Quante volte da studenti, da genitori o come amici di altri genitori alle prese con la vita scolastica dei loro figli abbiamo pronunciato o sentito frasi di questo tipo: «Senti, come ti sembra quella scuola? È vero che nella sezione C sono più severi che nella A? Per l’università preparano meglio al classico o allo scientifico? Pensa un po’, quasi tutti quelli usciti quest’anno da quell’istituto tecnico han trovato lavoro. State attenti, se vostro figlio si becca quella professoressa di latino passa due anni da incubo. Siamo delusi: tante belle parole alla presentazione, poi in un anno mia figlia è andata in laboratorio due o tre volte in tutto… Basta, io cambio scuola!».
Chiamatela, se volete, primitiva, informale, di pancia, emozionale; eppure di valutazione si tratta, da cui derivano giudizi più o meno fondati e scelte conseguenti. Chi può negare, però, che gran parte della storia scolastica individuale e collettiva sia ruotata intorno a domande e osservazioni di questo tipo? Chi può negare che la valutazione faccia parte da sempre del nostro orizzonte di scelte e di aspettative?
Spesso nel dibattito degli ultimi decenni, in particolare da alcuni addetti ai lavori contrari a modalità valutative elaborate e formali, si è detto e scritto che la valutazione è una lesione alla dignità professionale e alla libertà didattica. Chi ha sostenuto questa tesi non ha prestato ascolto all’ambiente che lo circondava e che diffusamente e magari acriticamente giudicava l’operato delle scuole e dei docenti.
Opinioni contro la valutazione
La difficoltà di accettare forme di valutazione (ma non c’è solo l’istruzione; ci sono anche la sanità, la giustizia, le forze armate, i lavori pubblici e così via) si colloca storicamente nell’identificazione, percepita come voluta dal potere, fra valutazione e controllo/sanzione. Il vero scopo della valutazione sarebbe dunque quello di poter controllare in modo imperativo e quindi sanzionare coloro che risultano segnalati come divergenti rispetto al modello dominante. Il rischio è possibile, la storia non manca certo di esempi negativi in tal senso.
Da un punto di vista generale, inoltre, gli individui e i gruppi organizzati tendono, a livello psicologico, ad autogiustificarsi non accettando volentieri critiche, per quanto costruttive, al proprio pensiero e operato. Tale atteggiamento di difesa preventiva costituisce un impedimento all’apporto di cambiamenti potenzialmente benefici per il clima complessivo dell’ambiente in cui si vive e si lavora. Tuttavia la scommessa civile e culturale sta proprio nel creare buone pratiche democratiche: si valuta per capire lo stato dell’arte e per migliorare il servizio offerto. Si valuta senza favoritismi e silenzi complici, si valuta tutti e in forme trasparenti. Poi si ragiona, si dibatte sui dati raccolti e sui passi utili a migliorare il lavoro e i suoi effetti. Controlli ed eventuali sanzioni spettano sì alla istituzione, ma debbono essere esercitati e applicati rispetto a comportamenti individuati di singoli e di gruppi e sulla base delle norme che regolano il lavoro, non per coartare autonomie e libertà garantite dalle leggi che regolano il sistema.
Le ragioni della valutazione
La moderna organizzazione del servizio pubblico, nelle sue differenti articolazioni, necessita perciò di un sistema di valutazione, impostato su serie basi scientifiche, per alcune buone ragioni.
La prima, che magari appare ovvia ma non è avvertita come tale da tutti, è che lo Stato (sia detto senza retorica, il popolo sovrano) investe soldi in un servizio e quindi ha il diritto di sapere quale rendimento esso offra. Specialmente e necessariamente quando chi organizza ed eroga il servizio gode di margini d’autonomia operativa per qualificare meglio il proprio lavoro. È il grande tema della rendicontazione (per i nostalgici del tramontato impero del latino il tema del redde rationem; per gli entusiasti del nuovo impero linguistico della accountability).
La seconda è che qualsiasi organizzazione dopo un dato cammino e un determinato lavoro deve fare il punto della situazione: come ci stiamo comportando verso i clienti/utenti/cives/stakeholders? Come utilizziamo le risorse di cui disponiamo? Dove e come possiamo migliorare il servizio sia per chi lo eroga lavorando sia per chi ne fruisce?
