La Stele di Kaminia alla Fondazione Rovati

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Nel 2022 è stato aperto a Milano, in corso Venezia 52, un nuovo importante Museo. Si tratta del “Museo d’arte della Fondazione Luigi Rovati”, intitolato alla memoria – appunto – di Luigi Rovati (1928-2019), medico, ricercatore, fondatore di Rottapharm; uno scienziato, dunque, ma con una passione per il collezionismo (soprattutto antiquario) e una strenua volontà di coniugare la cultura scientifica con quella umanistica.
Ingresso del Piano ipogeo, Giovanni de Sandre per Fondazione Luigi Rovati.

Un Museo di arte etrusca (ma non solo)

Il palazzo storico di corso Venezia – acquisito nel 2016 e affidato per una riqualificazione allo studio MCA guidato dall’architetto Mario Cucinella – incarna oggi plasticamente l’intento quasi visionario di Rovati: da un lato rendere fruibile al pubblico la sua collezione di arte etrusca, facendola dialogare con opere contemporanee; dall’altro organizzare eventi, mostre, iniziative varie (in collaborazione con diversi Enti Universitari) conferendo al Museo un vero e proprio ruolo di polo culturale.

Piano ipogeo, Canopo, Giovanni de Sandre per Fondazione Luigi Rovati

La visita non può che iniziare dal piano ipogeo, caratterizzato da un’architettura in pietra chiara, laddove le teche mostrano suggestivi reperti etruschi – alcuni di grande qualità – come urne cinerarie (per lo più volterrane e chiusine), canopi, vasi, suppellettili, gioielli, collocati non troppo lontano da opere tra gli altri di Pablo Picasso, Alberto Giacometti, Lucio Fontana, Arturo Martini.

Le cupole del Piano ipogeo. Giovanni de Sandre per Fondazione Luigi Rovati.

Tale vivace commistione continua anche al piano nobile, i cui luminosi spazi – splendidamente restaurati – ospitano ancora reperti archeologici insieme con capolavori contemporanei, come lo spettacolare The Etruscan Scene: Female Ritual Dance di Andy Warhol (1985) o il meraviglioso Le Cheval d’Agamémnon di Giorgio de Chirico (1929). Né vanno dimenticate sale dedicate quasi monograficamente ad artisti come Luigi Ontani, Giulio Paolini, Francesco Simeti, il tutto in un contesto impreziosito dal parquet dei pavimenti, dal marmo dei camini, dalle decorazioni e dagli specchi delle pareti.

Piano nobile, La sala azzurra. Giovanni de Sandre per Fondazione Luigi Rovati.

Buio (negli spazi sotterranei) e luce (al primo piano) sembrano allora al visitatore quasi una sorta di allegoria nel nostro rapporto con il mondo antico, massime con quello etrusco: se infatti vi sono ancora alcuni “buchi neri” nella conoscenza della loro civiltà, è sempre più intensa la luce degli studi che la illuminano.

Una stele dai molti interrogativi

Certamente, fin dai tempi più antichi, uno dei più vistosi “buchi neri” è quello relativo all’origine di questo popolo, che come sanno (quasi) tutti gli studenti liceali lo storico Erodoto (V sec. a.C.) voleva originario della Lidia (regione dell’Anatolia occidentale) e invece l’erudito Dionigi di Alicarnasso (I sec. a.C.) riteneva autoctono. Oggi gli studiosi amano porre la questione in forma meno rigida, e non escludono che anche gli Etruschi – come del resto quasi tutti i popoli d’ogni tempo (con buona pace dei sostenitori della purezza etnica…) – possano essere il frutto di migrazioni e mescolanze di epoche diverse.

Ubicazione della Stele di Kaminia. Daniele Portanome per Fondazione Luigi Rovati.

Al Museo della Fondazione Rovati, fino al 16 luglio, è esposto un prestito dal Museo Nazionale di Atene che si colloca a buon diritto tra quelli più interessanti in relazione a questa annosa questione, e cioè la cosiddetta “Stele di Kaminia”, rinvenuta tra il 1883 e il 1885 nei pressi del piccolo centro di Kaminia, sull’isola greca di Lemno, nel Mar Egeo settentrionale. Infatti l’oggetto, in calcare e databile al VI sec. a.C., oltre al bassorilievo raffigurante un guerriero di profilo (del quale probabilmente segnalava la sepoltura), reca una doppia e poco comprensibile iscrizione, in caratteri greci ma con alcune peculiarità grafiche che la avvicinano all’alfabeto etrusco. E pure la lingua, che non è indoeuropea, sembra occhieggiare all’etrusco e al retico. Se a tutto questo aggiungiamo il fatto che già gli antichi affermavano che Lemno era stata abitata dai Tirreni, cioè una gente con lo stesso nome che i Greci davano agli Etruschi, si può ben capire il motivo per cui gli studiosi si siano subito interrogati su questi dati di fatto che non sembravano (e non sembrano) essere delle mere coincidenze. Non sono mancate, nel tempo, anche mirate campagne di scavo per meglio comprendere questa presenza sull’isola, tra le quali quella della Scuola Archeologica Italiana di Atene iniziata nel lontano 1926.

