L’articolo 4 del nuovo Statuto della Regione Toscana – approvato nel 2004 e in vigore dal 2005 – dice espressamente che la Regione persegue, tra le sue finalità prioritarie: «il rifiuto di ogni forma di xenofobia e di discriminazione legata all’etnia, all’orientamento sessuale e a ogni altro aspetto della condizione umana e sociale». È una posizione chiara, che comporta una precisa assunzione di responsabilità da parte della comunità dei cittadini. Ma non è, forse, una posizione condivisa a livello nazionale.
Mentre la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (2007) stabilisce in modo altrettanto palese che «È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale», la Costituzione italiana, che da questo punto di vista risulta certamente datata, e i più recenti statuti regionali, non fanno esplicito riferimento all’orientamento sessuale.
È significativo il caso dello Statuto del Veneto, che «riconosce e valorizza le differenze di genere e rimuove ogni ostacolo che impedisce la piena parità tra uomo e donna» (art. 6), e quando fa esplicito riferimento alla discriminazione, lo fa in modo generico e in un articolo che esordisce così: «La Regione, ispirandosi ai principi di civiltà cristiana e alle tradizioni di laicità e di libertà di scienza e pensiero, informa la propria azione ai principi di eguaglianza e di solidarietà nei confronti di ogni persona di qualunque provenienza, cultura e religione; promuove la partecipazione e l’integrazione di ogni persona nei diritti e nei doveri, contrastando pregiudizi e discriminazioni; opera per la realizzazione di una comunità accogliente e solidale» (art. 5).
Nel 2008, in occasione del settantesimo anniversario dell’emanazione del Manifesto degli scienziati razzisti e della promulgazione delle leggi razziali, la Regione Toscana ha dato seguito a quella dichiarazione di principio avviando una serie di iniziative volte a «evitare che le diversità esistenti tra gli individui si traducano in atteggiamenti discriminatori e penalizzanti da parte della scuola» (DGR 530/2008).
Il Piano di Gestione
delle Diversità
Con la Delibera di Giunta Regionale 530/2008 la Regione Toscana ha previsto espressamente la predisposizione, da parte degli Istituti Scolastici del territorio regionale, di un Piano di gestione delle diversità.
Ecco il testo: «All’inizio di ogni quadrimestre in ogni classe e in ogni scuola, alunni, insegnanti, ausiliari, dirigenti dedicheranno una giornata per la predisposizione del Piano di gestione delle diversità che dovrà identificare le criticità e gli obiettivi di sviluppo interculturale relativi al contesto scolastico e sociale in cui si opera; definire le modalità, le azioni ed i dispositivi da porre in essere per una gestione consapevole e intenzionale della ricchezza interculturale. Il Piano di gestione delle diversità deve contenere una valutazione dell’efficacia delle misure assunte nel periodo precedente, in riferimento ad eventuali fenomeni di intolleranza manifestatisi nella scuola».
Alle fondamenta del Piano di Gestione delle diversità si trova una concezione positiva della “diversità”, intesa come una potenzialità da mettere a frutto intenzionalmente e consapevolmente all’interno delle organizzazioni scolastiche, che possono trovare un vantaggio diretto e concreto nella valorizzazione dell’eterogeneità e della molteplicità dei punti di vista. L’idea nasce dal diversity management, una pratica di gestione delle risorse umane che consiste nello sviluppo attivo e cosciente di un processo manageriale di accettazione e uso di alcune differenze e somiglianze come un potenziale dell’organizzazione, al fine di creare valore aggiunto per l’impresa.
All’interno delle scuole, il Piano di Gestione delle diversità – che è andato in parte a sovrapporsi con il successivo Piano dell’inclusività previsto dalla normativa nazionale– è uno strumento di pianificazione e monitoraggio che intende ricondurre a un unico processo gestionale le diverse azioni svolte da ciascuna istituzione scolastica nell’area dell’educazione interculturale, intesa sia come integrazione degli alunni stranieri, sia come interazione tra persone e culture all’interno della comunità scolastica e tra la comunità scolastica e il territorio.
La Regione Toscana non ha fornito ulteriori indicazioni sulla sua realizzazione, ma ha messo a disposizione di reti di scuole, università e agenzie formative risorse economiche per realizzare dei progetti sperimentali di formazione del personale finalizzati all’individuazione di modelli e strumenti adeguati alle esigenze di ciascuna scuola autonoma.