La scuola è stata definita da alcuni acuti osservatori un’istituzione senza memoria. Travolti dal ritmo incessante e strettamente cadenzato degli eventi che si ripetono (inizio nuovo anno e programmazione, lezioni, valutazioni dei periodi intermedi, valutazioni finali, esami di Stato, iscrizioni per l’anno successivo, organici del personale, e così via), gli operatori della scuola tendono a non soffermarsi e riflettere in modo critico su ciò che si è fatto e sulle conseguenze di quell’agire.
La terza ragione è di tipo più generale, d’ordine etico-politico. I moderni Stati democratici devono rendere trasparenti tutte le loro articolazioni: non solo i bilanci, che si auspicano veridici come la legge impone, anche le procedure, la descrizione delle risorse disponibili, la rappresentazione delle problematiche da risolvere, le prospettive del lavoro che si è svolto e che si vuole svolgere nel medio periodo.
Il secondo comma dell’articolo 2 del decreto interministeriale 44 del 2001, ossia il regolamento concernente le Istruzioni generali sulla gestione amministrativo-contabile delle istituzioni scolastiche, recita: «La gestione finanziaria delle istituzioni scolastiche si esprime in termini di competenza, è improntata a criteri di efficacia, efficienza ed economicità e si conforma ai principi della trasparenza, annualità, universalità, integrità, unità e veridicità». Ora: trasparenza e veridicità sono di certo caratteristiche tecniche di un bilancio (nella scuola programma annuale) ma sono a maggior ragione caratteristiche di qualsiasi istituzione che appartenga a uno Stato democratico. La valutazione e la pubblicazione nelle forme dovute dei suoi esiti sono momenti qualificanti del dovere d’essere trasparenti e veridici da parte di chi gestisce qualsiasi settore della res publica.
Che cosa significa valutare?
Nel corso del secolo scorso, le scienze umane, specialmente in ambito sociologico e psicologico, hanno approfondito il tema della valutazione sulla spinta sia di enti privati (per esempio le industrie, interessate a migliorare l’organizzazione del lavoro e la predisposizione dei bilanci) sia di istituzioni pubbliche (i vertici degli Stati o singoli settori); per esempio negli Stati Uniti d’America il presidente Lindon Johnson per sostenere nel 1960 la sua “guerra alla povertà” e giustificarla rispetto agli elettori fece ricorso a forme di valutazione del servizio pubblico. Del resto già nel 1948 uno studioso della teoria del curricolo, Ralf Tyler, sosteneva in Educational evaluation che «è necessaria una valutazione scientifica finalizzata al miglioramento della qualità dell’istruzione».
A grandi linee si può dire che la valutazione è un’azione consistente nel fornire la conoscenza d’una determinata attività svolta e dei risultati da essa prodotti. Il suo scopo è fornire elementi utili a migliorare la programmazione e lo svolgimento dell’attività monitorata. Una definizione siffatta tiene conto di diversi aspetti del tema. Ma i numerosi approcci finora elaborati forniscono punti d’osservazione differenti e quindi risultati anch’essi differenti.
L’approccio positivista controlla il rapporto fra obiettivi programmati e risultati raggiunti tenendo conto dei mezzi utilizzati. È utile a chi deve assumere decisioni.
L’approccio prospettivista sottolinea maggiormente gli aspetti qualitativi del lavoro svolto, la cui valutazione dipende dal punto di vista dell’osservatore: qualsiasi attività ha un proprio valore intrinseco legato al suo svolgersi e uno estrinseco connesso alla percezione di soddisfacimento dei bisogni da parte dei destinatari dell’attività stessa. Termini come empowerment (arricchimento delle capacità di analisi e miglioramento delle prestazioni) e costumer satisfaction (soddisfazione del fruitore) appartengono a questa prospettiva. Aiuta coloro che sono preposti direttamente a migliorare l’attività (organizzatori, management).
L’approccio costruttivista, in fine, è centrato sulla figura dei portatori di interesse in un determinato processo (stakeholders). Quindi l’accento è posto soprattutto sul contesto, sui suoi molteplici aspetti. È vantaggioso per chi opera sul terreno e consente di fornire una maggiore consapevolezza a tutti coloro che sono coinvolti a vario titolo in una attività.