La Stele di Kaminia. Daniele Portanome per Fondazione Luigi Rovati.

Aker o Holaie: chi era costui?

«Con quali esiti?» Potrebbe chiedere ora l’impaziente lettore… Bella e legittima domanda, ovviamente, alla quale però non è semplice rispondere, perché se è vero che non mancano “tracce etrusche” sull’isola, è difficile dire se queste siano indizio di successive migrazioni da qui all’Etruria oppure se siano motivate dal fatto che qualche colono etrusco dall’Italia sia giunto – per varie ragioni, ma probabilmente commerciali – in quest’area dell’Egeo.
Ovviamente tra gli etruscologi la cosa è fonte di dibattito e l’esposizione milanese è stata anche l’occasione per un’importante pubblicazione curata da studiosi legati alla Scuola Archeologica di Atene (E. Papi, C. De Dominico, R. Di Cesare, G. Sarcone, La stele di Kaminia, gli Etruschi e l’isola di Lemno, Fondazione Luigi Rovati, Milano 2023). Chi scrive, però, etruscologo non è può permettersi il lusso di guardare all’oggetto con lo stesso sorriso un po’ ironico (o sarcastico?) del guerriero che vi è effigiato, il quale sembra quasi compiaciuto di avere messo le generazioni successive in un inestricabile ginepraio storico-archeologico.
Insomma, mi piace pensare che sia ugualmente possibile che qualche esponente di un popolo di origine anatolica abbia potuto anticamente stanziarsi a Lemno e poi giungere in Toscana, oppure che dall’Anatolia sia giunto in Toscana e da lì poi a Lemno. E che, in fondo, il nostro guerriero possa diventare una sorta di testimonial di quell’attitudine alla migrazione e al meticciamento che gli abitanti del Mediterraneo hanno mostrato nei secoli.
«Bello e impossibile», potremmo dire di lui, seguendo il filo della canzone di Gianna Nannini, forse anche «bello e invincibile» visto il suo armamento, dal sicuro «sapor mediorientale» per la fisionomia del volto, ma le cui manifestazioni alfabetiche e linguistiche ci portano dalla Grecia all’Etruria e finanche alla Rezia. Perché se ci si muove e ci si mescola le cose vanno così, e qualche volta si fa fatica, molta fatica a comunicare, perfino a manifestare con chiarezza la propria identità. Eppure non abbiamo l’impressione che il nostro nobile e forte lanciere sia privo di identità, anzi: la sua è talmente ricca e sfaccettata che non riusciamo a coglierla appieno. Così come non riusciamo nemmeno a capire se il suo nome sia Aker, figlio di Tavarsa, oppure Holaie, due dei personaggi che parrebbero citati nel testo iscritto.

Tra Omero e Pirandello

Sì, osservando la stele con la partecipazione emotiva che spesso mi accompagna davanti ai grandi reperti antichi, ho pensato alla nostra volontà – legittima, intendiamoci, ma così accanita (troppo accanita?) – di volere affibbiare al suo titolare a tutti i costi un’etichetta rassicurante chiedendogli: «Sei greco? Sei etrusco? Se no chi sei? Da dove vieni?». Insomma: «Ce l’hai un documento?». E ho dedotto che probabilmente quel sorriso beffardo di cui parlavo deriva proprio dalla sua consapevole scelta di non risponderci, e lasciarci invece in questa perenne incertezza. Non era forse tale anche l’espressione del volto di Odisseo quando a Polifemo disse di chiamarsi «Nessuno»? Proprio lui, che era capace di assumere – scusate la citazione pirandelliana – anche «centomila» diverse identità, tanto che Omero lo definì polytropos (letteralmente «colui che sa rivolgere il proprio animo, la propria mente, in molte direzioni»)! A meno che quel sorriso non sia invece la conseguenza dell’ascolto del melodioso quanto terribile canto delle Sirene, divinità assai venerate a Lemno: ma anche in questo caso ci starebbe un paragone con Odisseo, che quell’ambiguo canto volle ascoltare legato all’albero della sua nave. In ogni caso il volto arcaico di Aker / Holaie esprime una vitalità gioiosa che contrasta visibilmente con lo sguardo imbronciato dei “cugini” (?) etruschi effigiati sulle vicine urnette degli spazi ipogei del Museo Rovati. Ma qui è bene che mi fermi…

Non bastava dunque il cocktail greco-etrusco-anatolico-retico del quale parlano storici, archeologi e linguisti? Ci dovevo pure aggiungere le mie fantasie sull’identità meticcia nel Nostro e i legami pindarici con i poemi omerici? Stavolta credo di essere andato un po’ troppo in là, e di avere messo a repentaglio la reputazione di onesto antichista guadagnata in decenni di militanza… Ripeto, se è andata così è perché l’emozione davanti alla stele ha messo il “turbo” alla mia fantasia: di questo, dunque, chiedo preventivamente scusa agli etruscologi veri; e a tutti quelli che potrebbero turbarsi od offendersi davanti alle mie “parole in libertà” ricorderò loro una celebre frase del mio amato don Lisander, cioè: «credete che non s’è fatto apposta».

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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