Ho avuto la fortuna di essere stato allievo di Dario Del Corno, professore di Letteratura Greca alla Statale di Milano, del quale ricordo una frase che cito spesso – cioè «Gli antichi, grazie al cielo, non sono mai moderni» – con la quale egli si opponeva agli inutili anacronismi di ogni epoca. In quegli stessi anni la cattedra di Storia Greca era tenuta da Ida Calabi Limentani, studiosa a me carissima, che ci ha insegnato come la ricerca storica non possa prescindere da un rigore maniacale nell’analisi delle fonti; non solo quelle letterarie – come era più consono per gli accademici della sua generazione (era nata nel 1919) – ma anche archeologiche, numismatiche, papirologiche, epigrafiche… Ho infatti ancora in mente la sua cattedra cosparsa di libri, fotocopie e immagini che “collazionava” durante le sue densissime lezioni.
Un transfert nella Grecia antica
È a loro due – oggi scomparsi – e al loro magistero, che ho pensato anzitutto quando ho letto l’ultimo libro di Gianfrancesco Turano, Pόlemos, Scrittori Giunti, Firenze-Milano 2022 (pp. 413, euro 18). Infatti – come me – il classicista (oggi giornalista d’inchiesta all’Espresso) Turano ha frequentato la Statale di Milano negli anni Ottanta, ha seguito le lezioni di quei due Maestri, e con il professor Del Corno (uno dei tre dedicatari del romanzo, definito «maestro di grecità» al pari di Luigi Marino e Carmelo Restifo) si è addirittura laureato. Si vede infatti nel suo lavoro l’esito di un metodo che – come avrebbe detto Tucidide – è un «possesso perenne» per chi l’abbia assimilato dopo averlo acquisito dai propri studi e dalla propria esperienza.
In una recente presentazione pubblica l’Autore ha inoltre confessato che, durante il lockdown 2020-21, per lavorare all’opera aveva attuato una duplice, congiunta, strategia: da un lato attivare la “macchina del tempo”, trasferendosi idealmente nella Grecia antica per tutto il tempo che poteva sottrarre ai suoi obblighi giornalistici; dall’altro cospargere la casa (tavolo, pavimento etc.) di libri (saggi, ma soprattutto fonti antiche: Tucidide, Erodoto, Senofonte, Platone, Aristofane…) da consultare e confrontare in parallelo. Mi è parsa, ancora una volta, la conferma di quel “metodo Del Corno-Calabi” di cui ho già detto, fatto di immersione nell’antico e acribia critica nella ricostruzione del passato.
Pόlemos, re di ogni cosa
Ma il tutto finalizzato a cosa? Non già a un poderoso saggio sulla Guerra del Peloponneso (del quale Turano sarebbe senz’altro capace: anzi, gli butto lì una provocazione in tal senso…), ma a un avvincente romanzo ambientato nei primi anni di quell’evento (430-426 a.C.), che – va ricordato – ha cambiato per sempre la storia della Grecia classica. Se infatti il trentennale conflitto (431-404 a.C.) voluto dall’Atene di Pericle (leader, però, rapidamente ucciso dalla peste) è stato vinto da Sparta, questo ha in realtà tanto indebolito tutte le pόleis elleniche da consegnarle nel giro di qualche decennio alla dominazione macedone, che pose fine alla loro plurisecolare libertà e autonomia. Sì, perché pόlemos, la «guerra», non è solo uno scontro militare, dato che se lo si scrive con la lettera maiuscola (dunque Pόlemos) diventa una divinità, il «padre di ogni cosa, re di ogni cosa» – come diceva il filosofo Eraclito – capace di rendere gli uomini liberi o schiavi a suo assoluto piacimento, e di archiviare in breve una delle più fulgide stagioni della storia umana.
È dunque giusto dire (comparando i disastri ellenici agli eventi ucraini di questi tempi) che forse in guerra si perde sempre tutti? Probabilmente sì, ma per evitare gli anacronismi cui accennavo prima, lascio in sospeso la domanda per entrare più nel vivo della trama del libro.
