Le due Agrippine: il potere di un’acconciatura

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Le due Agrippine, cioè la cosiddetta Maior (14 a.C.-33 d.C.) e la figlia, come tale detta Minor (16 d.C.- 59 d.C.), sono state senza dubbio tra le donne più influenti e ammirate della Roma imperiale, poiché nelle loro vene scorreva nientemeno che il sangue del Divino Augusto.
Gemma Claudia, Vienna, Kunsthistorisches Museum

Prima di parlare di loro è però bene osservarle con attenzione ritratte una di fronte all’altra (insieme con i rispettivi mariti Claudio e Germanico) nella meravigliosa “Gemma Claudia” conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna: difficile, a mio avviso, trovare nel mondo romano una migliore espressione congiunta di raffinatezza e potere.

Agrippina Maggiore, Roma, Musei Capitolini

Agrippina Maggiore, nipote di Augusto

La prima era nata dall’unione tra Giulia, unica figlia di Ottaviano Augusto, con il valoroso generale Marco Vipsanio Agrippa, l’amico di sempre del princeps; sposa di Germanico, vero astro nascente della casa imperiale, da lui generò nove figli: tra questi il futuro imperatore Gaio Caligola, e, appunto Agrippina Minore. La morte prematura di Germanico (19 d.C.) la rese però priva di quella protezione che era fondamentale in quel covo di “parenti-serpenti” che era la famiglia Giulio-Claudia. Non le bastarono la sua forte tempra e la sua consuetudine con il potere, e neppure – come dice Tacito – la capacità di liberarsi con gli anni «da ogni seduzione femminile per accendersi di passioni virili» (Annali, 25, trad. E. Cetrangolo). Anzi, tanta intraprendenza dovette spaventare il cinico Tiberio, allora imperatore, geloso della veneranda memoria di Germanico (suo nipote e figlio adottivo) e timoroso delle ambizioni future degli eredi di quest’ultimo. Così, forse istigato dalla madre Livia Augusta, costui prima emarginò progressivamente Agrippina dalla domus imperiale, poi la infangò con accuse di vario genere e quindi nel 29 d.C. la spedì in esilio a Ventotene, ove restò fino alla morte.

Germanico, Roma, Museo Nazionale di Palazzo Massimo

Le paure di Livia e Tiberio non erano infondate, poiché Agrippina era «la sposa di un mito», come ha acutamente scritto lo storico Lorenzo Braccesi (Agrippina, la sposa di un mito, Laterza, Roma-Bari 2015) e la sua popolarità era enorme presso le legioni “orfane” di Germanico, che lei aveva spesso seguito nelle sue campagne militari. Non minore era il suo carisma presso le donne romane – matrone o popolane che fossero – per le quali era divenuta una sorta di icona di stile e charme. Aveva infatti, come attestano statue e monete, una particolare bellezza, il cui “marchio di fabbrica” era una pettinatura del tutto innovativa per i tempi: i suoi capelli mossi erano divisi da una scriminatura centrale, con un’acconciatura che gli archeologi chiamano proprio “alla Agrippina”. Molte donne del tempo imitarono tale moda (e di ciò fa fede la documentazione archeologica) sperando forse di somigliare almeno un po’ alla nipote di Augusto. Tra queste vi fu anche la figlia Agrippina Minore, che – come vedremo – dalla madre non ereditò solo il taglio dei capelli.

Agrippina Minore, sorella, moglie, madre di imperatori

Agrippina Minore, Varsavia, Museo Archeologico Nazionale

Agrippina Minore ebbe una parabola di successi politico-diplomatici sicuramente superiore a quello della madre, accompagnata però – come sappiamo – da un drammatico epilogo. Il suo “capolavoro” fu senz’altro l’avere sposato in quarte nozze l’imperatore Claudio, suo zio, e averlo convinto ad adottare e scegliere come successore Nerone, il figlio che lei aveva avuto da Gneo Domizio Enobarbo.

