La filosofa americana Martha Nussbaum individua nel semplice, disarmante interrogativo «cosa può fare ed essere ciascuna persona?» il vero punto di partenza per ogni riflessione sulla qualità della vita e per una teorizzazione di una «giustizia sociale di base». Ciò può avvenire solo considerando «ogni persona come un fine, chiedendosi non tanto quale sia il benessere totale o medio, bensì quali siano le opportunità disponibili per ciascuno».
Un criterio di giudizio e di valore che, se applicato al sistema d’istruzione, diventa una prospettiva illuminante per valutare stato di salute, finalità e potenziale della scuola – in ultima analisi coincidenti con quelli della società che la esprime.
Tra gli obiettivi che il mondo si è dato per garantire entro il 2015 un’istruzione di base di qualità obbligatoria e universale ci sono l’attenzione ai soggetti svantaggiati, alle minoranze etniche, all’accesso equo ai programmi e alla formazione lungo tutto l’arco di vita, all’eliminazione delle disparità di genere. Ci siamo chiesti che punteggio dare all’Italia del 2014 e abbiamo interrogato i suoi attori in un dialogo, complesso, che intreccia diritto allo studio, educazione alla cittadinanza, rispetto e inclusione delle differenze.
Abbiamo incontrato un’idea di scuola che va oltre la semplice istruzione e che aspira a dare agli studenti le categorie fondamentali del vivere civile. Nelle esperienze di chi lavora con i minori che delinquono, in nome di un principio “riparativo” della giustizia, ma anche di chi (attraverso progetti concreti di convivenza nel territorio, di recupero e lettura attiva del passato, di attenzione all’ambiente) educa all’adesione ai princìpi che regolano lo Stato, e quindi all’essere cittadini consapevoli, liberi, aperti al confronto con la diversità (lo straniero, l’omosessuale, il non conforme) riconoscendovisi senza perdersi.
Scrive Francesco De Renzo che «il concetto di cittadinanza non è più vincolato alla nazionalità, ma è direttamente collegato alla possibilità di partecipazione attiva alla vita sociale e culturale»: l’idea dell’educazione linguistica può essere efficacemente letta come esemplificazione delle istanze proposte in questo numero.
Ci è parso dunque pertinente e opportuno dedicare il dossier ai diritti dei bambini e alla loro cittadinanza all’interno delle politiche internazionali, fra il tradizionale paternalismo e assistenzialismo e la necessità di considerarli titolari di diritti e degni d’ascolto. La questione riguarda tanto i decisori politici quanto, nel quotidiano, gli operatori dei servizi sociali, e solleva questioni etiche complesse e di stringente attualità laddove, in molte parti del mondo, il fenomeno dei bambini soldato o il diffuso lavoro minorile richiedono un ripensamento dei termini della questione e del pensiero comune e occidentale sull’infanzia.
L’educazione alla cittadinanza sembrerebbe perciò assumere all’interno del sistema d’istruzione il significato ultimo di lavoro sul “saper essere”, sì, ma anche sul “saper fare”: nell’ottica di Nussbaum, una promozione attiva nei soggetti discenti delle proprie capacità e del loro ruolo sul pianeta e all’interno delle relazioni umane. Una sorta di principio di fraternità civile e di assunzione di responsabilità personali e sociali, di agency e di consapevolezza. E come l’attuale situazione economica mondiale richiede di rivedere la tradizionale opposizione naturale tra mercato e società, analogamente la scuola e le agenzie formative non possono permettersi di essere luoghi e momenti altri, avulsi dalla realtà e impermeabili al mondo esterno: solo aprendosi alla sua complessità e accettando la diversità, facendosi occasione e opportunità di inclusione, di recupero, di dialogo, possono davvero svolgere con coscienza il loro mandato educativo.
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