La storia ha tre personaggi principali, i cui intrecci qui non posso svelare, per ovvie ragioni, se non per sommi capi. Si tratta di Mirrina, coraggiosa adolescente ateniese che fugge – in abiti maschili – dalla prigionia spartana per vendicare la morte del padre, ucciso dagli proprio dagli Spartani; Procle, un Uguale (cioè un membro dell’aristocrazia guerriera lacedemone, pur se con qualche “vizio” nella sua origine) che si imbatte in questa fanciulla (facendola prigioniera) su una spiaggia della Laconia, dopo il naufragio della nave sulla quale lei si era fraudolentemente imbarcata; e da ultimo (ma non certo per peso narrativo) Milone da Reggio, ambizioso poeta comico giunto ad Atene tanto in cerca di fama e successo quanto di ragazzini da portarsi a letto.
La guerra sullo sfondo della loro “commedia umana” è terribile, e la peste imperversa mentre il re spartano Archidamo assedia l’Attica e la città di Atene; una città ancora costellata di splendidi monumenti e ancora popolata – pur nella gravità del momento – dal Gotha degli artisti, dei filosofi, dei poeti della Grecità. Turano privilegia però la descrizione realistica degli ambienti umili, modesti, quotidiani (ad esempio il trafficato Pireo, le taverne, i bordelli) e indulge su personaggi di pari livello, come marinai, prostitute, osti, carrettieri; e, soprattutto, è capace di darci qualche momento di straordinaria lettura “dal basso” della realtà, come avviene – ad esempio – in queste parole di Milone che sembrano mettere in discussione l’intero sistema valoriale della Grecia di allora:
«L’intera Ellade discordava nelle fazioni dei pochi e dei molti. A parole, sia gli oligarchi sia i popolari volevano leggi uguali per tutti. Ma l’isonomia ateniese era un falso che esisteva a prezzo di miriadi di schiavi, centomila in Attica. Era tanto ipocrita quanto l’uguaglianza proclamata tra un pugno di spartiati. Gli stessi dèi dell’Olimpo praticavano la disuguaglianza dopo avere ridotto in schiavitù ciclopi e giganti per non doversi avvilire con il lavoro. Ed i avrebbero vissuti i filosofi che si esibivano in Atene, Socrate, Anassagora, il leontino Gorgia, Protagora di Abdera che misurava ogni cosa attraverso l’uomo e sé stesso attraverso i compensi esosi strappati a un pubblico di giovani viziati? E poi quale parte dell’uomo? L’anima eterna o la pancia vuota? E quale uomo? L’aristocratico che discorre dell’essere, il recluso a vita che scava argento nelle miniere del Laurio o il prigioniero persiano che vende le sue erbe nella speranza assurda di comprarsi la libertà?» (p. 227).
Un atteggiamento emico verso il passato
È in passaggi così che si capisce come Turano sia un raffinato conoscitore del mondo antico – oltre che un attento lettore del celebre Mimesis di Erich Auerbach – poiché affida questa riflessione rivoluzionaria non a un politico o a un filosofo (la Rivoluzione Francese o il Marxismo erano ben di là da venire…) ma a un poeta comico, cioè all’unico soggetto dell’Atene del tempo capace di vedere “il mondo alla rovescia”, e pertanto autorizzato a dire verità (perfino sugli dèi) impossibili da concepire per chiunque altro: rileggiamoci tutti Aristofane, per capire meglio quel che sto dicendo!
Ed è proprio in questi frangenti che ci rendiamo conto di come non solo il transfert cui l’Autore (che tra l’altro è nato a Reggio Calabria ed è dunque “conterraneo” di Milone, come ho già scritto in altra recensione) alludeva nella presentazione cui ho assistito sia pienamente riuscito, ma possa essere fortemente contagioso.
Davvero, leggendo con emozione, partecipazione e – perché no? – anche un po’ di sdegno e orrore le pagine di questo libro, lentamente abbandoniamo le nostre case attrezzate di luce elettrica e rete internet per trasferirci in un mondo lontano; un mondo che Turano ci invita a vivere in quella modalità che gli antropologi chiamano “emica”, cioè immersiva (quasi “regredita”, direbbero gli studiosi di Verga), privi di qualunque intenzione “etica”, cioè di giudizio esterno sugli eventi lontani.
E se – come anticipavo – viviamo anche oggi tempi di guerra, se anche oggi orrori indicibili e violenza insensata sembra condizionare la vita di regioni del mondo a noi molto vicine, è bene ricordarsi che il confronto con il passato è possibile, utile, addirittura doveroso; ho detto confronto, però, non confusione. Quella lasciamola ai leoni da tastiera o ai tuttologi dei talk-show, con tutta evidenza ignari di quel prezioso “metodo Del Corno-Calabi” del quale abbiamo già parlato.