L’eredità materna si concretizzò in lei nella capacità di alternare pratiche di seduzione ad atteggiamenti austeri, autoritari e solitamente maschili, che subito si manifestarono a corte quando sostituì al fianco di Claudio la lasciva Messalina (Tacito, Annali, 12, 7 parla di un atteggiamento quasi virile); e tra le passioni considerate allora “da uomo” che praticava, oltre alla trama politica, vi fu anche la letteratura, tant’è che scrisse pure un’opera storica oggi perduta. Ha provato a supplire a tale mancanza l’archeologo Andrea Carandini, ideandone un’immaginaria autobiografia (Io, Agrippina, Laterza, Roma-Bari 2018), nella quale, tra l’altro le fa dire: «Ho imparato molto da mia madre, ma disgrazie innumerevoli mi hanno indotto ad agire con meno testardaggine, imitando la diplomazia in cui mio padre eccelleva». Sì, perché per Agrippina Minor prassi politica, azione diplomatica e appartenenza familiare erano cose intimamente connesse, giacché – secondo Tacito – «pretendeva di partecipare all’impero fondato dai suoi antenati» (Annali, 12, 37, trad. E. Cetrangolo); d’altronde poteva rivendicare con orgoglio la discendenza da Augusto – in quanto figlia di Agrippina Maior e Germanico – e l’essere stata sorella, moglie, madre di ben tre imperatori: Caligola, Claudio, Nerone.

Non abbiamo prove provate dei rumores che la vorrebbero amante incestuosa di Caligola e avvelenatrice di Claudio; abbiamo invece numerose testimonianze del ruolo che giocò – nel bene e nel male – durante il regno di Nerone, durante il quale si comportò da vera First Lady, cercando di orientare l’operato del giovane princeps con l’aiuto del filosofo Seneca e del prefetto del pretorio Afranio Burro. Da First Lady, però, non esitò in certi frangenti a tramutarsi in Dark Lady, come quando suggerì all’imperatore di sbarazzarsi dell’ingombrante fratellastro Britannico. Nerone, dal canto suo, imparò tanto bene la lezione da usare l’omicidio come prassi abituale di governo; prassi che non risparmiò neppure la stessa Agrippina. L’invadenza della madre, infatti, fu tale che nel 59 d.C. Nerone la fece assassinare a Baia, in Campania, da sicari capeggiati dal liberto Aniceto, dopo altri tentativi falliti di matricidio.

Agrippina Minor visse sempre come se fosse sotto i riflettori, e interpretò alla perfezione il ruolo che la Storia le aveva

Agrippina e Nerone, scultura dal Sebasteion di Afrodisia (Turchia)

assegnato; ed era un ruolo da grande personaggio tragico, degno delle opere di Eschilo o Sofocle. E proprio ad Eschilo sembrano rifarsi le fonti (Tacito, Svetonio, Cassio Dione, l’Octavia pseudo-senecana) quando ci narrano del suo atteggiamento in punto di morte, simile a quello di un’eroina greca dal carattere simile al suo, e cioè Clitennestra. Quest’ultima, davanti alla spada del figlio Egisto che la sta uccidendo per vendicare il padre Agamennone, aveva affermato: «Fermati! Abbi rispetto, figlio mio, di questo seno, su cui tante volte ti addormentavi e intanto con le labbra succhiavi il dolce latte che ti nutriva» (Coefore, vv. 896-898, trad. M. Centanni). Agrippina – consapevole che il mandante dell’omicidio è proprio Nerone – secondo Tacito «mentre il centurione alza il pugnale per finirla, protende il ventre, esclamando: “Colpisci questo!” e muore, trafitta da molte ferite» (Annali, 14, 9, trad. A. Arici). E ancor più esplicitamente allusivo al dramma eschileo è il racconto del fatto presente nell’Octavia, una tragedia latina in passato erroneamente attribuita a Seneca. Si dice infatti: «Un messo mette in atto l’ordine: squarcia col ferro il petto della Signora. Lei, morendo, infelice prega l’autore del delitto di affondare la spada maledetta nell’utero: “Questo deve essere trafitto” – dice – “con la spada, poiché ha recato un tale mostro”. Dopo questa frase, alfine – con l’ultimo gemito – rese l’anima, triste attraverso crudeli ferite» (Octavia, vv. 364-376, trad. M. Reali).

