Capita sovente che sulla scrivania di uno studioso approdino contemporaneamente più volumi e che tra questi si instauri, per un felice fenomeno di serendipità, un qualche dialogo più o meno arbitrario, ma non di rado produttivo. In questi giorni estivi ad esempio sono giunti tra le mie mani, per la verità lungamente attesi, un dotto saggio di Giancarlo Alfano intitolato L’umorismo letterario. Una lunga storia europea (secoli xiv-xx) (Roma, Carocci) e il romanzo d’esordio di Andrea Inglese, Parigi è un desiderio (Milano, Ponte alle Grazie). Scorrendo le righe del risvolto di copertina del volume di Inglese, leggiamo quanto segue:
Fin da quando era molto giovane, Andy ha sognato Parigi: il luogo in cui le sue “abitudini”, tiranne implacabili nella sua Milano, possono finalmente essere sconfitte; il luogo in cui la letteratura è qualcosa di concreto, che si incontra in bilocali affollati o fra i tavolini di un bar; e il luogo, certamente, dove vivono le parigine. Ma i miti giovanili sono per loro natura destinati a crollare, e forse è proprio nel conseguente spaesamento che si può arrivare a una specie di “maturità”, all’accettazione dello spaesamento stesso […].
Il lettore potrebbe domandarsi: si tratta dunque di una storia di bildung che, seguendo un classico e lineare percorso di formazione, prende le mosse dai giovanili errori del protagonista per poi seguirne le vicende sino al raggiungimento di una maturità duramente conquistata? Non proprio.
Ci aiuta a comprenderlo proprio Alfano il quale, sempre nel risvolto di copertina del suo libro, rileva come l’umorista sia un «soggetto mutevole, che si muove in modo ambivalente tra le convenzioni sociali e la sua propria, costitutiva, mortalità. Mentre il mondo occidentale organizza gli apparati di controllo dei corpi e dei desideri, la letteratura umorista rivendica, e realizza, un’estetica della comunicazione diretta, ma basata sull’ambiguità e il relativismo». Per larghi tratti mi pare che tale definizione ben si attagli alla vicenda e alla figura di Andy, colui che dice “io” nel romanzo di Andrea Inglese: un personaggio impegnato per oltre trecento pagine in un testardo quanto irregolare itinerario di vita, qualcuno che, partito all’inseguimento di una chimera – raggiungere non tanto la Parigi reale, quanto la Parigi sognata, la Parigi Un dotto saggio di Giancarlo Alfano sull’umorismo letterario offre più di uno spunto di lettura del romanzo di Inglese.celeste, come lui stesso la definisce, ovvero il mito immarcescibile della città che fu romantica, avanguardista, esistenzialista, situazionista… – finisce poi per smarrirsi in un’inestricabile selva di biforcazioni ingannevoli, false scorciatoie e ascese impossibili, trovandosi costantemente controtempo e fuori posto. In questo senso, Andy si presenta al lettore come un personaggio letteralmente chisciottesco, qualcuno cioè che, infettato al pari del cavaliere manchego dal morbo pernicioso della cultura, insiste per anni a giostrare entro il cerchio fatato dei venti arrondissements, alla spasmodica ricerca della sua Dulcinea transalpina e di quella gloria che la penna, se non la spada, potrebbe dare. Salvo poi ritrovarsi, sovente, malconcio e disarcionato, con le armi del suo ingegno miseramente spuntate.
Il protagonista di Parigi è un desiderio, insomma, non è affatto un individuo in viaggio da un punto A ad un punto B, un eroe tutto d’un pezzo consapevole dei propri mezzi e sicuro delle proprie intenzioni: piuttosto, è un soggetto ondivago, per non dire alla deriva, un loser orgoglioso di esserlo e inevitabilmente simpatizzante dei suoi simili (clochards, spostati, figure borderline di ogni tipo).
