La solitudine del potere. “J. Edgar” di Clint Eastwood

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“E se avessi sbagliato tutto?”. Chissà quante volte è accaduto, a ciascuno di noi, di porci un interrogativo di questo genere. Quante volte, ripensando ad alcune scelte compiute in passato, siamo stati assaliti dal dubbio di avere intrapreso la strada meno opportuna o meno vantaggiosa. E quante volte ci siamo domandati quale corso avrebbe potuto assumere la nostra vita, se in alcuni momenti di svolta avessimo deciso in maniera diversa.

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Da una decina di anni, realizzando l’una dopo l’altra una serie di opere cinematografiche letteralmente una migliore dell’altra, Clint Eastwood “lavora” su questo interrogativo, conferisce forma a questo dubbio. E lo fa coinvolgendo intellettualmente ed emotivamente lo spettatore in un travaglio carico di pathos e privo di artificiosi sbocchi consolatori. Superata la soglia degli ottant’anni, il cineasta americano passa in rassegna il lavoro svolto in decenni di carriera, si misura con i personaggi a cui ha dato vita, si rimette radicalmente e coraggiosamente in questione. Per un lungo periodo, attraverso i suoi personaggi, ma anche mediante la regia in prima persona di alcune opere cinematografiche, Eastwood ha proposto una vera e propria visione del mondo, basata sul culto di alcuni valori incrollabili – patria, coraggio, giustizia, libertà – al cui servizio egli poneva le risorse di un sicuro talento di attore e di autore. Con l’idea che queste idealità dovessero essere affermate al di là di ogni possibile riserva mentale, che dovessero essere sovraordinate a qualunque altra esigenza, che dovessero essere imposte anche a costo di andare oltre ciò che la legge positiva consente. Una sorta di generalizzazione del motto secondo cui il fine giustifica i mezzi – dove il fine era la salvaguardia del valore supremo rappresentato dall’american way of life, mentre i mezzi potevano anche coincidere con la carabina del texano o la Magnum di Callaghan. “E se avessi sbagliato tutto?”. Come suggeriscono con grande incisività le immagini conclusive di questa sua opera più recente (il richiamo, nient’affatto estrinseco, all’epilogo di Citizen Kane di Orson Welles e di Sunset Boulevard di Billy Wilder è emblematico), dopo aver dedicato la sua intera vita alla difesa intransigente della sua patria, e all’affermazione dei valori ad essa connessi, Hoover-Eastwood è assalito dal dubbio: “e se avessi sbagliato tutto?”. Forse, a dispetto della sincerità dell’impegno e della rettitudine delle intenzioni, quella vita è stata spesa male. Le scelte compiute, pur nella perfetta buona fede, si rivelano ora, giunti al rendiconto finale, incoerenti o negative. La macchina da presa indugia su alcuni particolari apparentemente irrilevanti, capaci tuttavia di evocare il senso del deterioramento e della corruzione prima ancora che compaia il corpo riverso del protagonista. Tutto, in quella stanza, restituisce l’alito pesante della morte: la penombra diffusa, le foto d’epoca ingiallite, l’inutile enfasi di cimeli e ornamenti, la pesantezza degli arredi. Immune da malattie conclamate, Hoover muore consumato da quel dubbio. Dalla consapevolezza – resa plasticamente nella scena successiva dall’irruzione brutale degli emissari di Nixon nel suo ufficio – di potersi ergere come custode di valori, da lui stesso in realtà contraddetti e calpestati. Muore, perché intuisce quale sia la risposta che dovrebbe dare alla domanda “e se avessi sbagliato tutto?”.

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Umberto Curi

Docente di Storia della Filosofia presso l’Università di Padova e presso l’Università San Raffaele di Milano.

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