«Le parole sono importanti» diceva Nanni Moretti nel suo film Palombella rossa (1989), e questa frase è da allora diventata proverbiale. Ma il celebre regista e attore italiano è arrivato buon ultimo (e ormai penultimo, terzultimo ecc.) a ribadire un concetto – la forza e l’importanza della parola – che ha una storia plurimillenaria, e sul quale si sono espressi i pensatori più illustri di ieri e di oggi.
Forse, però, nessuno lo ha fatto con la chiarezza del sofista Gorgia (IV sec. a.C.) che nel suo Encomio di Elena definì la parola «un grande dominatore, che col più piccolo e più invisibile corpo compie le opere più divine»; e se è vero che in greco «parola» si dice lògos, per i filosofi stoici questo concetto era alla base dell’ordine dell’universo, mentre il Vangelo di Giovanni inizia ricordandoci che il lògos – con la nascita di Cristo – «si è fatto carne»: sì, per il cristianesimo la salvezza dell’umanità si compie attraverso la realizzazione piena della parola; parola di Dio, ovviamente, ma sempre parola è.
Venendo a concetti un po’ meno… metafisici, quante volte si accusano i tempi correnti di avere smarrito l’uso pieno, profondo e consapevole delle parole? E quante volte (io per primo, in pieno conflitto di interessi, ovviamente) abbiamo suggerito ai nostri giovani (pensando così di porre argine al loro lessico ridotto e necessariamente “abbreviato” per velocizzare le comunicazioni via Whatsapp…) di iscriversi al Liceo Classico? Magari con motivazioni del tipo: così, se sai il greco, capisci meglio il significato delle parole e le usi con maggiore proprietà.
Un nuovo libro di Giorgio Ieranò
Nonostante la sua trasformazione in una sorta di slogan, quest’ultima frase ha comunque un buon fondo di verità, come ci conferma il recentissimo libro di Giorgio Ieranò, Le parole della nostra storia. Perché il greco ci riguarda, Marsilio, Venezia 2020. Un volume scritto da un grecista (professore all’Università di Trento) che, comunque, non inneggia come facevano il poeta Shelley o il filosofo Hegel all’idea di una continuità totale e acritica con la grecità classica, ricordandoci opportunamente come questa fosse idealizzata anche da Adolf Hitler (sic!). Ciò «perché questi benedetti Greci, nella loro storia millenaria, sono riusciti a essere tante cose diverse. E anche noi, forse, siamo spesso diversi da ciò che crediamo di essere» (p. 10). Infatti gli antichi – come mi è capitato spesso di scrivere su queste colonne ed è più volte ribadito da nel libro da Ieranò – sono diversi da noi, anche se «un filo solidissimo ci lega ancora a quel passato. Ed è appunto il filo delle parole» (p. 12).
Le parole sono dunque un fortissimo elemento di continuità tra i Greci e noi, e pertanto l’autore ci propone un interessante percorso all’interno del quale il lessico dell’odierna lingua italiana (ma non solo) è analizzato in relazione all’origine greca dei vari termini. Sono presi in esame diversi campi semantici, come dimostrano i titoli dei vari capitoli: Le parole dell’anima (p. 21 ss.), del sacro (p.66 ss.), della cultura (p. 105 ss.), della politica (pp. 131 ss.), cui fanno seguito Parole nuove (p. 163 ss.) e L’ultima parola (p. 201 ss.), che – visti i tempi che attraversiamo – non poteva che essere «epidemia».
Parole greche ancora in uso
La raffinata cultura di Ieranò, che cita con disinvoltura sia autori classici sia personaggi di altre epoche (da Manzoni a De Chirico, da Boccaccio a Margareth Thatcher, da Eliot a San Tommaso, da Baudelaire a Galileo ecc.), ci aiuta a comprendere meglio il senso delle parole che la nostra lingua ha “rubato” a quella greca (cito a caso: mito, politica, democrazia, filologia, economia ecc.), mostrando come molto spesso vi sia stato nel corso del tempo un fenomeno di risemantizzazione, cioè di mutamento del significato antico.
