L’amicizia ai tempi dei Moti di Reggio (1970)

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Il 14 luglio è data nota perché anniversario della presa della Bastiglia, evento chiave della Rivoluzione Francese del 1789. Ma nel 1970 – dunque cinquanta anni fa – proprio in quello stesso giorno, a Reggio Calabria esplose la rabbia popolare perché il governo decise di assegnare a Catanzaro la funzione di capoluogo di regione. Una rabbia che diede luogo a una rivolta che durò mesi, non risparmiò morti e feriti, e che costrinse il governo presieduto da Emilio Colombo a militarizzare la città: perfino le scuole furono trasformate in caserme per gli agenti di Polizia e i Carabinieri.
La polizia fronteggia i manifestanti a Reggio Calabria

Si tratta di un episodio oscuro della nostra recente Storia nazionale, quasi censurato dalla RAI di allora e poco conosciuto anche negli anni successivi: dei cosiddetti “Moti di Reggio Calabria” si ricorda infatti poco più che lo slogan “Boia chi molla” dei rivoltosi e il nome del futuro deputato missino Ciccio Franco, che fu tra i facinorosi più in vista.

Un romanzo epistolare, un narratore regredito

Chi volesse saperne di più, può ora farlo anche attraverso la lettura del bel romanzo di Gianfrancesco Turano, Salutiamo amico. Il romanzo dell’estate dei Boiachimolla, Giunti editore, Firenze-Milano 2020.

Si tratta di un’opera che coniuga la verve letteraria del suo autore (già presente in altri romanzi passati), stimolata qui – anche linguisticamente – dalla sua origine reggina, con il rigore documentario che gli deriva dalla professione di giornalista d’inchiesta per l’«Espresso». Tra l’altro, alla fiction (ma possiamo davvero chiamarla così?) fanno seguito una post-fazione saggistica e una cronologia che chiariscono ulteriormente le idee al lettore, che ha seguito per molte pagine le lettere che si sono scambiati Luciano e Nunzio, i due tredicenni protagonisti del romanzo.

Siamo dunque davanti – anche se la definizione rischia di essere tecnicamente imprecisa – a una particolare forma di romanzo epistolare: alle missive dei due ragazzi si alternano infatti le vicende pubbliche e private della loro città e delle loro famiglie, lette comunque attraverso il punto di vista dei personaggi, e talora da loro raccontate in prima persona.

Insomma, l’autore sceglie la strada – di verghiana memoria – del “narratore regredito”, accettando volta per volta la visione del mondo, i valori (o disvalori), le passioni, nonché la lingua (fors’anche con qualche forzatura caricaturale, ma è peccato veniale…) delle sue “creature”. Così, ad esempio, lo sgrammaticato Nunzio descrive al suo «compare» (definizione carica di suggestioni) gli scontri con i poliziotti:

I sbirri ci menano lo stesso. Molti arrivano da fuori Reggio, a centinaja, mandati di persona dal ministro Interno, che è il capo di sti fitusi, e sono di Roma, e sono di Napoli, ed sono di Torino (p. 34).

La popolazione sfila per Reggio capoluogo.

I Moti di Reggio, tra pubblico e privato

Ma cosa succede, in fin dei conti, in queste pagine? Succede che Luciano e Nunzio, nel 1970 divisi spesso da pochi chilometri (all’inizio il primo è al mare, il secondo a Reggio a studiare per gli esami di riparazione), si raccontano la loro estate di tredicenni: e se il primo scopre – tra mille peripezie – il doloroso stupore dell’amore adolescenziale, il secondo si accende d’entusiasmo per le barricate reggine e si identifica in tutto e per tutto con la rivolta dei suoi concittadini.
Ma ciò che per Nunzio è rivalsa campanilistica, contro la politica romana, i catanzaresi e i comunisti (qualcosa di male, a suo avviso, lo fanno sempre…), è in realtà qualcosa di ben più grande, perché – a vario titolo – sono coinvolti nei Moti la destra extraparlamentare, i futuri (fallimentari…) golpisti di Junio Valerio Borghese, la P2 di Licio Gelli, una parte dell’imprenditoria locale, ma anche (soprattutto?) le famiglie della Società (e cioè quella che in seguito si chiamerà ‘ndrangheta). Il tutto nel contesto di un annus horribilis, che vede i fatti di Reggio incastrarsi tra la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e il fallito golpe Borghese dell’7-8 dicembre 1970.

