La torta di Hitler o della banalizzazione del male

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Prendiamo una classe, una prima superiore. Una città del centro-nord. Solide tradizioni democratiche, scuole senza particolari problemi. Una festa di compleanno organizzata in una pizzeria. Al momento della torta il festeggiato dice: «Vi ho preparato una sorpresa per il giorno della memoria», infatti la festa è il 27 gennaio: sulla torta, anzi sulle torte, perché sono due, in pasta di zucchero, invece dei classici temi da festa, l’immagine di Hitler e due “battute”.

Sulla prima, Hitler al telefono che dice: «Pronto cara, accendi il forno che sto arrivando». Sulla seconda: «E vai che sarà una serata a tutto gas».
Un ragazzino, presente alla festa, rimane sconcertato. Tornato a casa lo dice alla mamma, che subito chiede conto di quanto accaduto ai genitori del festeggiato.
È solo una battuta, rispondono, e «ci dispiace di aver urtato la tua sensibilità», mentre gli altri genitori minimizzano: «sono cose da ragazzi».

Cose da ragazzi
In effetti è vero, sono cose da ragazzi: quella che è apparsa sulle torte è una delle tante immagini che passano sotto la categoria black humor. Sono andata a fare un giro su Instagram, che è il social preferito dagli adolescenti, per cercare di capire innanzitutto come funzioni la disseminazione di immagini di questo tipo.
Ci sono hashtag come #blackhumor, o #darkmemes, vere e proprie miniere da cui scaricare quei meme [contenuti virali, di solito costituiti da immagini rielaborate o elaborazioni grafiche, N.d.R.] che spesso ci capita di vedere condividere su Facebook. Battute demenziali, alcune anche molto divertenti. Senza alcuna gerarchia: dialoghi nonsense, roba sessista ma anche sprazzi di femminismo, qualche falce e martello – poche, in verità –, qualche svastica.
Poi ci sono i #memehitler. Anche qua dentro si trova un po’ di tutto: roba ai limiti dell’apologia, apologia vera e propria, ma anche guizzi di antifascismo.
La cosa interessante, per chi come me si occupa di storia e della sua rappresentazione, è che molto spesso le immagini sono fotogrammi di film dove Hitler è impersonato da un attore, per esempio il compianto Bruno Ganz.

Insomma: alto e basso, vero e falso, innocuo e terrificante. Difficile davvero per un ragazzo fra gli 11 e i 15 anni districarsi in questa selva di immagini che piovono nella sua fantasia.
Difficile ma non impossibile: se uno, per esempio, è stato educato fin da piccolo al fatto che il nazismo è un problema serio, che molte persone, milioni di persone sono morte per via del nazismo, allora farà davvero fatica a ridere per i meme in cui Hitler dice battute sui forni. Ma se uno invece non ha avuto un’educazione di questo tipo – cosa affatto possibile in anni nei quali diventano genitori persone cresciute in tempi di memoria condivisa, di tutti i morti sono uguali e di questa «rottura di coglioni degli ebrei», come ha detto pochi giorni fa Vittorio Feltri –, beh allora la condivisione di un’immagine di Hitler che dice barzellette antisemite può risultare normale, innocua, persino ironica. Mia figlia di 12 anni, per esempio, mi ha detto che le ha sentite fare pure da un ragazzino ebreo poco più grande di lei. Ma ovviamente, mi ha detto lei, lui non ci credeva, lo faceva solo perché è di moda adesso.

La banalizzazione del male
Una torta con su Hitler. Ne parlo con Daniele Aristarco, che ha scritto un libro molto bello per Einaudi Ragazzi, si intitola Lettera a una dodicenne sul fascismo di ieri e di oggi (EL 2019). Daniele mi chiede: «Ma quale torta, quella di Maratea?». No, dico io, una torta che non è apparsa sui giornali, che mi è stata raccontata in privato pochi giorni fa. A me la storia della torta di Maratea era sfuggita, anche se non era sfuggita a Repubblica. Ma lì si trattava di adulti. Oggi, invece, sono i quindicenni a festeggiare con la torta di Hitler, e io l’ho saputo a cena perché la mamma del ragazzino basito era con me e un po’ in difficoltà, persino con noi, e si chiedeva: che fare? Perché è chiaro che additare genitori, bambino, ristorante alla pubblica gogna non aiuta.
Io ho buttato la cosa su Facebook, senza dire né dove né chi, e le reazioni sono state le più disparate, soprattutto preoccupate, e invocano l’intervento delle famiglie, della scuola, delle forze dell’ordine. Soltanto una professoressa, che insegna alle medie, ha sollevato il problema di cosa ne pensano i ragazzi stessi che hanno avuto parte, come attori o come semplici comparse, in questa storia.

