Le parole (e i dati) che ci servono per cambiare la scuola

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Gli addetti ai lavori interessati alle sorti dell’istruzione hanno dovuto fare i conti, negli ultimi mesi, con libri e articoli di pessima fattura ma di grande impatto mediatico, che hanno contribuito a diffondere disinformazione e sfiducia nei confronti della scuola, dei dirigenti, degli insegnanti e perfino degli studenti, additati ormai come complici di un sistema che sembra non soddisfare le aspettative di pubblicisti e intellettuali. Ma per fortuna ci sono le eccezioni.

Per spirito di servizio, dunque, segnalo quello che è di sicuro uno dei migliori libri sulla scuola che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni: Nostra scuola quotidiana di Gianluca Argentin, docente di Teorie sociologiche e mutamento sociale alla Bicocca di Milano e già autore, tra l’altro, di una fondamentale monografia sugli insegnanti nella scuola italiana.

Prima ancora di fornire una sintesi dei contenuti del volume, che per quanto abbia un taglio divulgativo mette a disposizione una mole considerevole di informazioni, vorrei giustificare il mio entusiasmo evidenziando le caratteristiche che lo rendono particolarmente interessante e che, se opportunamente valorizzate, potrebbero contribuire a rilanciare il discorso pubblico sulla scuola, ripulendolo da quelle scorie ideologiche e pseudoscientifiche che lo stanno rendendo poco appetibile, se non addirittura infrequentabile.

Per cominciare, è da apprezzare la fiducia dell’autore nella possibilità di produrre un miglioramento del servizio pubblico di istruzione attraverso il lavoro di chi produce conoscenza sulla scuola: dipartimenti universitari, centri di ricerca, enti di valutazione e le stesse istituzioni scolastiche. Parrebbe un fatto scontato, ma dopo aver letto intere monografie sulla scuola prive di riferimenti bibliografici e basate sul rimasticamento di stereotipi, è il caso di sottolineare l’approccio scientifico di Argentin, che fonda la sua argomentazione sulla ricerca evidence-based, sempre riconoscendo la complessità dei problemi affrontati e la necessità di procedere con cautela, esplicitando tutti i dubbi e le difficoltà che il ricercatore incontra nel suo lavoro di indagine e nell’interpretazione dei dati a disposizione.

Altrettanto evidente e apprezzabile è il rispetto dell’istituzione scolastica, i cui problemi sono analizzati impietosamente, con senso della misura e nella prospettiva di fornire soluzioni mai punitive o colpevolizzanti, non definitive e provvidenziali ma provvisorie, partecipate e da verificare puntualmente tenendo conto della complessità e della varietà delle scuole, che non possono essere ricondotte a una unica categoria e che devono necessariamente essere considerate in relazione al contesto in cui si trovano. Se c’è un “problema scuola”, quindi, è perché la scuola è ritenuta, nonostante i suoi problemi, una risorsa fondamentale di cui dispone una società democratica per contribuire a contrastare le diseguaglianze.

