La pittura pensa: Littell interprete di Bacon

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«Mi è sempre piaciuta la posizione che assume», disse una volta Francis Bacon indicando una foto di Marilyn Monroe. L’ossessione per la consistenza fisica dei corpi, per il modo in cui l’organismo si concentra, in senso letterale, centrandosi e avvolgendosi intorno al proprio nucleo più intimo ed essenziale, accomuna il grande pittore irlandese a uno dei più celebrati scrittori contemporanei, Jonathan Littell, che in un trittico di studi apparsi da Einaudi si misura con i segreti dell’arte di Bacon.

Per Jonathan Littell, autore del fortunato romanzo Le benevole (2006, Grand Prix du roman de l’Académie française e Premio Goncourt), quella degli “studi” – vocabolo  da intendersi nel senso pittorico e musicale di un apprendistato tecnico – è una pratica di lungo corso: nel 2009 l’editore nottetempo ha pubblicato in un agile volumetto quattro suoi Études narrativi, brillantemente illustrati dal fratello Jesse. Lo stesso modello sperimentale viene ripreso, in chiave saggistica, nel recente volume Trittico. Tre studi da Francis Bacon (Torino, Einaudi 2014), un esercizio di interpretazione che se non sempre brilla per originalità ha però l’innegabile pregio di presentare in modo chiaro e coinvolgente alcuni dei principali nodi dell’arte baconiana, inserendola nel più vasto quadro della storia delle immagini occidentali, dall’antichità a oggi.
Littell procede dall’assunto che la pittura non coincida mai con ciò che mostra, bensì con il proprio farsi, con il proprio pensarsi pittura, secondo una logica diversa da quella comune ma non per questo incoerente o arbitraria:

La maggior parte degli spettatori, guardando un dipinto di Francis Bacon, dà per scontato, senza nemmeno pensarci, che la figura umana o animale di fronte a loro sia il soggetto di quel quadro. Ma non è affatto così: la figura è l’oggetto dipinto nel quadro; il soggetto, come in tutta la pittura, e non solo in quella astratta, è la pittura in sé. È la pittura a parlarci di ciò di cui essa stessa tratta. «La pittura – come Bacon spiegò a Franck Maubert a un certo punto degli anni ottanta – è un linguaggio a sé, una lingua a parte». Come tale, ha una propria fonologia (le relazioni e i valori tonali) e una morfologia (la disposizione delle forme sulla tela), una grammatica e una sintassi, la cui specifica organizzazione e articolazione, all’interno dell’opera di ciascun pittore, è l’unica cosa che può insegnarvi a leggere quell’opera (p. 45).

Il modo in cui l’arte si costruisce, pensandosi all’interno delle coordinate linguistiche che le sono proprie, è l’asse portante dei tre studi littelliani, assemblati come un trittico, a rispecchiare una delle modalità caratteristiche dell’opera baconiana.Il volume affronta alcuni dei nodi fondamentali del lavoro del pittore dublinese, illustrandone gli aspetti più propriamente tecnici – la profonda fascinazione per il senso dello spazio e dei colori nelle opere di Vélazquez e Goya; la funzione strumentale ma decisiva dell’immagine fotografica – e le ricorrenti ossessioni personali  – l’insistenza fisiognomica su dettagli del volto come gli occhi e la bocca; il confronto con l’identità sessuale e sociale; le oscure pulsioni distruttive e autodistruttive; il senso di colpa seguito al tragico suicidio del compagno George Dyer; gli impulsi narcisistici. Centrale risulta soprattutto la questione del momento genetico del gesto creativo, che sorge, afferma il pittore stesso, da una «misteriosa e continua lotta con il caso» (p. 49): non a caso Bacon era, come molti artisti e scrittori della modernità, un incallito giocatore d’azzardo. Ne consegue l’importanza attribuita al gesto, al colpo di pennello, in continuità con una lunghissima tradizione di pensiero che risale almeno all’Henri Focillon di Elogio della mano: «Bacon sembrava sapere che la vera questione è quella della mano del pittore, più che dell’occhio del pittore, e che, dal momento che la mano è spesso più veloce dell’occhio, l’occhio può solo seguire, registrare, analizzare e forse modificare i segni già tracciati» (p. 117). Sulla scorta di queste osservazioni, Littell osserva come l’arte “europea” di Bacon e quella degli americanissimi espressionisti astratti, storicamente contrapposte da tanta parte della storiografia, presentino in realtà molti punti in comune, tanto da suggerire un parallelo con l’esperienza creativa del Color field painter Mark Rothko. Per entrambi, sostiene lo scrittore, l’incognito quidche rende vitale e potente il fatto creativo risiede nel suo momento aurorale, nell’attimo stesso della sua genesi. Con immagine suggestiva Littell ci pone dinanzi agli occhi un Bacon che,