Ma di questo confronto tra Agrippina e Clitennestra ho già scritto in altra sede (M. Mortarino, M. Reali, G. Turazza, Primordia rerum, 3 vol., Loescher, Torino 2019, pp. 431-432), e pertanto non mi dilungo. È invece alla sua pettinatura che voglio tornare, così simile – come si è già detto – a quella della madre, pure con numerose varianti; mi piace infatti pensare che si sia presentata ai suoi sicari coi capelli in ordine, con la scriminatura perfetta che i numerosi ritratti rimasti ci documentano. Anche la sua morte infatti, come la vita intera, sarebbe stata sotto i riflettori: non poteva – lei che, come l’omonima Maior, era diventata un modello estetico per tutte le donne romane – farsi trovare spettinata dall’estrema circostanza della Storia. Lo doveva al suo rango, alla memoria della madre, alle sue imitatrici e – perché no? – alle raffinate parrucchiere imperiali che avevano fedelmente servito le “due Agrippine”.

Imitare le regine: un costume senza tempo

Concludo andando un po’ lontano dai complotti di Roma, dal lusso delle ville imperiali campane, o dagli esili isolani delle nostre protagoniste. Porto infatti i miei lettori al Museo Archeologico di Milano (qui ne ho appena recensito il nuovo catalogo epigrafico), e in particolare li invito a osservare una stele funeraria a ritratti proveniente dal Comasco (CIL V, 5663 = EDR160898) che gli esperti datano proprio all’età Giulio-Claudia, epoca della quale stiamo parlando. L’oggetto è curato, ma ben lontano dall’eleganza dell’arte di Roma capitale, e i tre defunti (il liberto Marcus Asellius Clemens, sua moglie Statia Statulla, e il liberto Marcus Asellius Latinus) sono raffigurati con quel gusto un po’ naif tipico delle maestranze provinciali. A una cosa, però, i nostri liberti – evidentemente arricchiti – non rinunciano, e cioè all’imitazione delle modalità di “appariscenza” proprie delle classi superiori, e in primis dei membri della domus imperiale. Nella frangetta e nelle orecchie un po’ a sventola dei due maschi non ci vediamo, infatti, i tratti tipici di Germanico o Tiberio? Ma è la nostra Statia Statulla che ci preme di più, perché la sua pettinatura è evidentemente modellata su quella delle “due Agrippine”. Non sappiamo se così fosse anche nella vita reale, o se questa emulazione sia avvenuta solo sulla pietra, magari su consiglio dello scultore; sappiamo però che questa “donna comune”, moglie di un ex schiavo, ha voluto consegnarsi alla posterità acconciata come un’imperatrice (lo so, il termine è impreciso, ma ci si intende, no?), ed è questo un ottimo esempio di quanto abbiamo detto in precedenza.

Stele degli Asellii, Milano, Civico Museo Archeologico

D’altronde, i capelli delle “teste coronate” (o comunque potenti) hanno fatto tendenza anche in età più recenti: quale dama francese del secondo Settecento, infatti, non scimmiottava le spericolate acconciature di Maria Antonietta immortalate da Elisabeth Vigée Lebrun? Ma possiamo avvicinarci ancor più alla nostra epoca, ricordando come negli anni Sessanta e Settanta del Novecento i parrucchieri di tutto il mondo si ispirassero all’elegante semplicità della chioma della First Lady americana Jaqueline Kennedy oppure alla più sofisticata pettinatura di Farah Diba, moglie dell’allora scià di Persia; e che negli Ottanta nessun “taglio” femminile è stato tanto popolare quanto quello corto e anticonvenzionale della principessa Diana d’Inghilterra. Ci sarebbero molti altri esempi, ma il rischio è che dai capelli femminili si arrivi a parlare anche di barbe maschili, come quelle imitatissime degli imperatori Adriano e Marco Aurelio, che a loro volta le avevano imitate dai filosofi greci… Meglio, dunque, che mi fermi qui, anche perché se allungassi ancora questo pezzo le barbe potrebbero metaforicamente spuntare anche ai miei lettori!

Louise Elisabeth Vigée Lebrun, Ritratto di Maria Antonietta, Versailles
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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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