Ho conosciuto Francesca Scarnecchia durante l’esame di Stato, tre anni fa: io presidente, lei commissario esterno d’inglese, abbiamo lentamente costruito un rapporto inizialmente di collaborazione professionale; poi – con il tempo – di intesa e di amicizia. Docente di Lingua e letteratura inglese in un liceo di Roma, madrelingua inglese (ha vissuto fino al periodo universitario in Scozia), Francesca mi ha fatto entrare a poco a poco in contatto con una realtà particolare, difficile, importantissima: la Scuola in Ospedale. Una parte del suo orario di cattedra Francesca la impegna, attraverso un’utilizzazione stabilita dal Miur, nel reparto di ematologia pediatrica del Policlinico Umberto I di Roma; talvolta le capita di spostarsi, a seconda delle necessità, in Fibrosi Cistica, Oncologia Pediatrica, Neuropsichiatria, Malattie Nervose, Ortopedia. Si tratta di un’offerta formativa decisamente peculiare, e di un’esperienza certamente unica, sia per quanto riguarda i destinatari – gli alunni ospedalizzati – che le modalità di erogazione.
Originariamente nato da iniziative volontarie di singoli operatori e istituzioni, preoccupati di non alienare anche il diritto all’istruzione a studenti già fortemente penalizzati dall’esperienza della malattia e dell’ospedalizzazione anche molto protratta (in sé profondamente destabilizzante e precarizzante), questo coraggioso e impegnativo servizio tende non solo alla garanzia di quel diritto, ma anche alla conservazione, nell’esistenza di bimbi e ragazzi ammalati, di quella condizione di normalità, emancipazione e distrazione che in questi casi il contatto con la cultura e con gli insegnamenti garantisce. Oggi Scuola in Ospedale è diffusa in tutti gli ordini e gradi di scuola e nei principali ospedali e reparti pediatrici del territorio nazionale. Si tratta di un utilissimo sostegno per ragazzi che – sebbene fisicamente impediti – possono continuare a sviluppare competenze e capacità destinate a meglio reinserirli nei contesti di provenienza.
Francesca è una donna rassicurante e acuta, dotata di una particolare forma di sensibilità. Occhi verdi intensissimi, capelli tanti, lunghi e dorati, racconta con un amore che non sa mai di pietà, dal dentro e non dal fuori, e con un trasporto che non sfocia mai nel compiacimento o nella morbosità, la storia (le storie) che in questi anni ha avuto la gioia e il dolore – sempre la forza – di affrontare. 6 anni fa due colleghi della sua scuola le fanno la proposta di partecipare al progetto La scuola in Ospedale. Francesca accetta immediatamente: ricevuta dal coordinatore, intervistata per valutare la sua attitudine a quel particolare tipo d’insegnamento, accede subito al corso con il primario del reparto. Da allora fino ad oggi ha rinnovato il suo impegno con convinzione inflessibile, improntando la sua attività non solo alle proprie competenze disciplinari, ma, soprattutto, considerando a delicatezza e la particolarità del reparto in cui opera, a una capacità relazionale che le consente di entrare in punta di piedi in storie di vita purtroppo non sempre a lieto fine. Che vedono coinvolti bambini e ragazzi talvolta sottoposti a degenze interminabili, destinati a sopportare sofferenze difficilmente immaginabili, a rinascere o a spegnersi in maniera repentina o lentissima.
Loro: gli occhi, le mani, le speranze, le paure, le immaginiamo. Ma senza l’esperienza diretta penso che l’immaginazione, pur drammatica, sia lontana dalla portata delle condizioni concrete che si vivono in alcuni reparti. Francesca incontra i suoi studenti tre volte a settimana, per 9 ore. Ogni anno il numero degli alunni varia dai 20 ai 30: lezioni frontali, qualche volta per gruppi di ragazzi; verifiche scritte e orali, test, prove che vengono formulate in collaborazione con gli insegnanti della scuola di provenienza. La valutazione finale: una relazione; nessun voto, nessun giudizio. Va bene così. Francesca si avvicenda con gli altri docenti delle differenti discipline. L’intento principale è quello di insegnare, senza essere troppo “insegnanti”; occorrono apertura, disponibilità, capacità di comprendere le persone e le differenti situazioni; ciò che fa di un docente un buon docente all’ennesima potenza. Ci vogliono delicatezza, rispetto, amore, fermezza e indulgenza.
I racconti di Francesca ti tengono ferma, all’ascolto. Ti chiedi quale sia il coinvolgimento in quelle storie, quanto esso debba essere, quale possa essere giusto che sia. Per loro: studenti e docenti. La gioia delle guarigioni. L’impossibilità delle lezioni, quando le condizioni fisiche dell’alunno sono gravi al punto da impedirgli di partecipare; la carica di quell’affetto, la specificità di quel rapporto; la rabbia, la frustrazione, la speranza; entrare in reparto, e non sapere cosa si troverà. L’ammirazione per il personale sanitario, legami che si stringono. Visi salutati tempo prima, piccoli e sorridenti, che tornano a salutare, a raccontare la loro nuova vita, da ragazzi più grandi. Da ragazzi guariti.
