Leggendo s’impara a scrivere

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La scrittrice spagnola, che ha conquistato il pubblico inizialmente con in romanzi “Riti di morte” e “Giorno da cani” ed è stata molto apprezzata in seguito come giallista grazie al personaggio dell’ispettrice di Barcellona Petra Delicado, si racconta. Insegnante di francese e di letteratura spagnola prima, scrittrice a tempo pieno dopo. Le sue esperienze a scuola con gli studenti nel rapporto con la lettura dei classici; i suoi gusti letterari; le fonti di ispirazione e l’attività di scrittura; un consiglio per chi vuole intraprendere questo lavoro, in realtà duro e solitario.

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D: Buongiorno. Potrebbe gentilmente presentarsi?

R: Mi chiamo Alicia Giménez-Bartlett e faccio la scrittrice.

D: Da quando scrive?

R: Direi da sempre perché ho la vocazione da quando ero molto piccola. Stavo sempre, sempre, a scrivere qualcosa. Saranno circa 15 anni che lo faccio di professione, che mi dedico esclusivamente alla scrittura.

D: Quindi avrà fatto studi legati alla letteratura o alla storia, studi di lettere.

R: Ho studiato filologia francese e successivamente ho preso il dottorato in letteratura spagnola, all’università. Con una tesi su Gonzalo Torrente Ballester.

D: Riesce a conciliare la scrittura e l’insegnamento?

R: No, non più. Per i primi dieci anni della mia carriera ci riuscivo o perlomeno ci provavo: al mattino insegnavo e nel tardo pomeriggio, dalle quattro alle otto, scrivevo. Ma a un certo punto non è stato più possibile. Avevo sempre più impegni, la letteratura mi prendeva sempre più tempo. E così ho deciso di lasciare l’insegnamento.

D: Dove insegnava?

R: Alle superiori. I miei studenti avevano dai 14 ai 17 anni.

D: Le piaceva?

R: Sì, è stato un periodo molto piacevole. Ora, parlando con i miei ex-colleghi, mi dicono che le cose sono cambiate, che è più difficile trattare con gli studenti, che la disciplina si è allentata, non è più come ai miei tempi, ma per me è stato un periodo molto piacevole, per niente duro. Mi serviva per stare a contatto con i giovani, per vedere che cosa pensavano, che cosa dicevano, e mi divertivo abbastanza.

D: Cosa insegnava?

R: Insegnavo francese. Però per un anno, un anno e mezzo, ho sostituito una professoressa che era incinta e aveva avuto un bambino, e mi è piaciuto molto insegnare letteratura spagnola in due corsi: in un corso insegnavo storia della letteratura, nell’altro studiavamo i libri, leggevamo alcuni classici spagnoli. Mi ero resa conto che molte volte gli studenti non avevano l’abitudine di leggere per se stessi. E così in classe (eravamo una classe ridotta, circa 15 studenti) passavo la parola a uno di loro, che leggeva 10 minuti, e quando ritenevo che dovesse fare qualche riflessione lo fermavo. Gli dicevo: “Fermati. Che cos’hai letto? Spiegami. Perché questo personaggio dice così? Perché descrive il paesaggio in questo punto?”. Credo che queste pause siano servite affinché gli studenti, quando leggevano da soli, capissero che ogni tanto era necessario fermarsi e farsi delle domande sul testo.

D: E lei leggeva ad alta voce davanti a loro?

R: Sì, iniziavo io e poi ogni studente leggeva un paragrafo e lo analizzava.

D: Sia narrativa che poesia o saggistica?

R: Sì, soprattutto narrativa, ma anche poesia, che per me era molto più difficile perché la poesia classica non è per niente semplice. Inoltre siamo in Catalogna e per molti studenti il catalano era la madrelingua. Quindi io facevo più fatica con la poesia.

D: Come si racconta un libro?

R: Raccontare un libro? Lo fanno molto bene gli studenti stessi, con parole loro. Se li raccontano a vicenda, se li consigliano: devi assolutamente leggerti questo libro! perché parla di questo, di quello… ci sono momenti importanti, questo personaggio mi piace… Secondo me, chiunque debba consigliare un libro a qualcun altro finisce inevitabilmente per raccontargli i veri punti di interesse di quel libro.

D: Ricorda quali libri, soprattutto di autori spagnoli, si facevano leggere agli studenti in quel periodo?

R: Sì, leggevamo El cantar de mío Cid, leggevamo la… oddio… La Celestina di Fernando de Rojas. Successivamente arrivavamo al romanticismo e leggevamo Don Álvaro o la fuerza del sino del Duque de Rivas, La Regenta di Clarín, le poesie di Antonio Machado e, più attuali, quelle di García Lorca. Molte volte leggevamo anche articoli di giornale con la critica delle opere che stavamo studiando.