Un esempio è proprio il tanto attuale «epidemia», che deriva dall’aggettivo greco epidèmios, che significa «ciò che riguarda un determinato territorio»; si tratta dunque di forma solo saltuariamente usata anticamente in ambito medico, come invece avverrà nelle lingue moderne a partire dall’Ottocento.
Suggerisco ai colleghi docenti di far leggere ai propri allievi, tra le altre, le pagine relative ai termini «politica» e «democrazia», davvero utili per imbastire un percorso di riflessione nell’ambito della nuova (e un po’ misteriosa) disciplina «Educazione civica». Anche (e soprattutto) in questo contesto «le parole sono importanti», perché – ad esempio – «democrazia» e «demagogia» sono termini simili, ma tra loro profondamente diversi, ed è bene che i cittadini di domani imparino presto a distinguerli.
Parole nuove ispirate al greco
La parte del libro che mi ha più incuriosito è stata però quella relativa alle Parole nuove, cioè quelle formate in epoca moderna o contemporanea ma etimologicamente legate alla lingua greca. Qui, lo confesso, ho imparato anch’io molte cose, e molte altre – che già sapevo in forma un po’ superficiale – le ho capite assai meglio.
L’autore ricorda, tra gli altri, come il termine «utopia» sia stato coniato dal filosofo e futuro santo Tommaso Moro (1516), e questo lo immaginavo; ignoravo invece la creazione di «telescopio» ad opera dallo scienziato greco Iannis Dimisianos (1611) e di «xenofobia» da parte dallo scrittore francese Anatole France (1901). Per quanto concerne «nostalgia», essa venne usata per primo dallo studente di medicina alsaziano Johannes Hofer nel 1688 per definire la tristezza delle guardie svizzere papaline lontane da casa: la consacrazione ufficiale del nuovo conio avvenne però solo con l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert nel 1777.
Del tutto sorprendente, infine, che uno dei termini-simbolo della moderna cultura progressista, cioè «ecologia», sia stato usato per la prima volta nel 1866 da Ernst Haeckel, uno scienziato prussiano razzista e ultranazionalista. Ciò dimostra una volta di più che le parole – per mezzo di quel «Signor Uso» di cui parlava Manzoni a proposito della lingua – dopo la loro nascita vivono una vita autonoma e, passando di bocca in bocca, di penna in penna, di tastiera in tastiera, si caricano di sfumature e significati diversi, a seconda del contesto culturale e cronologico in cui vengono adoperate.
Un testo di alta divulgazione
Insomma, siamo davanti a un libro di alta divulgazione, valido sia per gli addetti ai lavori, sia i per curiosi, sia – lo ribadisco – per i giovani studenti, anche universitari. Avrebbe dovuto leggerlo un mio allievo di molti (temo tra i 25 e i 30) anni fa che in un tema mi scrisse più volte che si stava pericolosamente diffondendo la «xilofobia» (ovviamente intendeva «xenofobia»); fu in quella circostanza, però, che scoprii che la parola «xilofobia» esiste davvero, e indica una fobia, una paura persistente ed eccessiva del legno. Io mi ero fermato alla ben più nobile e artistica «xilografia» oppure alla «agorafobia» di manzoniana memoria (della quale Ieranò parla, tra l’altro), ma le vie del greco, soprattutto nella medicina, sono davvero infinite: basta aprire il bugiardino di un farmaco qualunque per scoprirlo.
La lettura del bugiardino è però oltremodo noiosa, mentre quella del saggio di cui parliamo è davvero coinvolgente: in qualche frangente ci sembra quasi di poter chiacchierare con il suo autore, del cui stile brillante, sovente piacevole, ho già avuto modo di parlare altre volte su questa rivista.