Le parole di Polito sono molto chiare. Secondo lui, il Ministro, rinunciando a tenere conto del risultato dell’esame di Stato e abolendo il bonus, avrebbe affermato «che l’esito dell’esame di maturità non è attendibile; anzi è “iniquo”». La conclusione cui giunge il giornalista è delle più tranchant: «ogni anno lo Stato mette in piedi un ambaradan con migliaia di professori che girano l’Italia per costruire commissioni esterne e consegnare titoli di studio con un valore legale e un voto che lo Stato medesimo considera mendaci».
Va notato di passaggio che pare che Polito, che parla ancora di “esame di maturità”, non abbia ben presente l’effettiva situazione dell’attuale esame di Stato, per cui ormai dal 1995 per risparmiare nessuno più “gira per l’Italia”. Ad ogni modo, nelle dichiarazioni del giornalista ci sono questioni ben più pressanti e vanno chiarite alcune questioni di fondo. Il giudizio di “iniquità” che Polito mette in bocca al Ministro, in realtà non c’è mai stato. Il Ministro piuttosto ha notato che il sistema che portava alla determinazione del bonus da attribuire a ciascun candidato era iniquo. Non è corretto e anzi è fuorviante derivare da questo giudizio, quello. Non mi pare nemmeno che lo Stato consideri mendaci i voti degli esami, solo si rende conto che non possono essere usati come qualcuno pretendeva di usarli. Per capire bene la situazione tocca però fare un passo indietro, per cercare di comprendere cos’è il voto d’esame.
Cominciamo col dire cosa il voto dell’esame di Stato non è: non è un modo per misurare le persone, non è un modo per misurare la loro intelligenza, non è un modo per misurare le loro capacità. E allora? Serve piuttosto a offrire, in maniera secca, come solo un numero intero riesce a fare, il bilancio di un percorso di apprendimento. Siccome quel percorso, inevitabilmente e per fortuna, è avvenuto in un contesto, il voto che ne è seguito risulta da esso condizionato. Non serve sollevare questioni Nord-Sud: qualsiasi insegnante con un minimo di esperienza di esami finali sa bene che ragazzi con le stesse capacità e gli stessi livelli di applicazione possono uscire con risultati anche significativamente diversi, a seconda della sezione (si noti: “sezione”) che hanno frequentato di uno stesso Istituto. Ciò è iniquo? Non vedo perché.
Le iniquità cominciano quando si pretende di usare il voto dell’esame di Stato per fargli fare cose per cui esso non è in grado di funzionare bene. Che si cerchi di usare così il voto d’esame è ben chiaro a Polito, che scrive: «dovendo ora selezionare un solo studente su sette per consentirgli l’ingresso a Medicina, abbiamo bisogno di cercare gli studenti diseguali (cioè più meritevoli, o più capaci, o più studiosi, o più appassionati) e non sappiamo come fare». Farlo sulla base del voto dell’esame è però sbagliato, perché intrinsecamente il voto è condizionato dalla situazione e sarà in qualche misura così qualsiasi cosa si faccia (ciò non toglie che si potrebbe comunque fare meglio di adesso).
Polito, come molti di coloro che non appartengono al mondo della scuola, è stato tratto in inganno dalla matematica: si pensa che un punteggio sia una misurazione e quanto più è ricca la scala, tanto più precisa è la misurazione. Il fatto di avere una scala tanto ampia, di ben cento punti, crea sbagliati confronti tra gli studenti, terribili e, viste da lontano, ridicole battaglie per un punto nei Consigli di classe e agli esami finali e, nella società civile, porta grandi confusioni. Un sistema più rilassato sui punteggi (insufficiente, sufficiente, buono, ottimo), ma rigoroso sui criteri, conferirebbe molta più serenità nella scuola e farebbe capire all’Università che, se vuole cercare gli studenti “diseguali”, fa bene a incontrarli e a parlare con loro: si accorgerà così che ciascuno di loro è diverso, anzi unico.