La formazione del personale
della scuola
Nel 2010–2011 ho avuto occasione di coordinare un progetto pilota della Regione Toscana e del suo Ufficio Scolastico Regionale per la rilevazione e gestione delle risorse interculturali delle scuole, con l’obiettivo specifico di fornire indicazioni operative utili alla realizzazione del Piano di gestione delle diversità nelle scuole primarie e secondarie. Tra il 2010 e il 2013 sono stati realizzati sei progetti interprovinciali, ovvero due per ciascuna delle tre macroaree in cui è suddivisa la Regione. Ho partecipato personalmente, in qualità di progettista e di formatore, ai progetti della Toscana meridionale (Arezzo, Siena e Grosseto), entrando in relazione con decine di docenti e dirigenti scolastici, con i funzionari e i dirigenti della Regione Toscana e con gli altri formatori e consulenti impegnati nelle attività di aula e di accompagnamento alla realizzazione del Piano di gestione delle diversità.
I corsi di formazione erano articolati in moduli tematici specificamente rivolti a diversi gruppi: i docenti dei diversi ordini di scuola, i dirigenti scolastici e il personale ATA. Tra i moduli tematici presentati, alcuni erano specificamente dedicati alla prevenzione della discriminazione basata sull’orientamento sessuale e del bullismo omofobico. Per quanto siano stati i moduli più difficili da attivare e realizzare, è stato utile osservare gli effetti diretti e indiretti della formazione e ascoltare le opinioni e i timori delle persone coinvolte. In molti, infatti, hanno testimoniato il clima di difficoltà che si respira nella scuola, dove è sempre più probabile incontrare colleghi, genitori e perfino dirigenti pronti a etichettare come “propaganda ideologica” ogni percorso informativo e formativo che insegni a conoscere e rispettare le differenze.
Come raccontato da Federico Batini nel volume Apprendere dalle diversità (2014), durante un modulo si è verificata una vera e propria aggressione verbale da parte di un insegnante di religione che, «entrato senza essere invitato e senza conoscere temi e modalità del percorso, ha insultato ripetutamente il docente, ha invitato i colleghi e le colleghe presenti a rivolgersi a lui per avere informazioni adeguate e corrette, e poi se ne è andato».
Altrettanto significativo è stato il caso del personale ATA, generalmente trascurato quando si tratta di formare il personale della scuola, e considerato invece strategico nel caso dell’attuazione del Piano di gestione delle diversità, poiché si tratta di un’azione di sistema che intende produrre un cambiamento significativo nell’organizzazione scolastica. All’interno di questa categoria, accanto a un autentico e partecipato interesse per gli argomenti trattati, è emerso un atteggiamento meno tollerante, e si sono palesati stereotipi difficili da contrastare attraverso la sola azione formativa.
La scuola come
organizzazione responsabile
Andrea Caldelli, uno dei consulenti che hanno lavorato con le scuole al fine di elaborare i Piani di gestione delle diversità, nel suo libro La scuola come organizzazione responsabile (I Quaderni della Ricerca n. 19) ha descritto in modo particolarmente efficace il ruolo di questo strumento di pianificazione, attraverso il quale l’istituzione scolastica può e deve definire come intende assumersi la responsabilità delle scelte educative e organizzative rispetto al rischio di esclusione che esse comportano.
Al di là dello specifico problema della discriminazione «legata all’etnia, all’orientamento sessuale e a ogni altro aspetto della condizione umana e sociale», infatti, l’idea di introdurre un Piano di gestione delle diversità ci spinge a pensare alla scuola come comunità che può e deve essere organizzata e gestita in modo responsabile, definendo processi e procedure, sistemi di controllo, pianificazione delle attività, ognuno dei quali risponde a esigenze specifiche e puntuali.
Una scuola che, mi piace pensare, non è in balìa degli opinionisti da televisione e da social network, ma è in grado di essere davvero “autonoma”, capace di pianificare, di agire, di riflettere e di rendere conto dei propri risultati, coerentemente con quanto stabilito, prima ancora che dallo Statuto della Regione Toscana, dalla Costituzione della Repubblica Italiana.