La valutazione nella scuola
Mario Castoldi, nel suo saggio sulla Autonalisi di istituto (in Voci della scuola, a cura di G. Cerini, M. Spinosi, Tecnodid, Napoli, 2003), fornisce una sintesi in cinque punti dei possibili sviluppi di un’attività di valutazione in riferimento alla scuola.
- La soddisfazione del cliente, ossia l’analisi dei bisogni formativi e del gradimento di chi fruisce del servizio di istruzione.
- La diagnosi organizzativa. Non si deve tener conto solo delle attese del fruitore ma anche dell’organizzazione scolastica (il contesto in cui opera, le risorse disponibili, cosa si fa e cosa si consegue).
- L’autoanalisi di istituto. Gli operatori si interrogano sul loro operare generando forme di auto-apprendimento e di auto-revisione del loro agire.
- Gli indicatori educativi. Si definiscono alcuni indicatori/descrittori (elementi ritenuti significativi del sistema educativo) e si analizza la situazione data alla luce di questi per valutare le condizioni del sistema.
- Il controllo degli esiti formativi. L’attenzione è posta sui risultati ottenuti; il sistema educativo risulta efficace se consegue gli obiettivi formativi predefiniti.
Questi differenti approcci illustrano efficacemente la complessità che si cela dietro la parola “valutazione” e spesso dietro alla sintesi approssimativa di titoli giornalistici del tipo Diamo i voti alla scuola. È giusto “dare i voti alla scuola”, ma non si deve cadere nell’errore di certi operatori scolastici che prescindevano largamente dall’esplicitare i criteri di giudizio e l’oggetto del giudizio (l’uso dell’imperfetto è giustificato dal fatto che certe pratiche di spericolata discrezionalità sono più legate al passato che alla vita scolastica attuale, certo più attenta alla definizione di criteri di valutazione anche collegiali in sede di programmazione del lavoro didattico). Quindi occorre sapere cosa, come e perché si valuta, quando ci si interessa di valutazione a e della scuola.
In sintesi, la valutazione della scuola è riconducibile a tre grandi aree: la valutazione di sistema; la valutazione di istituto; la valutazione del processo di insegnamento/apprendimento.
Il complicato quadro normativo
Questa tripartizione non è solo teorica, anzi è ricavabile dal complesso (coacervo?) di norme che regolano la vita scolastica italiana.
Fondamentali al riguardo sono, in ordine cronologico, tre importanti provvedimenti:
- Il decreto 275 del Presidente della Repubblica dell’8 marzo 1999 (in SO 152/L della GU 10 agosto 1999, n. 186), ovvero il Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, ai sensi dell’articolo 21 della legge 59 del 15 marzo 1997. Negli articoli 4-8-9-10 esso definisce l’obbligo della valutazione periodica degli allievi, della certificazione delle competenze, del riconoscimento dei crediti formativi, delle verifiche periodiche di conoscenze e abilità, degli esami conclusivi dei vari cicli di istruzione. Sancisce inoltre l’autonomia funzionale degli istituti scolastici.
- L’articolo 117 della Costituzione, introdotto nel 2001, che nel secondo comma (lettera m) prevede la legislazione esclusiva dello Stato nella «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (tra i quali sono inclusi quelli all’istruzione e alla formazione), mentre nel terzo comma pone fra le materie di legislazione concorrente «l’istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale», concludendo, nel quarto comma, che «spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento a ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato».
- La legge 53 del 28 marzo 2003 (in GU 2 aprile 2003, n. 77), ovvero la Delega al governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e di formazione professionale. Questa legge, specialmente agli articoli 1-2-3, ribadisce i suddetti obblighi e indica a chi compete osservarli, affidando all’Istituto Nazionale di Valutazione (INVALSI) la funzione di migliorare e armonizzare la qualità del sistema di istruzione.
Più in particolare, il terzo comma dell’articolo 2 introduce il concetto che il diritto all’istruzione e alla formazione si realizzano secondo livelli essenziali di prestazione «definiti su base nazionale a norma dell’articolo 117 (secondo comma, lettera m) della Costituzione e mediante regolamenti emanati ai sensi del secondo comma dell’articolo 17 della legge 400 del 23 agosto 1988».
Altri quattro provvedimenti hanno poi completato (per ora) il quadro.
- Il prolungamento dell’obbligo scolastico a 10 anni promosso dal governo Prodi, e in particolare dal ministro Fioroni, con articolo 1, 622° comma, della legge 296 del 2006.