Ma prima di arrivare alle conclusioni proviamo a ripercorre sinteticamente il ragionamento di Argentin, che prende le mosse dall’individuazione di alcuni tratti distintivi del sistema scolastico (cap. 1, Persistenze e mutamenti nella scuola italiana), caratterizzato da ambivalenze di fondo, quali la convivenza di cambiamenti anche radicali e di elementi immutabili, di una gestione centralizzata dei processi e di una grande eterogeneità territoriale, di una natura pubblica e gratuita del servizio e di una forte difformità della sua qualità.
Vale la pena soffermarsi sul paragrafo dedicato alla governance, che mette in risalto come l’autonomia decisionale delle scuole sia indebolita da almeno tre elementi: le regole per l’assegnazione dei docenti; i limitati poteri decisionali dei dirigenti e l’assenza di un middle management in grado di garantire in modo stabile e continuativo il funzionamento delle scuole; le prassi di dirigenti e docenti che – sono parole di Argentin – «non sempre sfruttano gli spazi di azione dati loro dalle normative esistenti, per un mix di formalismo burocratico, timore di ricorsi o problemi e consuetudine» (p. 30). Quest’ultimo aspetto denota una conoscenza davvero approfondita delle dinamiche interne alle istituzioni scolastiche, che tramite i loro organi decisionali tendono a darsi norme assai più stringenti di quelle previste dalle indicazioni nazionali (sulla valutazione, sui contenuti della didattica ecc.) e, in linea generale, non mettono a profitto le potenzialità dell’autonomia scolastica – che comunque richiede una capacità di interpretare e applicare le norme e gli strumenti di gestione che non è ugualmente distribuita nelle scuole e che non è incentivata.
In estrema sintesi, la scuola è rappresentata come un «macchinario imponente, fatto di molti pezzi tra loro difformi, senza una chiara direzione nell’assemblaggio, con difficoltà di manovra, soprattutto in tempi rapidi, ma anche con inattese funzioni che si attivano al bisogno» (p. 45), un’organizzazione gigantesca il cui funzionamento non può essere compreso se non tenendo conto del contesto sociale in cui si colloca e con il quale intrattiene una relazione di reciprocità ineludibile.
La pandemia da Covid-19 ha d’altronde esaltato il ruolo sociale della scuola, il cui funzionamento contribuisce alla definizione di spazi e tempi della vita quotidiana delle città. La scuola, si legge nel secondo capitolo (Un’enorme organizzazione al centro del mondo sociale), «è un fondamentale apparato di conciliazione famiglia-lavoro, soprattutto per le donne» (p. 54), e anche per questo è un’istituzione esposta alle oscillazioni della politica e a portatori di interessi che non sempre guardano prioritariamente alla qualità del servizio di istruzione e ai risultati di apprendimento. Il luogo in cui la scuola è situata e i suoi orari di apertura non sono mai neutrali, e, specialmente in certi contesti educativi – pensiamo al caso di quartieri a elevata povertà educativa, o alle aree interne del Paese – la scuola può avere un fondamentale ruolo trasformativo che va al di là della mera funzione educativa. «Prendere sul serio la centralità sociale della scuola», conclude l’autore, riflettendo sulla dislocazione delle sedi, sui calendari e sugli orari, «stimola rilevanti conseguenze sociali e, di rimando, pare possa avere conseguenze decisive sul funzionamento delle scuole stesse» (p. 61).

Questo potenziale trasformativo – e veniamo dunque all’argomento del capitolo 3, Chi fa funzionare la scuola – può essere effettivamente attivato solo attraverso il contributo delle e degli insegnanti, «il principale motore umano dell’organizzazione scolastica», una forza-lavoro composta da oltre 900mila persone, a fronte di poco meno di 8.000 dirigenti (chiamati a gestire altrettante istituzioni scolastiche distribuite in circa 39.000 edifici). Questi numeri – che vanno letti nel contesto già delineato di una scuola dall’autonomia debole – per l’autore dovrebbero essere sufficienti a far capire che «difficilmente i dirigenti possono essere fautori di innovazioni e trasformazioni nei modi di fare scuola, se non attraverso la mobilitazione di una parte importante degli insegnanti con cui lavorano» (p. 64).

Guardare agli insegnanti come una risorsa da attivare significa, dunque, mettere a nudo i principali paradossi che caratterizzano questa «strana occupazione», in bilico tra professionalità e routine impiegatizia, tra libertà di azione e vincoli stringenti, alle prese con continui cambi di attività dai compiti radicalmente diversi, che richiedono capacità di studio e di programmazione, ma anche doti di improvvisazione e capacità relazionali, sempre nel rispetto delle norme e facendo i conti con gli usi e costumi del posto. Costantemente in bilico «tra tradizione e innovazione, tra uguale trattamento e riconoscimento delle differenze, tra inclusione e selezione» (p. 78), i docenti devono affrontare dilemmi fondamentali e trovare personalmente una sintesi tra le diverse logiche valoriali sottostanti il funzionamento del sistema scolastico, con un carico aggiuntivo di fatica dovuto al fatto che «non si tratta per loro di disquisizioni teoriche, ma di bambini o ragazzi, con un nome e un cognome, con le conseguenti implicazioni emotive e relazionali».