solo nel suo studio, con il pennello sospeso nella mano, si chinava verso la tela vuota; l’atto che il pennello compiva in quel momento era l’unico che gli importasse, un’arcana mistura della sua volontà, della sua dottrina, del suo desiderio, della sua libertà e del caso, un atto puro – che poteva originare un disastro, oppure un dipinto (p. 35).

Questo concentrarsi dell’opera nel suo farsi germinativo, nel gesto inteso come «atto puro», fa inoltre sì – Littell lo sottolinea a più riprese – che Bacon non sia mai un mero riproduttore del reale, ma che al contrario il suo lavoro si basi su un rifiuto sistematico di quella che lui stesso chiamava “arte illustrativa”. Quando Littell definisce Bacon un artista che «autogenera la propria iconografia» (p. 56), intende proprio sottolineare come tutta la sua opera sia un tentativo non già di riproduzione di fatti visivi, bensì di intima stenografia delle proprie percezioni corporee. Riflettere – e riflettersi – in pittura significa pertanto lasciare che il corpo dipinga ciò che sente (è qui evidente come Littell legga l’arte baconiana attraverso il filtro di Logica della sensazione di Gilles Deleuze), accettare che la propria esperienza esistenziale sia parlata, attraverso l’interfaccia mano/pennello,dal linguaggio della visività. «Ciò che noi vediamo in una tela di Bacon», afferma con felice sintesi Littell, «non è l’aspetto di un corpo, il modo in cui appare, un elemento che gli interessava poco, ma piuttosto ciò che un corpo sente, ciò che sente nella pelle, nelle ossa e nei muscoli mentre fa quello che fa, qualunque cosa sia quello che fa in quel particolare momento: camminare, stare in piedi, fumare, cacare, fottere, giacere angosciato su un materasso, sedere su una sedia in preda alla più grande disperazione, morire» (p. 19). Queste sole osservazioni bastano a spiegare perché Bacon sia ancor oggi un notevole punto di riferimento non solo per l’arte, ma per tanta parte del cinema e della letteratura contemporanei, che hanno il tema di unacorporeità pensante al proprio centro.

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Riccardo Donati

Docente e saggista, insegna all’Università di Napoli “Federico II”; tra i suoi lavori più recenti ricordiamo “I veleni delle coscienze. Letture novecentesche del secolo dei Lumi” (Bulzoni, 2010), “Le ragioni di un pessimista. Bernard Mandeville e la cultura dei Lumi” (ETS, 2011), “Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione” (Le Lettere, 2014), “Critica della trasparenza. Letteratura e mito architettonico” (Rosenberg & Sellier, 2016), “La musica muta delle immagini. Sondaggi critici su poeti d’oggi e arti della visione” (Duetredue, 2017), “Apri gli occhi e resisti. L’opera in versi e in prosa di Antonella Anedda” (Carocci, 2020), “Il vampiro, la diva, il clown. Incarnazioni poetiche di spettri cinematografici” (Quodlibet, 2022), “«Queste mie carte argute». Sei studi su Giuseppe Parini” (Cesati, 2022). Si occupa di letteratura italiana ed euro-statunitense dal Settecento a oggi, con interventi in volume e in rivista; nel 2013 l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attributo il “Premio Giuseppe Borgia” per i suoi contributi sulla poesia.

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