- Il decreto 122 del Presidente della Repubblica, nel 2009, che ricapitola e aggiorna le norme sulla valutazione del rendimento e del comportamento.
- Il riordino dell’istruzione secondaria superiore operato nel 2010 dal governo Berlusconi e dal ministro Gelmini attraverso i decreti 87, 88 e 89 del Presidente della Repubblica.
- Il decreto ministeriale 9 del 2010, che introduce il modello di certificazione delle competenze, in risposta alle sollecitazioni europee già prese in considerazione nel decreto ministeriale 139 del 2007, in cui si parla di assi culturali, nel numero di quattro, e di competenze chiave di cittadinanza, nel numero di otto.
La valutazione di sistema
Riguarda il sistema educativo di istruzione e di formazione, così come è stato definito negli anni Novanta nelle norme del governo Prodi prima e Berlusconi poi, con i ministri Berlinguer e Moratti. Questo sistema svolge funzioni differenziate, ha al suo interno scuole pubbliche (cioè aperte al pubblico e che forniscono un pubblico servizio) statali e non statali ed è articolato in più livelli sia centrali (ministeriali) sia periferici (uffici regionali, provinciali e scuole autonome). È stato così definito dalla legge 62 dell’anno 2000 che nel primo comma dell’articolo 1 recita: «Il sistema nazionale di istruzione, fermo restando quanto previsto dall’articolo 33, secondo comma, della Costituzione, è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali. La Repubblica individua come obiettivo prioritario l’espansione dell’offerta formativa e la conseguente generalizzazione della domanda d’istruzione dall’infanzia lungo tutto l’arco della vita».
La valutazione di istituto
Riguarda l’insieme delle attività che si svolgono nei singoli istituti e che sono riepilogate nel Piano dell’Offerta Formativa (POF) il quale viene modificato ogni anno dagli organi collegiali della scuola cui partecipano a diverso titolo sia gli operatori sia i fruitori della scuola.
Riguarda quindi l’efficacia del servizio, la sua efficienza, l’utilizzo delle risorse, il clima scolastico e le relazioni fra il personale dell’istituto stesso, anche se, per questi aspetti, oltre agli organi collegiali sono rilevanti altre figure: quella monocratica del dirigente scolastico, quella altrettanto monocratica del direttore dei servizi generali e amministrativi, quella elettiva della Rappresentanza Sindacale Unitaria (RSU).
Attualmente ogni singola scuola autonoma è una entità quadricefala: il dirigente, il direttore, gli organi collegiali e infine la RSU, che assieme ai sindacati firmatari del contratto nazionale di lavoro del comparto scuola firma il contratto integrativo di istituto, elemento fondamentale per l’attribuzione delle risorse finalizzate alla realizzazione del POF.
L’insegnamento/apprendimento
In questo caso la valutazione riguarda la relazione didattica fra il docente e i discenti. Chi scrive preferisce il sintagma “insegnamento/apprendimento” poiché considera i due aspetti come le due facce della stessa medaglia. Più alta è l’interazione fra docente e discenti, più elevata è l’efficacia del processo, e viceversa. È evidente però che questa interazione non si sviluppa nel vuoto sociale e istituzionale: è definita da norme, è in qualche misura predeterminata dal contesto sociale in cui viene a trovarsi, sia quello interno al gruppo classe sia quello esterno ad esso, ed è determinata dal lavoro collegiale del consiglio di classe. Quindi una valutazione attenta di questo processo deve tener conto di una pluralità di dati, non solo degli esiti finali espressi in quell’assoluto-relativo che sono i voti da 1 a 10. Semplificando: valutiamo più efficace l’azione del docente che partendo da un livello complessivo basso porta l’insieme della classe a un buon grado di conoscenze e abilità oppure valutiamo più efficace l’azione del docente che porta alcuni allievi all’eccellenza partendo però da condizioni iniziali già positive?
Alcune criticità
Pesano sulla valutazione, a qualunque tipo di essa ci si riferisca, gli ormai endemici ritardi del legislatore e i conseguenti problemi aperti circa la configurazione del sistema scolastico nei suoi vari aspetti. È utile riflettere, almeno per sommi capi, su alcuni esempi per cogliere l’interrelazione fra, da una parte, le richieste e le pretese di una valutazione del lavoro scolastico, dall’altra l’irrisolta complessità e la stratificazione delle norme che lo regolano.