Tuttavia, nonostante le difficoltà intrinseche a questa «professione sui generis», e nonostante alcune caratteristiche tipiche del caso italiano (anzianità del corpo docente, elevato scarto di genere nell’accesso all’insegnamento, instabilità e imprevedibilità del percorso iniziale e assenza di possibilità di carriera), l’indagine ISTAT sulla forza lavoro in Italia tra il 2014 e il 2020 evidenzia una sostanziale soddisfazione degli insegnanti riguardo al loro lavoro – forse perché, spiega Argentin, «pare probabile che gli insegnanti, nonostante la crisi permanente insita nel loro ruolo di raccordo tra generazioni entro società in mutamento, godano di una motivazione intrinseca più forte che in altre occupazioni», ma soprattutto è plausibile l’ipotesi che quella stessa assenza di criteri valutativi e di percorsi di carriera che può rappresentare un elemento negativo, consenta tuttavia di personalizzare il proprio ruolo, trovando «spazi di gratificazione su misura per ogni docente» (p. 96). In sintesi, conclude Argentin, «la logica di governo del sistema scolastico riassunta in precedenza nello slogan “a ciascuno il suo” pare particolarmente adatta per quanto riguarda la soddisfazione degli insegnanti» (p. 97).

Diverso è ovviamente l’impatto di questa logica sui risultati della scuola e sulla crescita degli studenti, argomento trattato puntualmente nel capitolo 4 (Come funziona la scuola italiana?), uno dei più interessanti dal punto di vista del metodo e dell’impianto argomentativo, interamente fondato sui risultati della ricerca empirica, interpretati sempre con prudenza, cercando la convergenza di diverse evidenze e tenendo conto della estrema variabilità del sistema di istruzione italiano, i cui risultati non possono essere valutati senza tener conto del fatto che si tratta di un contesto relazionale, intrecciato al mondo esterno, su cui disponiamo di dati parziali e incompleti. Rimandando a una lettura del volume la discussione dei dati a disposizione relativi ai livelli di istruzione, alle competenze rilevate ai test nazionali e internazionali e alla dispersione scolastica, vale la pena di riportare le conclusioni di Argentin:

[…] tutti gli indicatori a nostra disposizione evidenziano in modo convergente che esiste un serio problema di istruzione dei giovani in Italia, che – vale la pena ricordarlo ancora una volta – hanno titoli più bassi dei coetanei di altri paesi, più alti tassi di dispersione e totale inattività (NEET) e competenze modeste, con quote rilevanti di ragazze e ragazzi che restano lontani dal raggiungimento di traguardi minimi per essere integrati socialmente ed economicamente. (p. 127)

Inoltre, come evidenziato nel capitolo successivo (cap. 5, Un’istruzione diseguale), occorre tener presente che questi dati medi nascondono una grande variabilità che in parte va ascritta alle origini sociali familiari, al background migratorio, al genere e all’area di residenza, tutti fattori che concorrono a determinare i risultati degli studenti nei percorsi di istruzione, «generando diseguali opportunità educative» (p. 130).
Leggiamo ancora direttamente dal libro:

In realtà, il processo di massificazione dell’istruzione non si è accompagnato a una decisiva parificazione delle opportunità di mobilità sociale tra individui provenienti da diverse origini sociali, tanto che si rilevano notevoli persistenze nelle associazioni tra origini e destinazioni sociali degli individui e la retorica meritocratica presenta molte fallacie. Ancora oggi, il background familiare di un individuo influenza fortemente l’occupazione che andrà a svolgere e lo fa, spesso, proprio contribuendo prima a definire le sue performance scolastiche e il suo titolo di studio. (p. 132)

La persistenza delle disuguaglianze e la loro riproduzione nel campo dell’istruzione, documentata da una pluralità di fonti, viene spiegata ricorrendo all’analisi degli effetti primari (le performance nell’istruzione) e dagli effetti secondari (i titoli di studio raggiunti) delle diverse origini sociali. Sono moltissimi, spiega Argentin, i «micro-meccanismi» che concorrono a fare andare meglio a scuola i figli di genitori di estrazione sociale più elevata, consentendo loro di sfruttare al meglio le potenzialità del servizio di istruzione (effetti primari): un vocabolario più ampio fin dalla prima infanzia, un miglior supporto nello studio e nei compiti a casa ecc. E altrettanto numerosi sono i cosiddetti effetti secondari delle origini sociali, tra cui si ricordano le scelte di investimento dei genitori nella prosecuzione degli studi dei propri figli, al netto dei loro risultati scolastici, o anche la propensione più o meno alta a rischiare l’eventuale insuccesso scolastico dei figli.