Inoltre, nel narrare il suo disorientato barcamenarsi tra Italia e Francia, le sue più o meno gloriose conquiste amorose, i suoi alti e bassi esistenziali, le effimere vittorie che raramente gli toccano e le solenni incazzature che sono il suo pane quotidiano, Andy assume quella postura conversativa, con appello diretto a chi legge, che sempre Alfano individua come una caratteristica precipua delle scritture umoristiche (le quali sono sì divertenti, lo ricordiamo, ma anche grondanti dolori e angosce…). Andy infatti non vuole soltanto raccontare una storia, mettere ordinatamente in fila i suoi piccoli fatti privati, ma intende sollecitare uno scambio di idee, e di umori, con il lettore, spesso da lui coinvolto in una conversazione a quattr’occhi (un esempio: «non voglio convincere nessuno, e potete crederci o meno, fatto sta che…», p. 38). Nel Il protagonista di Parigi è un desiderio non è un eroe tutto d’un pezzo consapevole dei propri mezzi e sicuro delle proprie intenzioni: piuttosto, è un soggetto ondivago, per non dire alla deriva, un loser orgoglioso di esserlo.far questo, Inglese ricorre ad un ampio ventaglio di registri e posture autoriali, dall’ironia metatestuale – si vedano in particolare i passaggi sull’esperienza di Andy come poeta – alle continue, semiserie digressioni saggistiche, fino alle riuscitissime pagine stile romanzo gonzo (penso ai paragrafi sulla gioventù punk o a quello, davvero spassoso, dedicato a una gita in riviera finita male).
Al contempo, però, troviamo nel romanzo una forte vena lirica, con l’introduzione di brani di scrittura “alta”, figurativamente densa, come gli intensi episodi di ekphrasis fotografiche e pittoriche (si veda in particolare il capitolo Il quadro) e più in generale come certi affondi personali e intimistici, incastonature nella pagina di intermittenze dell’io lavorate al bulino della più fine introspezione psicologica (inutile sottolineare come Proust sia un punto di riferimento importante per Inglese).
Tornando agli aspetti umoristici, a nostro giudizio preponderanti, una forte coloritura socio-politica si riscontra nell’invenzione di un premio speciale (la “Medaglia Bianciardi”) che si immagina destinato a quanti con la propria inerzia provvedono, sia pur involontariamente, ad inceppare quelli che Alfano nel passo sopra riportato chiama «gli apparati di controllo dei corpi e dei desideri». Tra questi Andy individua un venditore di apparecchi fotografici desueti del Tredicesimo arrondissement parigino e la varia umanità incontrata nel centro commerciale Italie 2 (Place d’Italie), quell’anonima folla di commessi e avventori che sperperando intere giornate in chiacchiere improduttive di fatto contribuisce a sabotare la macchina del consumismo coatto.
I toni della satira sono poi apertamente toccati nel saporoso capitolo La Sorbona Novella, dedicato ai vani sforzi del protagonista di entrare a far parte del sistema accademico francese. Ma soprattutto tipiche del romanzo umoristico mi paiono la costante riflessione sulla natura del tempo (due esempi: «Forse era quello il segreto del È proprio nella scrittura, e solo attraverso di essa, che Andy trova il modo di maneggiare i garbugli del sé, obbligandoci al contempo a riflettere sui nostri, di garbugli.tempo…», p. 110; «nessuna cosa vale, esiste, che non sia il presente…», p. 312) e l’istintiva esigenza di non accettare un lineare percorso di crescita e maturazione, con la conseguente necessità di ritornare continuamente sui propri passi per proteggere, come il più prezioso tra i beni, quell’innata «coglioneria, o scemenza, o idiozia» (p. 194) che impedisce all’adulto di credere davvero al valore del mondo “adulto”.
Anche per questo il libro “non conclude”: quella di Andy è una bildung impossibile e soprattutto interminabile; la sua arruffata esistenza, nonostante paia aver raggiunto, se non una situazione di equilibrio, perlomeno una fase di compromesso omeostatico, resta comunque aperta all’eventualità di futuri guai e auspicate rivoluzioni.
Più che come un romanzo sulla capitale francese, insomma, il romanzo d’esordio di Andrea Inglese andrebbe forse letto, per dirla con Ippolito Nievo, come il libro delle confessioni di un italiano. Un italiano dei nostri giorni, certamente: schiacciato da un senso ineluttabile di provvisorietà, tentato come tutti di arrendersi al caos del mondo, ma deciso come pochi a cercare, se non già di interpretarlo, quel mondo, almeno di farlo rivivere in noi lettori, rendendocelo presente attraverso i mezzi del proprio acuminato raziocinio e dei propri instabilissimi umori.
Non a caso è proprio nella scrittura, e solo attraverso di essa, che Andy trova il modo di maneggiare i garbugli del sé, obbligandoci al contempo a riflettere sui nostri, di garbugli: perché il vero umorista è colui che, fissata la testa del lettore alla pagina, quasi inavvertitamente ne mette i nervi e i muscoli in trazione, prendendo poi a stiracchiarli da ogni parte finché costui non si trovi costretto a piegare gli angoli della bocca, a storcerli una buona volta non si sa se in una smorfia di riso o di dolore.