Lo strano caso delle indemoniate di Verzegnis

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Tra il 1878 e il 1879, in un remoto lembo della Carnia appena entrato a far parte del Regno d’Italia, alcune donne manifestano i segni inquietanti di un misterioso male. La prima spiegazione è possessione demoniaca, a cui la curia di Udine risponde con preghiere ed esorcismi, ma per le autorità statali la scienza medica deve avere l’ultima parola, e la diagnosi è “istero-demonopatia”. Questo scontro fra visioni contrastanti raggiunge il suo drammatico apice quando interviene l’esercito e le donne di Verzegnis vengono internate nel reparto psichiatrico dell’ospedale friulano.
Una delle frazioni di Verzegnis (UD), sullo sfondo il Monte Amariana (Fonte: Wikipedia); la copertina del libro di Borsatti.

La primavera è arrivata anche fra le montagne della Carnia quando, in un paesino vicino al confine con l’Impero austro-ungarico, sette ragazze di età comprese tra i quindici e i vent’anni iniziano a comportarsi in modo molto strano. Secondo l’anziano parroco di Verzegnis, esse «si contorciano orribilmente, strepitano, perdono i sentimenti, ed urlano in pari tempo come da voce da cane […] cadono a terra con la bocca stravolta, gridano, urlano, si agitano come forsennate». In poco tempo il fenomeno dilaga e arriva a interessare decine di donne nelle varie frazioni del paese: le famiglie sono disperate e si rivolgono alla Chiesa per avere aiuto e conforto, ma nemmeno l’antica pratica dell’esorcismo sembra funzionare. Intanto la notizia della crisi che sta sconvolgendo questa comunità isolata e poverissima si diffonde, e lo Stato decide di intervenire per affermare il suo potere, anche in ottica anti-clericale, inviando due medici da Udine per studiare la situazione. Nella loro relazione si legge che nelle pazienti visitate «precorsero fatti d’isterismo, nella più semplice manifestazione, cioè senza convulsioni e senza aberrazioni mentali; […] coesistevano in quasi tutte lesioni della sfera affettiva, espresse con facile emotività, con pianti per lievi motivi o anche senza motivo».

Dunque, mentre le locali autorità ecclesiastiche e statali litigano sulla natura del problema – diabolica o isterica – e su chi debba occuparsene, l’eco di questi fatti eccezionali raggiunge persino Roma, e coinvolge il presidente del consiglio del Regno Agostino Depretis con un’interrogazione parlamentare, innescata da una serie di interventi polizieschi repressivi. Infatti carabinieri e soldati erano arrivati a Verzegnis per ristabilire l’ordine e attuare il ricovero coatto di una quindicina di donne nell’ospedale di Udine, dove la scienza medica avrebbe dovuto curarle. E invece, nel giro di un paio d’anni, la crisi sembra risolversi spontaneamente, ma un velo di mistero su cosa sia successo davvero in quell’angolo d’Italia rimane.

Questa storia è tanto interessante quanto poco nota, ma per approfondirla c’è un libro uscito da poco: Le indemoniate. 1879: sfida tra Stato, scienza e Chiesa a Verzegnis (Castelvecchi, 2022) di Luciana Borsatti, scrittrice e giornalista che per anni è stata corrispondente dagli uffici Ansa del Cairo e di Teheran. Questo testo ha una storia lunga, è giunto ormai alla sua terza pubblicazione, e negli ultimi anni sulle “indemoniate” di Verzegnis si sono aggiunte anche altre opere, ma quella di Borsatti rimane la ricerca più completa e accurata sui fatti avvenuti in Carnia un secolo e mezzo fa. L’autrice ricostruisce con grande attenzione il contesto storico in cui si sviluppa l’“epidemia”, analizzando le carte di vari archivi e la letteratura scientifica dell’epoca. Inoltre, per indagare le ragioni più profonde di quella crisi, nel libro si fa luce sulle storie delle protagoniste e sulle laceranti tensioni che le donne carniche vivevano sulla propria pelle. In questo modo si restituisce a chi legge un affresco dinamico della molteplicità delle forze in campo e la complessità di un evento che pone ancora delle domande a cui non sappiamo dare risposta.

