La Settimana di Studi Danteschi

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La Settimana di Studi Danteschi nasce nel 1997, nel Liceo scientifico statale “Albert Einstein” di Palermo, come corso di aggiornamento per docenti. Dopo pochi anni, grazie anche alla collaborazione dell’Università degli Studi di Palermo e al sostegno di istituzioni pubbliche e private, l’iniziativa diventa un incontro esteso a quanti hanno a cuore la Commedia di Dante.

Scrive Giuseppe Lo Manto nella prefazione al Quaderno #27: “È stupefacente vedere come questo poeta di età medievale continui a mobilitare masse di studenti, docenti e appassionati, ai quali la sua opera comunica pensieri e sentimenti attuali. Per una settimana, a Palermo, si legge e si commenta la Commedia e se ne dibattono temi e questioni. Studiosi di prestigio internazionale hanno cercato, negli anni, non solo di diffondere e fare amare la Commedia, ma anche di rendere facilmente fruibili gli studi danteschi, in modo che i partecipanti diventino lettori attenti e interpreti autonomi del testo.
Per tale motivo agli italianisti e ai filologi si sono affiancati storici, filosofi e teologi, perché il messaggio dell’autore sia compreso nella sua completezza.
Un notevole contributo alla manifestazione è dato dagli studenti. Per due giorni, in un clima di partecipazione festosa, studenti, provenienti da più parti d’Italia, relazionano sul tema della Settimana, nelle forme espressive ritenute da loro più idonee alla comunicazione tra i giovani. Ragazzi che catturano l’attenzione del folto pubblico di coetanei con interventi di vario genere e trasmettono entusiasmo per un’opera i cui contenuti sentono vivi.
La Settimana di Studi Danteschi, divenuta ormai un appuntamento ricorrente, testimonia il forte bisogno culturale di una società ancora sensibile al richiamo della letteratura che, interpretando la vita, si colloca al servizio della crescita della coscienza individuale e sociale”.

In forma di appunti: viaggio e poesia
L’introduzione di Michela Sacco Messineo
Cari studenti e studentesse, insegnanti e amici che avete contribuito con la vostra attiva partecipazione alla realizzazione della “Settimana di Studi Danteschi” – in occasione della raccolta in volume di una parte dei contributi offerti dagli illustri dantisti che abbiamo ascoltato a Palermo –, è a voi che mi rivolgo nel desiderio di riprendere alcune riflessioni che hanno nutrito, negli anni, gli appassionanti e appassionati incontri ritmati dalla voce inconfondibile di un lettore e interprete quale Vittorio Sermonti, che penetra nel cuore della parola e le dona suono e senso.
Coinvolta dall’amico Pippo Lo Manto nell’organizzazione delle sue “Settimane”, il compito di aprire i lavori annuali mi ha fruttato una messe di appunti su questioni e argomenti, i più vari, che vi ripropongo, senza alcuna pretesa di intervento specialistico, procedendo discorsivamente, per provare a rivivere con voi alcune suggestioni degli annuali seminari che, come tutte le manifestazioni vissute dall’interno, con partecipe emozione, hanno lasciato in me e – credo – in voi tutti un loro particolare sapore e una speciale risonanza.

In veste provvisoria, dunque, così come sono nati, dettati dalla suggestione dei temi proposti più che da una specifica ricerca, ma nutriti delle interpretazioni di coloro, fra i primi Maria Corti, che hanno animato gli incontri di Palermo, ritorno a questi appunti che rimangono volutamente frammentari, pur se angolati verso una particolare ottica. E nella consapevolezza dell’arduo compito di privilegiare – all’interno delle infinite suggestioni della Commedia – un percorso definito, mi limito ad alcune considerazioni rispetto all'”enorme tastiera di significati e di significanti” che offre la Commedia, richiamandomi, per spunti, alla densità di metafore e figurazioni di cui è intessuta l’opera, che concorrono a generare una continua interrogazione su possibilità e confini conoscitivi di un’esperienza inimitabile.

Fra le più frequentate figure del mito attraverso le quali si dà voce all’inesauribile canto della Commedia, ricorre negli annuali dibattiti – soprattutto negli interventi del pubblico più giovane – l’“interminabile avventuriero” che è Ulisse, anche per la molteplice risonanza di significati che evoca, nella sconvolgente novità con cui si presenta nel XXVI canto dell’Inferno. Completamente ricreato rispetto all’archetipo omerico, trasformato in simbolo dell’inesausta brama di indagare, diventa icona di sorprendenti significati, contribuendo a dilatare le prospettive ermeneutiche dell’opera, che si offre alle interpretazioni più imprevedibili e diverse. Della grande poesia come luogo per molti versi enigmatico, di non immediato né definitivo disvelamento, ci parla Manganelli, ricorrendo all’antica figurazione della Sibilla vaticinante.

In questa chiave, la Commedia – similmente all’abitatrice della grotta cumana – ci sollecita a interpretare i segnali che invia con i suoi versi, suggerendoci al contempo che essi sono connaturatamente cifrati, di senso contraddittorio, aperti a infinite letture. Fin dall’inizio appare oscuro il suo statuto, nell’ambiguità del titolo, nel vuoto di informazioni, nell’inizio ex abrupto con cui si apre, utilizzando la tradizionale metafora della vita come “viaggio” («Nel mezzo del cammin di nostra vita»; Inferno, I, v. 1), che dopo il primo verso diventa identità esistenziale, tra personaggio narratore e autore («mi ritrovai per una selva oscura»; Inferno, I, v. 2), in quello che può essere il resoconto dello scriba di una visio in somnio o piuttosto il racconto di una fictio prodotta dall’attività creatrice del poeta. La parola “dire”, usata tre volte nei primi versi («quanto a dire qual era», «dirò de l’altre cose», «Io non so ben ridir»; Inferno, I, vv. 4, 9, 10), che per Zygmunt Baranski è riservata ai «resoconti con pretesa di verità», accentua anziché dissipare, nella figurazione fantastica della selva, nell’atmosfera visionaria che la avvolge, l’impressione di un’operazione che non si svela immediatamente ma si propone nella dimensione enigmatica di “sfida” interpretativa nei confronti dei lettori e insieme di invito alla loro “complicità”. Questi due caratteri propri, per Manganelli, dei grandi classici sono connaturati al viaggio di Dante, dagli abissi infernali ai cieli più alti dell’esperienza umana. Nel raccontarlo il poeta si pone in una continua tensione agonistica nei confronti di tutto il sapere antico («Taccia Lucano…», «Taccia … Ovidio»; Inferno, XXV, vv. 94, 97), di cui enuclea le contraddizioni con continui slittamenti di senso, pur risolvendoli di volta in volta nella significazione etico-religiosa che connota l’opera.

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