Lei si chiama Cecilia Brugnoli, e mi ha detto: «Resto convinta che questi ragazzi vadano intervistati in modo rigoroso. Io l’anno scorso ho fatto la talpa: loro mi chiedevano, “Prof, ma che cosa ne farà di queste chat con noi?”. E io rispondevo: “Le userò contro i miei prossimi alunni, perché finalmente ho dei dati per capire che cosa vi passa per la testa, dove e come vivete”. Erano battute, ma rendono l’idea che sarebbe molto importante creare una base di fiducia con questi ragazzini che in fondo hanno una gran voglia di parlare. Solo che noi insegnanti e genitori continuiamo a fare lezioncine. Sarebbe ora che li lasciassimo parlare. Per dare a noi stessi la possibilità di capire qualcosa… altrimenti siamo noi quelli spacciati, quelli che non capiranno mai nulla. Loro si arrangiano, si auto-regolano, per così dire. Vogliamo capirci qualcosa sì o no? Questa è la domanda che mi faccio io, Hitler o non Hitler».

In effetti a noi adulti fa impressione trovare un simbolo così connotato in mano a dei ragazzini, ma come ci comportiamo quando succede? Aristarco questo problema se lo pone nell’incipit del suo libro. Entra in una classe per spiegare Shakespeare e si ferma di fronte alla scritta Dux incisa sul banco di una ragazza assente, quel giorno. Lo scrittore non propone ai compagni di buttare il banco, di chiamare la preside. Non si scandalizza, insomma.
«A dirla tutta, quella parola incisa sul tuo banco ha innescato in me un profondo desiderio: ragionare, con te, su cosa è stato e cos’è il fascismo». Ragionare con te. Non su di te. Con te.
Così scrive una lettera a Giulia, la ragazza del banco. In questa lettera però non le fa la predica, non le dice: hai sbagliato a scrivere Dux. Le chiede: possiamo parlare di cosa hai scritto? Il suo è il tentativo di far nascere nelle mente di una ragazza l’idea di una genealogia di concetti.
Partendo dalla parola potere, che può essere un verbo o un sostantivo. Ma è il sostantivo quello che più lo interessa adesso. Il potere cercato, esercitato, ostentato – il potere assoluto quello di una dittatura, per esempio.
«Come suona dentro di te questa parola?», chiede Aristarco, «Suona come un sostantivo o come un verbo?». Ti senti come Spiderman che diceva che da grandi poteri nascono grandi responsabilità o come Lord Voldemort che il potere lo usa per schiacciare gli altri?

Il fascismo, della questione del potere ne ha fatto subito un problema centrale: ma certo, si potrebbe obiettare, chiunque pensi di cambiare il mondo nel bene o nel male, Spiderman o Voldemort che sia, deve prenderlo il potere, per cambiare le carte in tavola. Allora cosa c’è oltre al potere da discutere per capire il fascismo, anzi i fascismi, quelli di ieri e di oggi? «I tre fascismi di cui ti ho parlato hanno alcuni elementi in comune, come pure non poche differenze. Tutti muovono da alcuni convincimenti di base, iniqui e pericolosi. Gli esseri umani non sono uguali tra loro e, quindi, non hanno gli stessi diritti. La violenza, fisica o verbale, è uno strumento utile al ristabilimento dell’ordine. Per mantenere l’ordine è necessaria una figura forte, un leader carismatico che gestisca autonomamente una grande quantità di potere e che sia in grado di prendere un gran numero di decisioni in assoluta libertà».

Da storica che si pone costantemente il problema di come far arrivare questioni complesse nel modo più chiaro possibile, questa di Aristarco mi sembra la scelta più giusta. Perché è innanzitutto dialettica: lascia spazio al contraddittorio, e mi piacerebbe essere presente in una classe, magari quella della torta, mentre Daniele, a uno a uno, snocciola i caratteri originali del fascismo. O del nazismo. Fornendo ai ragazzi un altro strumento, che è quello di non dover essere per forza d’accordo con lui: «Dissentire significa sentire in maniera diversa, avvertire nelle parole il falso, il ridicolo o il pericolo che vi si cela. Durante il fascismo furono in molti a dissentire. Alcuni, per la loro natura ribelle e l’intelligenza accesa, non si fecero abbagliare dalle parole roboanti e dai proclami. C’è chi subito si accorse della vuota retorica fascista, chi all’inizio ne fu attratto e poi se ne disamorò. Altri ancora vennero ritenuti «dissenzienti» solo perché avevano gusti sessuali o credo differenti da quelli propugnati dal regime». Nonostante detengano un potere enorme, i dittatori hanno paura di ogni forma di opposizione.

«Il fascismo trattava il dissenso come una malattia da isolare e debellare. Ma il dissenso è una risorsa. Solo confrontandosi con i pareri discordanti si riesce a penetrare la complessità delle cose. Bisogna sapere ascoltare tutte le voci, anche quelle piú flebili. Il fascismo mise a tacere ogni forma di dissenso per esibirsi in un lungo, folle monologo che si trasformò in delirio».