Sara Urbani: Per provare ad analizzare qualsiasi vicenda umana è spesso utile partire dal contesto storico, economico e sociale in cui questa si è sviluppata, e dunque anche per capire lo strano caso che ha sconvolto Verzegnis abbiamo chiesto a Borsatti di tratteggiare un ritratto della Carnia di fine Ottocento.

Luciana Borsatti: Il contesto economico e sociale ha certo giocato un ruolo importante, nel maturare della crisi delle indemoniate, ma non sufficiente a spiegarne le origini. La singolarità del caso di Verzegnis deriva infatti non solo dalla natura socio-economica e culturale delle concause, per la maggior parte comuni a tutta la zona, quanto dall’unicità del modo in cui queste hanno interagito tra loro. Per fare un esempio, è vero che in Carnia, dal 1787 al 1866, si sono succeduti cinque regimi politici e amministrativi – la Repubblica Veneta, il governo austriaco, quello napoleonico e poi di nuovo l’amministrazione di Vienna, fino all’annessione al Regno d’Italia – che avevano visto una sempre più accentuata penetrazione degli apparati statali moderni nella vita comunitaria tradizionale. Ma questo è appunto un fenomeno che riguardava l’intera regione. E analogamente si può dire del conflitto tra scienza e religione, o meglio tra ambizioni egemoniche della prima in un campo sociale e culturale che, nelle aree più marginali e arretrate, aveva sempre visto il dominio incontrastato del clero cattolico. Nell’analisi delle diverse concause, ciò che conta (e rimane un interrogativo in parte ancora insoluto) è appunto la singolarità della loro interazione nel contesto specifico e anche alla luce di alcuni elementi soggettivi e, in una certa misura, anche casuali. Il carattere assertivo e lo spirito anticlericale del sindaco, la tarda età del parroco, le spinte campanilistiche a dividere le diverse frazioni, i picchi di mortalità che si erano registrati in paese negli anni immediatamente precedenti la crisi. Insomma, le ragioni di quella epidemia vanno cercate non in un deterministico rapporto tra cause ed effetti, quanto in quel quid che ha acceso la miccia non tanto del primo caso di apparente possessione, ma del suo contagio ad altre decine di donne del paese.

S. U.: Quello carnico non è l’unico caso di “possessione” di cui si trova traccia negli archivi storici, infatti nel libro è descritto anche un altro episodio che pochi anni prima aveva interessato il paese di Morzine nell’Alta Savoia. Quali similitudini e quali differenze emergono tra i fatti di Verzegnis e quelli quasi coevi avvenuti oltralpe, in un territorio che proprio in quel periodo era passato dall’Italia alla Francia?

L. B.: Per alcune affinità nel suo modo di manifestarsi, la possessione delle donne di Verzegnis è molto simile a quella del caso di Morzine. In entrambi abbiamo a che fare con comunità isolate tra le montagne, molto attaccate alla tradizione e diffidenti verso gli agenti della modernità. Ma se il caso friulano apparentemente si esaurisce in un paio d’anni, 1878-79, e coinvolge poche decine di donne, quello di Morzine si sviluppa in un quindicennio, tra il 1857 e il 1873, e interessa centinaia di persone. Ma è soprattutto la reazione dei pubblici poteri a essere diversa, e a rendere gli eventi di Verzegnis particolarmente significativi e paradigmatici. Una reazione quasi esclusivamente repressiva in Friuli, distinguibile invece in tre diversi approcci quello nella località francese: più moderato e prudente il primo intervento dell’amministrazione piemontese, intimidatorio e poliziesco poi quello delle autorità francesi, che tuttavia a un certo punto scelsero la strada delle misure volte a rimuovere l’ignoranza e la povertà. Inoltre, a differenza che a Morzine, a Verzegnis non vi fu alcun episodio né cenno di violenza verso le autorità, benché proprio l’esempio del precedente francese abbia giustificato la dura azione repressiva compiuta, quando fu inviata una compagnia di soldati per deportare una ventina di malate nel manicomio di Udine e chiudere apparentemente il caso.

 

Les Possédées de Morzine del pittore Laurent Baud, che fu anche sindaco del paese dal 1860 al 1878. Fonte: Wikipedia

 

S. U.: Per la medicina dell’epoca quella di Verzegnis è un’epidemia di istero-demonopatia, e per questo molte pagine sono dedicate alla lunga storia dell’isteria: una “malattia” che ha bollato tantissime donne, ignorando così il loro disagio e quella che probabilmente era anche un’inascoltata richiesta di aiuto. Ma che cosa rimane oggi di questa categoria patologica per fortuna scomparsa dai manuali?

