Pochi studi aiutano a comprendere meglio la contemporaneità di quelli che esplorano i miti culturali di lunga durata, quei fenomeni che da un secolo all’altro determinano, attraverso una complessa vicenda di passaggi di consegne morali e intellettuali, il costituirsi di una tradizione di pensiero e, insieme, di una famiglia culturale contraddistinta da antenati comuni. Si prenda il caso di Lucrezio: un nome che non solo in virtù della propria opera ma anche in ragione dell’aura mitica che ne circonda la figura da due millenni si erge a maestro di laicismo e singolarità, scarto dalle leggi e dalle norme (in una parola: anomia), vero nume tutelare di quella classe di uomini (il libertinismo è un affare soprattutto di uomini, almeno fino alle soglie della modernità, per ovvie ragioni storiche) che va sotto il nome di “spiriti forti”.
Ne Il libertino in fuga. Machiavelli e la genealogia di un modello culturale (Donzelli, Roma 2018), Attilio Scuderi prende le mosse proprio dal poeta-filosofo romano (e non è un caso che tanti pensatori “irregolari” della storia siano stati anche letterati, o viceversa che tanti letterati indocili siano stati anche pensatori) per raccontare la tradizione del primo libertinismo europeo, nel cui lignaggio si inserisce come figura di snodo proprio l’eccezionale personalità del Segretario fiorentino.
Erede e continuatore della lezione dissidente di una parte del mondo intellettuale della Firenze quattrocentesca, Machiavelli assume l’esortazione lucreziana a vivere “a mente libera” come vero e proprio motore della propria opera. Non solo è colui che per primo impiega, in senso moderno, la parola “libertino”, ma nei suoi scritti, spiega Scuderi, troviamo condensate le tre principali pratiche politico-intellettuali che caratterizzano la visione del mondo e l’agire del libertino: anomia politico-religiosa, autonomia mentale, post-antropocentrismo materialista.
Un pensiero erratico e, diremmo oggi, laterale, quello di Machiavelli, basato su una coscienza priva di preconcetti e razionale che agli occhi del potere ha il torto di formulare assunti e ipotesi destabilizzanti (anche sul piano politico, naturalmente: si pensi alla lotta per le libertà civili, entro un quadro municipale la cui coesione dipendeva dall’esistenza di un fronte comune interclassista, come testimonia la spinosa questione della milizia urbana).
Nel ricordare che un mito è, costitutivamente, una rappresentazione culturale, fondata anche su forme eterodosse di costruzione della soggettività, Scuderi evidenzia alcuni passaggi del percorso che conduce Machiavelli verso una sorta di “atomizzazione” identitaria, dove la predisposizione alla metamorfosi conduce a una mirata diffrazione del sé.
A tal proposito entra in gioco un interessante parallelo con le ricerche quattro-cinquecentesche sulla natura della visione: assimilando questioni ottico-artistiche e nodi socio-politici, Machiavelli si sforza costantemente di essere «perspettivo», ovvero di ricorrere a una multifocalità dei punti di vista per poter “inquadrare” insieme – verrebbe da dire: tenere nella stessa inquadratura – Principe e popolo, e più in generale ogni singolo aspetto dell’esistenza (motivo per cui il Segretario è implicitamente riconosciuto anche come un precursore delle novecentesche tecniche di straniamento). La pluralizzazione dello sguardo, insomma, quale esito di un pensiero letteralmente “di ampie vedute”, che mira alla costruzione di una soggettività aperta e autocosciente tramite un incessante lavorìo di autoriflessione:
Alla fine di un percorso umano e intellettuale doloroso – la caduta della Repubblica, il carcere, l’allontanamento dalla città, il completo disconoscimento sociale e politico – M. ha progressivamente maturato un’idea di natura umana positivamente aperta, sfaccettata e mutevole; tale idea è esplicitamente connessa a una visione laica e sperimentale, lucreziana e per certi aspetti anche leonardesca, di natura come processo vitale creativo e distruttivo, in incessante movimento e trasformazione (p. 87)
La leggenda nera dell’estensore del Principe, fondata sulle ben note accuse di immoralità e ateismo, nasce da qui: dall’esigenza che il potere ha di stigmatizzare ogni disobbedienza dottrinale e reprimere qualsiasi tentativo di sottrarsi a un regime iniquo.
L’eredità della lezione machiavelliana è studiata nei due capitoli conclusivi, dove Scuderi “discende per li rami” l’albero genealogico del pensiero antinomico europeo per ricostruirne la circolazione presso alcuni grandi autori della modernità (tra i quali Erasmo, Shakespeare, Montaigne, Molière). Tutte figure capaci di modernizzare la morale elaborando personalità autoriali oblique e sfuggenti, debitamente equipaggiate di raffinate strategie retoriche attraverso cui esprimersi dissimulando.
Come fortificazioni alla moderna, queste straordinarie “soggettività prospettiche” perseguono e affinano una cultura dell’affrancamento dal profilo sfuggente e dall’eloquio scaltramente elusivo-allusivo che non offre un bersaglio facile alle artiglierie persecutorie del potere politico e religioso. Ricche di suggestioni in tal senso le pagine sui personaggi diffratti e machiavelliani creati da Shakespeare (il Jaques di As You Like It e Hamlet in particolare), ma anche quelle dedicati al più sfaccettato pensatore della modernità, ovvero Michel de Montaigne. L’autore degli Essais, sosteneva Gérard Genette, è «un corps qui pense», un corpo che pensa, e Scuderi ben restituisce l’immagine di quest’uomo impegnato nella costante auscultazione di un sé polimorfo, alla ricerca di precise corrispondenze tra pulsioni della psiche e reazioni del corpo.
Da iscriversi alla genia anche il proteiforme personaggio di Don Giovanni: in un primo momento funzionale alla censura anti-libertina, l’incorreggibile Don Juan, quando non è ridotto alla pura dimensione della machine célibataire/machine infernale, si erge a campione del libero pensiero, intransigente difensore del diritto dell’uomo a restare fedele a ciò che i sensi e la ragione gli van dettando.
Il libertino, dunque, come del resto ricorda l’etimo della parola (che richiama la figura del liberto antico), è l’affrancato, è colui che guarda alla vita da una prospettiva post-antropocentrica e disincantata, ma non per forza cinica. È insomma, sintetizza Scuderi, un soggetto antagonista deciso a svincolarsi dalle imposizioni dalla società maturando una visione anti-autoritaria di esistenza.
Sotto il segno di Lucrezio, da Machiavelli a oggi – nel saggio è menzionata anche un esempio tratto dalla letteratura recente: David Lurie, il protagonista di Vergogna (il titolo originale è Disgrace) di Coetzee, ennesima reincarnazione di Don Juan – il libertino, pensatore dell’alterità, sostenitore della conoscenza indipendente e critica del mondo, è una figura sociale capace di elaborare «una raffinata e ironica pratica di resilienza di fronte alla violenza dominante», perseguendo «una ricerca radicale di autenticità soggettiva e autonomia mentale». Nella sua fuga dai meccanismi stritolanti delle consuetudini e delle parole d’ordine del proprio tempo c’è una lezione di mai placata inquietudine di cui oggi più che mai si avverte il bisogno.