Il primo esempio riguarda gli organi collegiali della scuola. La loro nascita risale al 1974; nel 1996 sono nate le Consulte Provinciali degli Studenti; con l’avvento dell’autonomia e la ridefinizione del rapporto di pubblico impiego (ad esempio, si pensi all’articolo 25 del decreto legislativo 165 del 2001, che definisce la figura del dirigente) se ne è prefigurato il superamento e la riorganizzazione (decreto legislativo 233 del 1999). Ad oggi, gli organi collegiali a livello di singolo istituto non sono stati riformati adeguandoli per numero, compiti e composizione alle esigenze d’una scuola dotata d’autonomia, mentre quelli a livello regionale e centrale non hanno mai visto la luce (esiste ancora un Consiglio nazionale della Pubblica Istruzione, i cui membri furono eletti per l’ultima volta nel lontano 1995).
Il secondo esempio riguarda i Livelli Essenziali di Prestazione (LEP). Come abbiamo visto, ne parlano la Costituzione e la legge 53 del 2003, tuttavia dal susseguirsi delle norme successive, talora in antitesi fra loro e comunque mai riorganizzate in un nuovo testo unico (resta in vigore qua e là modificato il decreto legislativo 297 del 1994), non emerge una definizione compiuta e chiara dei LEP, solo spunti per una loro definizione, senza però un quadro certo di riferimento, con evidenti ricadute negative sul servizio, in termini d’incertezza sia degli operatori sia dei valutatori.
Il terzo esempio è quello delle competenze e della loro certificazione, termini entrati nel lessico della scuola italiana a partire dal 1999, dal decreto 275 sull’autonomia. Eppure anche verso questi parametri manca nella scuola, in genere, un’autentica attenzione, tale per cui la programmazione didattica, prevalentemente disciplinare, se ne faccia carico e le ponga al centro del processo di insegnamento/apprendimento. Ovviamente sempre che tutti, dal legislatore di turno al singolo docente, siano convinti dell’importanza d’una didattica centrata sulle competenze e non si tratti di un omaggio obbligato alla superiore norma europea.
L’ultimo esempio riguarda l’INVALSI. Le prove nazionali da qualche anno sono ormai diffuse nei vari gradi scolastici eppure hanno scatenato più polemiche che consensi: perché è prevalsa la paura del controllo rispetto alla fiducia in una valutazione migliorativa del lavoro svolto, perché le innovazioni didattiche spesso non sono state pienamente integrate nella pratica didattica quotidiana, perché in molte scuole viene a mancare una riflessione sugli esiti delle prove stesse, perché anche la loro tipologia è stata giudicata in diversi casi errata o non adeguata.
Dalla breve presentazione di questi casi si evince con chiarezza come sia chi osserva il sistema sia chi vi lavora si trovi in una situazione di incertezza non tanto nel comprendere o applicare le procedure necessarie all’espletamento del lavoro quotidiano quanto nel cogliere il senso di marcia, i nodi centrali del processo sistemico in generale e di quello di insegnamento/apprendimento in particolare. Con tale bagaglio d’incertezza è difficile operare con efficacia sul lato della valutazione ai tre i livelli sopra descritti.
Conclusioni, certo provvisorie
Non pare esistano dubbi sulla necessità e sull’utilità di un’attività di valutazione. Occorre però che questa divenga un’esigenza avvertita come utile dagli operatori e credibile dai fruitori del servizio. Utilità e credibilità sono complementari: la valutazione è utile se serve a migliorare il servizio, è credibile se si avvertono segni di miglioramento nel servizio. Perché questo accada occorrono un coinvolgimento culturale da parte di tutti e una condivisione professionale degli operatori. Questo è un obiettivo raggiungibile attraverso un’opera di sensibilizzazione determinata e continua, che eviti polemiche protagonismi e sensazionalismi, utili per l’apparire mediatico ma non per creare un clima di fiducia, disponibilità e ascolto fra tutti quelli che lavorano nella scuola e quelli che la frequentano per divenire cittadini consapevoli del proprio stato e del proprio ruolo nella società.
Questo articolo è stato scritto prima dell’annuncio da parte del MIUR di un nuovo regolamento per la valutazione, varato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 24 agosto 2012.