L. B.: La postfazione di Pietro Barbetta è intitolata Che fine ha fatto l’isteria? e conferma la natura proteiforme ed enigmatica di questa malattia, capace di mutare le sue manifestazioni con il mutare dei tempi e degli ambienti. «La scomparsa della categoria “isteria” dai manuali – vi si legge –, questa “polizia linguistica”, più recente, ha prodotto una proliferazione terminologica variegata, composta da dissociazioni, finzioni, conversioni, istrionismi, derealizzazioni, personalità multiple, etc.».
Per gli autori delle due “postille”, Alberto Panza e il compianto Salomon Resnik, la vicenda di Verzegnis «mostra quanto possa essere disumana non la possessione diabolica, ma la contrapposizione rigida di ortodossie antagoniste», ossia il crearsi di “dogmatismi contrapposti” tra la cultura cattolica e clericale da una parte, e quella scientista e positivista dall’altra, in uno scontro particolarmente aspro anche perché avviene a pochi anni dalla storica frattura della breccia di Porta Pia del 1870. Due culture che si rivelano così sempre più impoverite e inadeguate a comprendere le inquietudini esistenziali che si erano incarnate nel fenomeno della possessione demoniaca.

Esposte per prime agli effetti dei mutamenti sociali, politici e culturali in atto, ma prive degli strumenti culturali per comprenderli, e sempre più gravate dal lavoro domestico e nei campi per la nuova stagionalità dell’emigrazione maschile, le donne di Verzegnis probabilmente avevano interiorizzato i conflitti interni e le tensioni che laceravano la comunità. E con il linguaggio della possessione lanciavano al clero locale una sfida e un appello disperato: un appello a intervenire, praticando gli esorcismi, per restituire alla comunità gli equilibri tradizionali perduti. Ma i preti del paese, anche perché in parte trattenuti dall’approccio prudenziale di una Chiesa in conflitto con lo Stato post-unitario, non riescono a dare la risposta attesa anche da una buona parte della comunità. E la crisi che avrebbe forse dovuto liberare il paese dal male, nell’inconscio di queste donne, fa entrare invece in campo soggetti nuovi e inattesi: il medico positivista, i carabinieri, e infine l’esercito. Tutti ideologicamente armati contro l’ignoranza e la superstizione cui la crisi veniva addebitata, intese come forze negative da abbattere e non da superare con interventi economici ed educativi, e soprattutto tutti accaniti contro quelle povere donne, attrici e vittime di quella stessa crisi ma destinate a rimanere per sempre senza voce.

Come ricostruisce Borsatti, pochi anni dopo la loro prima missione in Carnia i due medici che avevano seguito il caso affermano che l’epidemia di istero-demonopatia è definitivamente debellata, e concludono con una frase emblematica: «il bastone della scienza ha percosso giusto e ha soggiogato il soggiogabile». Un’immagine che oggi può apparire cruenta, ma d’altronde uno degli autori, il primario udinese Fernando Franzolini, era fra i sostenitori della rimozione delle ovaie come cura per i disturbi isterici. In effetti a quell’epoca tutte le riflessioni riguardanti l’isteria erano fatte sulle donne (e in particolare sui loro corpi), ma a discuterne erano solo e sempre uomini. Delle “pazienti” invece, fatte salve le eventuali cartelle cliniche, non si sa quasi nulla, ed è così anche nel caso di Verzegnis. Infatti, in questa storia che le vede protagoniste loro malgrado sono rimaste quasi solo testimonianze maschili, e a parlarci sono dunque sempre medici, preti, politici, soldati e giornalisti. Eppure di alcune donne sono arrivati fino a noi almeno i nomi: Margherita Vidusson, Lucia Chialina, Veronica Paschini, Maria Da Pozzo, Caterina Fior, Maria Marzona e Caterina Deotto. Li ricordiamo perché se anche le loro voci sono ormai perdute, possiamo ridare loro almeno un briciolo di memoria.

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Sara Urbani

Laureata in scienze naturali con un master in comunicazione della scienza, lavora per la casa editrice Zanichelli. Scrive anche per Odòs – libreria editrice e per i magazine online La Falla e Meridiano 13.

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