D: Perché secondo lei il Don Chisciotte è il libro più tradotto della storia, il secondo dopo la Bibbia?

R: Credo che il Don Chisciotte sia un libro immortale perché tocca argomenti molto intimi dell’essere umano. Parla della filosofia della vita applicata a una storia apparentemente semplice. Questo obiettivo, a lungo perseguito da tanti autori, beh… Miguel de Cervantes lo ha raggiunto facilmente. Ha raccontato le possibilità che ha l’essere umano di imprimere un marchio alla propria vita (ottimista, pessimista, materialista, idealista) e di analizzare tutta la società narrando una storia divertente, una storia dove c’è umorismo e movimento, dove c’è satira.

D: Il Don Chisciotte in Spagna è un pilastro fondamentale. Si studia a scuola, così come in Italia si studia la Divina Commedia di Dante. A parte questi due libri, secondo lei quale altra opera fondamentale si dovrebbe studiare a scuola?

R: Intende di autori spagnoli?

D: Sì.

R: Credo sarebbe importantissimo che La Regenta, un libro paragonabile a Anna Karenina e a Madame Bovary, lo leggessero studenti più giovani. Credo che lo capirebbero perfettamente. Ed è un libro con una profondità intellettuale enorme.

D: E di autori contemporanei?

R: Autori contemporanei? Attualmente siamo tanti in Spagna, direi che è un buon momento per la letteratura. Quindi l’ideale sarebbe che l’insegnante conoscesse i maggiori interessi dei propri studenti e consigliasse a ognuno di loro delle letture mirate. C’è chi fa molta fatica a leggere e forse bisognerebbe consigliargli un romanzo d’avventura o un noir, c’è chi è molto passionale e preferirebbe un romanzo d’amore… Oggi c’è tutto un panorama di autori che possono soddisfare i gusti di una classe.

D: Qual è il suo autore o il suo libro preferito?

R: Fra quelli di tutto il mondo e di tutta una vita? Molti, molti. Mi piace tutta l’opera di Shakespeare. In letteratura moderna, i contemporanei americani, mi piace tutta quella piccola generazione di ebrei come Philip Roth, che ha appena ricevuto [ndr questa intervista risale a giugno 2012] il Premio Príncipe de Asturias, o Saul Bellow… ma mi rendo conto che ogni volta, invece di diventare più selettiva, amplio i miei gusti. Forse, proprio perché mi rendo conto di quanto sia difficile scrivere, punto gli occhi su più autori.

D: C’è un libro che regala spesso?

R: Ah no, no. Non lo faccio mai. Vedo a quale amico lo sto regalando, studio molto bene la sua personalità e i suoi gusti, e ne scelgo uno. Non mi baso su ciò che piace a me bensì su ciò che credo possa piacere a lui.

D: Crede che noi spagnoli siamo grandi lettori?

R: Vediamo… La protesta generale è che in Spagna si legge poco. Ma il numero di lettori è aumentato parecchio e soprattutto si è democratizzato. Prima leggeva un gruppo ristretto di spagnoli, che erano molto selettivi, molto intellettuali, e c’era una massa di gente che non leggeva mai. Attualmente le cose sono cambiate: si leggono best-seller, libri di avventura, noir, forse generi che prima non erano così considerati, ma c’è molta più gente che legge. Persino i giovani in certi momenti hanno considerato il libro come un bene di consumo in più. Sarebbe auspicabile che leggessero di più? Sì. Il libro cambierà e diventerà uno schermo? Sì. Ma credo che la letteratura e la storia continueranno a interessare sempre.

D: Secondo lei è un vantaggio? Intendo che la tecnologia si sia mescolata alla letteratura.

R: Mah, non so. Ci sono vantaggi e svantaggi, ma non sono contraria. Credo che se la tecnologia facilita la vita, se entra in tutti gli ambiti della vita, perché non anche nella letteratura? Non possiamo pensare che sia una specie di zona invalicabile, solo per pochi eletti. No, presumo che i giovanissimi o i bambini di oggi leggeranno forse esclusivamente o prevalentemente e-book. Ma è molto probabile che così si ottenga un maggior numero di lettori, che è la cosa più importante.

D: Qual è il suo metodo di scrittura, se ne ha uno?

R: Sono giunta a una sorta di conclusione e rispondo sempre così quando mi fanno questa domanda: credo che ci siano due tipi di scrittori. Gli scrittori di tipo “architettonico”, che costruiscono le proprie storie seguendo una specie di piano prestabilito. Sanno molto bene dove vogliono arrivare: fanno il piano della propria casa (ovvero il piano del proprio romanzo), presentano subito i personaggi, sanno che a un certo punto la storia prenderà una certa direzione, vanno avanti e sanno qual è il finale, la meta. Poi ci sono gli scrittori di tipo “scultorio”, più scultori che architetti. Prendono della materia, dell’argilla per esempio, e iniziano a darle forma con le mani. Non sanno esattamente cosa vogliono ottenere, ma se lo vanno configurando poco a poco, dando forma a quella materia che avevano per le mani e che rappresenta ciò che volevano raccontare. Io sono più scultoria che architettonica, modifico la mia storia iniziale. A volte faccio un passo indietro, taglio, aggiungo… sono più anarchica nello scrivere.