Un drammatico macrocosmo che emerge dal microcosmo del vincolo amicale tra Luciano e Nunzio, ma anche dai legami – talora inconfessabili – tra le loro famiglie: infatti pure i loro padri Giampaolo e Amedeo e le loro madri Rosalba e Giuseppina sono amici, o almeno così dovrebbero essere. Si tratta di personaggi nitidamente delineati, tra i quali spicca Rosalba, l’inquieta e passionale professoressa di francese che la sorte ha dato in sposa al cinico ingegnere Giampaolo Stranges: il suo personale disagio rispetto al pesante clima di condizionamento familiare e mafioso in cui vive fa scaturire una ribellione “privata” per certi versi ancora più profonda e vera di quella “pubblica” dei sui concittadini per le decisioni dei politici romani.

Devastazioni durante i Moti.

Un evento complesso

Siamo davanti a una vicenda che appassiona, che ci tiene incollati alle pagine e che non smette di sorprenderci, di inquietarci e di indignarci. Ma ciò che ci inquieta e ci indigna di più è il fatto che la Postfazione (Reggio e l’orrore della complessità) e la Cronologia che seguono sembrano ancora “più romanzesche del romanzo”, e sono invece lo specchio fedele della storia recente del nostro Paese, dove Stato e Antistato, Politica e Criminalità sono spesso andati sottobraccio. Reggio emerge dunque come una sorta di laboratorio del malaffare e della “strategia della tensione” che ha condizionato gran parte della fine del secolo scorso (e non solo). Scrive infatti Turano:

Dai Moti in poi nella vita di Reggio l’omicidio diventerà come le scosse di terremoto, un evento con il quale bisogna imparare a convivere, tra recrudescenze e fasi di tranquillità relativa. Il sistema creato durante la rivolta avrà grande fortuna, anche se tutto è perfettibile. Il do ut des fra Stato e Antistato, una contrapposizione che si usa per pura convenzione o per indorare la pillola di una realtà in cui questa antitesi non esiste, ha fatto bene a entrambi i contraenti consentendo una distorsione permanente della democrazia. Le vittime sono state e saranno i cittadini appassionati, quella quota di persone in buona fede che sembra necessaria come paravento dei processi di mistificazione politica (p. 385).

Eppure sarebbe sbagliato concepire qui Moti senza tener conto della specificità storico-sociale e perfino culturale della città dove scaturirono, che Turano conosce benissimo; dunque se prima ho parlato di “laboratorio” nazionale, l’autore ci ammonisce a ricordare che siamo comunque davanti a una sorta di unicum, perché:

Reggio non poteva essere esportata. Non erano ancora maturi i tempi per applicare pienamente il motto ’ndranghetista: il mondo si divide fra la Calabria e ciò che lo sarà (p. 364).

Ho aggiunto questa riflessione perché non è bene fare di tutta l’erba un fascio, e cercare semplificazioni in nome di quell’«orrore della complessità» di cui Turano parla e che ha condizionato l’opinione di molti contemporanei su quegli eventi. Eventi che si placarono per repressione, stanchezza, divisioni, ma anche in seguito alla promessa di finanziamenti risarcitori (il “pacchetto Colombo”) per le opere pubbliche e lo sviluppo industriale di tutta la Calabria, le quali suscitarono subito entusiasmi (legali e no…) non meno vivaci di quelli di chi aveva tirato molotov sulle barricate.

Chissà quale ruolo Luciano e Nunzio avranno avuto nel mondo durante quei successivi anni, cioè quelli della globalizzazione della ‘ndrangheta cui allude il motto testé citato. Difficile dirlo, ma a noi piace pensarli, comunque, uniti da un’amicizia che – pur se sporcata da fatti non certo edificanti – è l’unico spiraglio di speranza di questo libro; infatti così Nunzio si rivolgeva spesso al suo affezionato destinatario: «qaro Luciano, compare fino alla morte» (p. 19).

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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