 

Reato di opinione?
Ma, ovviamente, non è solo una questione di opinione. Date le premesse di metodo, dati i concetti intorno ai quali ragionare per capire cosa è il fascismo, c’è poi il tema della storia, della sua verità. Insomma: non tutto può essere ridotto all’essere o non essere d’accordo con un punto di vista. Alcune cose sono successe, c’è poco da fare, e di fronte a queste prendere una parte è inevitabile. Allora perché alcuni ragazzi prendono la parte di Hitler, seppure per scherzo?

I ragazzi incontrano la Shoah ormai fin dalla scuola primaria: molte le scuole che il giorno della memoria organizzano proiezioni, conferenze, gite. Arrivati a 15 anni tutti hanno sentito parlare dello sterminio degli ebrei d’Europa, ma non, per esempio, di altre questioni che lo inquadrerebbero meglio: la lunga storia dell’antisemitismo, il peso dello stigma religioso, la storia della seconda guerra mondiale, il delicato equilibrio fra le potenze europee, le guerre coloniali dove il razzismo prende forma e poi si incarna, grazie a una visione “scientifica” della razza, costruita ad hoc sugli ebrei, nell’antisemitismo biologico.

Non sono argomenti da terza media, ma allora perché la Shoah lo è? Capisco che è un tema spinoso, ma davvero dobbiamo porci seriamente il problema, a 20 anni dall’istituzione del Giorno della memoria, di quanto questa ricorrenza abbia reso banale, scontato, o solo terrificante, uno degli eventi più complessi e drammatici del XX secolo. Mentre intorno cresce, per dirla con Christian Raimo, «questa educazione fascistoide di massa, quotidiana, spacciata per racconto del reale», che è un tratto distintivo degli adulti, non certo dei ragazzini.

Ma oltre alla ritualizzazione della memoria c’è anche altro. In Ho sedici anni e sono fascista (Edizioni Piemme, 2018), Raimo chiede a dei giovani militanti di destra perché si sono avvicinati al movimento neofascista. Uno risponde: «per i militanti di sinistra penso che è diverso. Magari c’è la sedicenne secchiona che ha letto tanto e si avvicina a un movimento politico di sinistra perché ha già un background. Per noi è il contrario. Per noi c’è la fascinazione per un simbolo, la bandiera, che agisce su un piano emozionale. E poi certo questa fascinazione deve trasformarsi anche in una coscienza politica». 

Ma non sempre accade, per fortuna. E la fascinazione, di cui il black humor è solo il simbolo più esterno, scompare. Magari perché sulla nostra strada si è incontrato un insegnante, un amico, che ci ha mostrato in modo chiaro quanto il potere, la violenza, la mancanza di dissenso, lo schifo verso i diversi, siano in realtà cose poco interessanti, per niente belle, anzi proprio ingiuste. Non per questioni etiche, estetiche, morali. Così anche un quindicenne può capire che una battuta è una battuta e una scemenza è una scemenza.

Torno a pensare alla torta di Hitler. Non deve essere facile per il ragazzino che ha sollevato il problema adesso stare in una classe forse in gran parte silente di fronte a quanto è successo. Che fare? Alla fine parlarne con lui con il suo gruppo di amici mi sembra la cosa migliore, prendendoli molto sul serio. Soprattutto prendendo molto sul serio chi ha scelto di mettere sulla torta del suo compleanno Hitler e non Fedez: non deriderlo, non linciarlo, capire cosa gli passa per la testa.

Io lo so che il tempo è poco, che in Francia hanno deturpato altri cimiteri ebraici, che a Roma hanno rubato le pietre di inciampo poste a memoria di 20 deportati nel quartiere Monti. Per questo bisogna lavorare con i ragazzi: perché gli adulti mi sembrano già persi: quelli che preparano la torta sono persi, persino i genitori che prendono così poco sul serio il proprio figlio da considerare goliardia ogni richiesta.
Lavorare con i ragazzi, perché il compito nostro, degli adulti, non è rivolgerci alla polizia, ma, come scrive Daniele Aristarco «tenere, saldo e teso, il filo che lega il passato al presente».
E se nel presente c’è una torta con su disegnato Hitler evidentemente in quel filo c’è una maglia che non ha tenuto. Ricucirla, mi sembra, è il compito più importante che abbiamo.

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Vanessa Roghi

Storica del tempo presente, ricercatrice indipendente, autrice di programmi di storia per Rai Tre. Bodini Fellow presso l’Italian Academy della Columbia University dal 2020 al 2021. Ha pubblicato, per Laterza, nel 2017 “La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole“, nel 2018 “Piccola città. Una storia comune di eroina“, nel 2020 “Lezioni di fantastica. Storia di Gianni Rodari“, nel 2022 “Il passero coraggioso. Cipì, Mario Lodi e la scuola democratica“; nel 2021 per Einaudi Ragazzi “Voi siete il fuoco. Storia e storie della scuola”, nel 2022 per Mondadori “Eroina“.

Su twitter è @VaniuskaR

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