D: In quanto scrittrice, quando cerca una storia o un personaggio, come procede? Scrive tutto il tempo?

R: Credo sia impossibile cercare una storia, e che siano i personaggi a dover trovare te. Perché noi scrittori siamo limitati come qualsiasi altra persona, abbiamo un numero di argomenti da trattare, un numero di pensieri, un numero di esperienze, oltre cui è molto difficile andare. E così tutti gli argomenti e i pensieri che hai lavorano dentro di te finché non arriva il momento in cui saltano fuori. Quindi tu non cerchi, semplicemente lasci spazio affinché quello che hai dentro emerga ed esca. Mi chiede se scrivo tutto il tempo? Beh, no. Cerco accuratamente di non farlo. Quando finisco di scrivere chiudo la mente e dico: «Basta. Non pensare più al romanzo. Non pensare più ai personaggi. Domani, quando riprenderai il lavoro, saranno lì ad aspettarti». Tuttavia, poi ti rendi conto di guardare il mondo in modo un po’ selettivo dal punto di vista letterario: «Questo sarebbe un bell’argomento per un racconto!». Qualcuno dice una frase, per esempio il taxista che ti porta da un posto all’altro, e pensi: «Questa è una bella frase, la userò». Come in tutti i lavori, c’è sempre un po’ di deformazione professionale.

D: Le è mai capitato di rimanere bloccata su un personaggio o su un’opera, un romanzo, e di doverlo lasciar riposare qualche giorno o qualche mese?

R: Sì, mi è successo. Quando ero più giovane non mi succedeva mai perché, beh, hai più idee e una maggiore capacità di superare i problemi. Ora sì, ora a volte devo davvero fermarmi. Persino con l’ultimo romanzo, che è di Petra Delicado, c’è stato un momento in cui ho detto “No, no. Bisogna lasciarlo riposare. Bisogna lasciare che la storia prenda peso” e sono stata un mese senza toccarla, un po’ preoccupata perché vedevo che non mi venivano le idee. Dopo un mese ho ricominciato, sollevata nel vedere che potevo riprendere la storia.

D: Consiglia ai giovani di fare gli scrittori?

R: No. Chiunque conosca il proprio lavoro pensa che sia duro e poco riconosciuto. Perciò se un giovane mi dice: «Mi piacerebbe fare lo scrittore”, rispondo: «Bene, vai avanti. Ma sappi che è un lavoro ingrato, solitario». Quando insegnavo, stavo con i miei studenti, arrivavo alle nove di mattina, a volte ero triste o di malumore, come tutti, ma, a forza di sentire le stupidaggini e il vociare dei giovani, arrivava l’una del pomeriggio e io stessa dicevo stupidaggini e ridevo. La letteratura, la scrittura, è fondamentalmente solitudine. Sei sempre lì ad analizzare te stesso, a tirar fuori cose di te stesso. Non c’è nessuno che possa aiutarti. Per questo a volte mi piace partecipare a congressi di scrittori, perché all’improvviso senti qualcuno, un collega, che dice: «Ho questo problema», e pensi: «Oddio, ce l’ho anch’io, allora non sono pazza». Voglio dire che è un lavoro duro, in solitudine. Chi non ama la solitudine non può farlo.

D: Nonostante tutto darebbe qualche consiglio a chi vuole farlo?

R: Che legga, che legga molto. Che legga tutta la vita, perché leggendo s’impara sempre, sempre. S’impara persino dai libri brutti, che non ti piacciono per niente. E all’improvviso dici: «Beh, guarda, questo però lo ha fatto bene. Se l’è cavata bene con questa breve descrizione, è buona». Quindi leggere per me è fondamentale, più che studiare, più che conoscere autori. Avere sempre un libro per le mani. Leggendo s’impara a scrivere.

Alicia Giménez-Bartlett è originaria di Almansa e vive a Barcellona dal 1975. Autrice di diversi saggi e romanzi, ha vinto nel 1997 il premio Feminino Lumen come miglior scrittrice spagnola con il titolo Una stanza tutta per gli altri. Si è dedicata alla serie che ha per protagonista l’ispettrice Petra Delicado, ottenendo grande favore di pubblico. Nel 2011 ha vinto il premio Nadal con il romanzo Dove nessuno ti troverà.

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