Pensate a quanti di noi, uscendo dalla nostra scuola, portiamo a casa accadimenti, problemi, risate e soddisfazioni, sguardi di una giornata di quella particolarissima professione che è insegnare. Pensate a questi docenti che entrano in un luogo in cui si ri-vestono: il camice, la mascherina, le precauzioni necessarie. Provate a pensare come debba essere difficile far fronte a quella carica emotiva che non può non travolgere quanti vedono nell’insegnare una tra-duzione, un passare attraverso, per andare oltre. La costruzione prevede un futuro, un divenire. Qui si celebra in alcuni casi – la minoranza, per fortuna – l’ossimoro dell’insegnamento nell’incertezza totale del futuro; a volte, purtroppo, nella sicurezza di un non futuro: “devo obbligarmi a essere sempre dietro una piccola barriera protettiva, altrimenti non potrei più vivere”, le parole di Francesca.
Le mamme sono un capitolo a parte. La maggior parte: custodi devote e instancabili; lupe disperate e amanti. Molte rinunciano al lavoro. Rimangono lì implacabili, inesauribili, consumandosi e rinascendo insieme al proprio figlio. A volte, racconta Francesca, è difficile farle uscire, anche durante la lezione: pretendono di non perdere nemmeno un istante. Altre approfittano per andare a fare la spesa, lavarsi i capelli, respirare l’aria fuori, desiderando di essere dentro. Caterpillar dell’amore. Giorni, mesi, a volte anche anni in piccolissime stanze, loro – insieme sempre. Alcune rimuovono, altre sperano oltre la speranza. Umili, acculturate, credenti o prive di fede, italiane e non, professioniste o disoccupate, il loro compito, la loro vita è tutta lì. A Francesca è capitato un’unica volta che il letto di un figlio sia stato abbandonato; e lui se ne è andato da solo, senza i suoi genitori intorno. Questo è solo una piccola parte di quello che ho ascoltato dalle sue parole.
Molto Francesca lo tiene per sé. Non ha mai pensato di rinunciare: guardare sempre avanti, pensare positivo. È questo ciò di cui loro hanno bisogno. Il rapporto che si stabilisce con piccoli o meno piccoli è sempre differente; di ciascuno si potrebbe raccontare. A volte c’è il rifiuto, altre volte il preferire il docente persino alla mamma, per arrivare presto a quelle ore che consentono di volare altrove, con la mente e con il cuore, fuori da quelle mura. Quasi sempre gli studenti ospedalizzati sono felici della loro scuola. La desiderano, la attendono. Le lezioni li avvicinano al fuori cui anelano; li distraggono dalle domande inevitabili. “L’attività didattica rivolta ai bambini ricoverati nelle strutture ospedaliere riveste un ruolo estremamente rilevante in quanto garantisce ai bambini malati il diritto all’istruzione e contribuisce al mantenimento o al recupero del loro equilibrio psico-fisico” (C.M. n. 345 del 12 gennaio 1986): ma quello che sottolinea la circolare ministeriale non è che una piccola porzione di ciò che la Scuola in Ospedale garantisce in reparti quali quello in cui opera Francesca.
Qual è il momento più bello? “Quando guariscono”, è ovvio. Ma quando non ce la fanno “il vuoto che lasciano: terribile”. L’ovvietà non è banale. Ed è per questo che ho deciso di scrivere questo pezzo. Perché sono colpita da questa donna che, come altri, mette a disposizione, come tutti noi docenti che lavoriamo con passione, se stessa, la propria anima, il proprio cervello, il proprio cuore. Ma lo fa in condizioni proibitive, trasferendo suggerimenti di vita dove la vita rischia di spegnersi. Dove albergano sofferenza, dolore, disperazione. Ma anche speranza, coraggio, umanità, dedizione. Si creano rapporti tenacissimi e speciali; si tocca, si guarda, si abbraccia, si respira insieme quel pezzo di vita. E poi sguardi, abbracci, respiri si portano con sé, a casa; e bisogna pur farci qualcosa, non consentendo mai di farsi sopraffare dallo scoraggiamento. Bisogna farci i conti e convivere, tenerli dentro di sé, curarli come i bambini che li hanno prodotti, senza farsi sconfiggere dalla loro struggente dolcezza e dalle storie che raccontano; o che smettono di raccontare. Accettare che la vita sia anche quella cosa là, così lontana dalle nostre pratiche quotidiane, protette e garantite dalla Salute.
Perciò, quando le chiedo cosa le ha insegnato questa esperienza, non trovo scontata la risposta di Francesca: “Il vero valor dell’esistenza, dare meno importanza alle banalità del quotidiano”.