Ma ancora più interessante risulta l’analisi del ruolo dell’assetto istituzionale del sistema di istruzione, le cui caratteristiche sembrano concorrere alla riproduzione delle diseguaglianze sociali. In assenza di un efficace sistema di orientamento – argomento che meriterebbe una trattazione più ampia – la configurazione dei diversi ordini di scuola e la necessità di scegliere precocemente, a 13-14 anni, quale percorso intraprendere tra licei, tecnici, professionali o formazione professionale (con una ulteriore gerarchizzazione implicita tra licei classici e scientifici e altri licei) è alla base del sostanziale classismo della scuola secondaria di secondo grado, che con la sua strutturazione concorre a rinforzare le diseguaglianze iniziali e contribuisce a quella che Argentin definisce una «segregazione di genere», puntualmente descritta in pagine illuminanti.

Infine, per spiegare il complesso fenomeno della riproduzione delle disuguaglianze è opportuno guardare anche agli “effetti terziari”, ovvero al ruolo specifico degli insegnanti, le cui azioni sarebbero orientate dalle caratteristiche degli studenti – origine sociale, background migratorio, genere ecc. – «con esiti di rinforzo delle disparità di partenza». «Si tratterebbe di processi», scrive Argentin, «di cui gli insegnanti non sono necessariamente consapevoli, essendo passivi portatori di interessi delle classi dominanti per la posizione sociale e il ruolo attribuito loro nei sistemi scolastici» (p. 155), ma che tuttavia contribuirebbero a ostacolare la promozione dell’eguaglianza all’interno delle scuole.

Anche in questo caso, come già alla fine del capitolo precedente, Argentin evita di attribuire al sistema di istruzione la responsabilità delle diseguaglianze sociali – «la scuola e gli insegnanti non possono essere caricati dal peso di risolvere in solitaria la questione dei divari socio-economici, migratori, territoriali, di genere ecc.» (p. 156) – per evidenziare come sia invece fondamentale riconoscere esplicitamente alla scuola un ruolo decisivo nel contenimento delle diseguaglianze, lavorando a norme che ne accrescano il potere equitativo.

L’ultimo capitolo (Conclusioni. Il cambiamento necessario: tra urgenza, vincoli e apprendimento) è forse il più difficile da riassumere e andrebbe letto e meditato in ogni redazione, in ogni collegio dei docenti, in ogni consiglio comunale e regionale di questo Paese le cui classi dirigenti appaiono, di fronte ai problemi della scuola e alle sue potenzialità, sempre più confuse, contradditorie e inefficaci. Dopo aver riconosciuto le profonde differenze che si celano dietro la facciata di un sistema scolastico pubblico uniforme, e sempre tenendo presente «il quadro di ombre che emerge dall’analisi dei risultati del sistema scolastico italiano», che spinge a interrogarsi per trovare urgentemente «percorsi di mutamento», Argentin elenca alcuni interventi realizzabili e, soprattutto, propone tre «logiche» di fondo che dovrebbero informare ogni futuro ragionamento sulla scuola e sul suo cambiamento:

  • la differenziazione dei ruoli nella funzione docente, riconoscendo la diversità dei compiti all’interno delle scuole e prevedendo strutture organizzative intermedie;
  • l’adozione di una prospettiva evidence-informed nell’applicazione di qualsiasi nuova soluzione, che dovrebbe essere basata sull’evidenza empirica e non su prese di posizione ideologiche;
  • lo sviluppo della ricerca dal basso (bottom up), con conseguente valorizzazione dell’apprendimento riflessivo di insegnanti e dirigenti delle scuole.

Tutto ciò non basterà a risolvere i problemi che affliggono la scuola italiana, ribadisce l’autore nelle sue conclusioni, ma si porrebbero le basi per un rinnovamento della cultura scolastica, rafforzando in chi opera nelle scuole alcuni principi:

l’importanza della competenza specialistica, il riconoscimento dell’impegno organizzativo, l’attenzione all’evidenza empirica, la coltivazione del dubbio e la ricerca partecipata di soluzioni ai problemi (p. 173).

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Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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