L’ufficio della valutazione

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Fine anno, tempo di valutazioni. Si valutano i risultati degli alunni, si valutano i successi e gli insuccessi degli insegnanti. Anche senza volerlo si finisce prima o poi per valutare il sistema.

voti

Molti pensano che questo sia il momento in cui gli insegnanti hanno il loro momento di gloria: hanno il vero potere, decidono del destino di un ragazzo, o almeno ne condizionano i mesi estivi.

Vorrei dire che tale pregiudizio non è vero, che un buon insegnante il vero potere lo ha in ben altra occasione. Ha, per esempio, il potere di far appassionare gli alunni alle materie che insegna, ha il potere di mostrare che la cultura è qualcosa di interessante, che merita abbondantemente la fatica che costa. Ha il potere di spingere gli studenti a superarsi, a desiderare di essere migliori. In questo genere di cose egli può davvero fare la differenza. Quest’esercizio di potere costa grandi sacrifici e quasi mai si realizza in facili successi. Circa la valutazione di fine anno invece, insisto, un buon insegnante non ha, né dovrebbe avere alcun potere.

La valutazione di fine anno è quell’atto attraverso il quale l’insegnante registra il grado di preparazione, il grado di formazione raggiunto complessivamente dall’allievo negli ambiti disciplinari in cui lui insegna, tenendo conto del percorso complessivo svolto dall’allievo. La valutazione perciò non è un atto in cui il docente ha diritto di esercitare la propria personalità; men che meno la propria discrezionalità o, addirittura, l’umoralità. I voti dovrebbero essere dati per indicare gli atti e il percorso, senza la pretesa, o peggio la presunzione, di fissare in cifra la persona. Vi è insomma un vincolo “oggettivo” cui l’esercizio dell’ufficio della valutazione deve attenersi. Questo almeno riguarda il voto del docente. Un discorso a parte, che però qui non farò, riguarderebbe il voto finale espresso dal Consiglio di classe.

Vi sono almeno due grandi patologie che affliggono la valutazione di fine anno del docente. La prima è il mammismo, cioè quella preoccupazione di esprimere, attraverso la valutazione, tutto l’affetto che si ha verso i propri “bambini”. Il voto diventa perciò un’occasione non già di dire il punteggio che uno merita, per ciò che ha fatto vedere, ma di esprimere tutto il proprio amore e tutta la volontà chioccia di proteggere le “proprie” creature. Questo atteggiamento spesso poi si fonde con la seconda patologia. Vi sono infatti insegnanti che valutano da sociologi e da elargitori di opportunità. Non stanno ai fatti visti in classe, non stanno alle performance degli allievi. Danno i voti pensando al futuro degli allievi: “se gli diamo un punteggio basso, non troverà lavoro!”; “se non gli diamo almeno x punti, non passa il test all’università!”, dicono a se stessi e lo teorizzano ai colleghi. Come se il compito di un insegnante fosse di facilitare agli allievi l’inserimento nel mondo del lavoro e all’università. Le università si sono accorte del trucco e perciò si stanno inventando orribili meccanismi, che non funzionano, per cercare di mettersi al riparo da queste violazioni dell’etica professionale compiute dai docenti.

Rimanere entro i limiti del proprio compito è difficile, e comporta un faticoso esercizio di ascesi. Ma è il modo migliore per onorare gli allievi stessi che, per crescere, non necessitano di una protezione d’ufficio. Essi piuttosto hanno bisogno che, dopo che li abbiamo accompagnati e seguiti con tutta la cura di cui eravamo capaci, li aiutiamo a valutarsi, non facendo loro credere che siano stati migliori di quello che effettivamente sono stati. I limiti del sistema di valutazione italiano sono in parte intrinseci al sistema stesso: troppo involuto e inutilmente complesso, burocraticamente alla ricerca di sfumature e dettagli che, vanamente, tolgono ore di vita a chi valuta. Tali limiti però nascono come inutile baluardo a un peccato originale: la non infrequente mancanza di rigore in chi valuta. Vi è, insomma, un problema dal basso, ed è lì che si dovrebbe agire. Si è cercato di frenare tali problemi introducendo sempre più complessi criteri vincolanti, ma non si è tenuto conto che se manca rigore nel valutare, non c’è meccanismo oggettivante che tenga, e la spirale burocratica finalizzata a far prevalere le ragioni dell’oggettivismo sarà sempre più soffocante. Quel che è peggio essa creerà sempre più gravi situazioni di ingiustizia. La soluzione, per contro, mi pare vada cercata da un lato in una campagna di sensibilizzazione all’etica professionale, dall’altro in una semplificazione dei meccanismi, perché più è complesso l’apparato di regole, più le distorsioni si moltiplicano e si nascondono nelle pieghe del marasma dei punteggi.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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