo fare ma con l’idea che “magari mi interessa”.
Perché? Perché hanno provato soddisfazione nel leggere e hanno un poco ritrovato i fatti propri. Non sapevano esporre magari in modo appropriato ma ricordavano i temi, i personaggi, effettuavano connessioni.
Questa mobilità del pensiero, oltre a renderli autonomi e anche più felici, li rende a mio avviso lavoratori più affidabili, più responsabili. Saranno persone che sapranno porsi domande al momento giusto. Le stesse domande che ci siamo posti tutto l’anno sulle storie e sugli autori.
Perché Fritz in Golia di Beppe Fenoglio muore? Perché ci è in fondo simpatico anche se nemico? Chi è questo strano partigiano che quando scrive non parla sempre bene della Resistenza a prescindere? Chi sono i buoni e i cattivi in una guerra?
Allenandosi su queste domande anche i manutentori meccanici “sanno” di letteratura, anzi ne sanno a sufficienza per renderla uno strumento perpetuo di pensiero. L’approccio che hanno imparato sarà quello globale e più universale, che li aiuterà a essere lavoratori nel XXI secolo, dove non bastano più competenze esclusivamente di settore, come era una volta.
La letteratura è una palestra di pensiero e leggere con loro e per loro mi ha aiutato tanto a capire meglio i meccanismi dei loro mondi e ad entrarci dentro. Non è una questione di cultura. Non è così. La cultura intesa in quel modo è per loro in fondo uno strumento di esclusione, e non di inclusione, come dovrebbe essere. Non è l’idea che Dante sia una “lettura da liceo”, quindi, per ricaduta, obbligatoria anche per chi sta più in basso, che li salverà. È l’idea che Dante ci riguarda, riguarda tutti, anche a distanza di 700 anni. È l’idea che senza Dante non potrò mai essere un buon manutentore. Perché Dante, come tutti i testi letti, sono portatori di “domande che aprono”, come dice il WRW. Quelle domande indispensabili nella vita prima e poi nel lavoro di ogni essere umano.
In sede di esame ho discusso spesso con i colleghi: cosa andrà mai a fare questo ragazzo? «Non sa…» – e qui un elenco di contenuti o nozioni che non sapeva riferire in modo appropriato. Ma siamo sicuri che siano queste nozioni tecniche, da sole, a renderlo domani un buon lavoratore nel suo campo? Io non credo.
Credo che quello che fa la differenza siano quelle basi che si saldano insieme e riamalgamano dopo un lungo processo. Un processo che avverrà solo se essi possederanno anche un sapere di altro tipo. Quel sapere che ci fa ascoltare una canzone con orecchie diverse, che ci fa cogliere meccanismi di scrittura mentre leggiamo, che ci fa assaporare storie, parlare ai personaggi e scoprire in loro una parte di noi.
Ai meccanici serve tanto il sapere umanistico, io ne sono sempre più convinta. Proprio per essere bravi manutentori meccanici e bravi cittadini. Proprio per esaminare i problemi della complessità con strumenti complessi che solo la letteratura e le scienze umane sanno dare.