Il modo in cui si ragiona sullo stato di salute della scuola, le forme e perfino lo stile con cui sono rappresentate le sue difficoltà, le fratture e gli episodi della sua storia individuati a caratterizzarla sono spesso una cartina di tornasole utile a capire le posizioni di chi lo fa e, anche, a comprendere le cause di alcune impasse che possono impedirci di tirare una linea e di procedere oltre.
A questo penso rileggendo un articolo uscito nei giorni scorsi su «Domani». Il pezzo, intitolato Una, nessuna e centomila. La crisi della scuola italiana viene dall’autonomia scolastica e firmato dalla storica Monica Galfrè, prende le mosse da un aneddoto fiorentino. In città, racconta l’autrice, laddove si trovava una scuola che negli anni Sessanta era frequentata da «tutti i figli del boom economico, fortunati o meno che fossero», ora si trova una scuola d’élite, «considerata, come si dice oggi, un’eccellenza, dove per chi ha problemi di rendimento o di disciplina la vita è assai difficile».
In un centro storico completamente gentrificato è difficile d’altronde immaginare una sorte diversa per quella didattica laboratoriale che, ieri come oggi, è stata possibile soprattutto in quelle città, in quei quartieri e in quegli ordini di scuola in cui erano meno insistenti le richieste delle élite cittadine, che non da oggi premono per avere scuole che preparano al livello scolastico successivo e a un percorso universitario che consenta la riproduzione dei propri privilegi di classe. È vero, poi, che esistono in Italia scuole “di serie A” e “di serie B”; tuttavia non mi verrebbe in mente di rappresentare questo fenomeno come recente, né tanto meno come frutto del declino di una scuola democratica che ha vissuto momenti migliori.
Come ha mostrato Gianluca Argentin nel suo aureo volumetto intitolato Nostra scuola quotidiana, cui torno regolarmente per cercare dati e riscontri su fenomeni e impressioni relative al sistema scolastico e alla sua evoluzione, è opportuno parlare di «persistenza delle disuguaglianze sociali e della loro riproduzione nel campo dell’istruzione» (p. 133), le cui ragioni sono da cercare in tre macro-meccanismi puntualmente descritti, che qui vale la pena sintetizzare.
Il primo è descritto da Argentin in termini di progressiva stratificazione verticale e orizzontale del sistema di istruzione, che man mano che ha accolto masse crescenti di studenti è cresciuto verso l’alto, allungando i percorsi (lauree magistrali, master, dottorati ecc.), e si è differenziato in ambiti disciplinari e indirizzi più o meno appetibili e con disuguali ritorni sociali e occupazionali («Ecco allora che le diseguaglianze si sono spostate dal partecipare o meno all’istruzione al partecipare ai livelli più alti della stessa o a indirizzi o ambiti disciplinari con ritorni sociali e occupazionali migliori», p. 134).
In secondo luogo, non si tiene abbastanza conto, spesso perché offuscati da un’ambigua e ideologica idea di “meritocrazia”, che attribuisce esclusivamente agli individui la responsabilità di fare del loro meglio con le risorse a disposizione, dell’impatto delle disuguaglianze sociali e familiari sui percorsi di istruzione.
Terzo, quei meccanismi discriminatori già illustrati all’indomani dalla riforma della scuola media unica dalla Scuola di Barbiana sono tutt’ora all’opera nella scuola italiana, sia pure in modo meno palese.
Rimandando al testo citato per dettagli, aggiungo che mentre sui motivi storici e sociali che hanno impedito allo Stato italiano di agire su questi macro-meccanismi per scardinarli o per attenuarne gli effetti negativi ci sarebbe molto da discutere, credo sia fondamentale ripartire proprio da qui per riprendere il cammino di democratizzazione della scuola, che non può assolutamente considerarsi concluso e che non possiamo permetterci di lasciare al caso.
Per questo penso che non sia una buona idea, come leggo nell’articolo di «Domani», alludere (senza portare evidenze) a una correlazione tra disomogeneità del sistema di istruzione, legge sull’autonomia scolastica (2000) e istituzione dell’Invalsi (1999), né tantomeno ritengo corretto mettere in secondo piano l’impatto sulla scuola degli ultimi vent’anni della mancata riforma dei cicli, che fu in effetti varata nel 2000 per poi venire abrogata e sostituita dalla riforma Moratti tre anni dopo.
Insistendo soprattutto sull’autonomia scolastica (per la quale si parla significativamente di una mancata elaborazione del lutto) senza tuttavia affrontare il nodo della sua applicazione incompleta e della sua sostanziale inefficacia, l’articolo – complice anche il o la titolista, che ha voluto mettere in evidenza una relazione causale tra autonomia scolastica e crisi della scuola – potrebbe essere rubricato nella schiera dei tanti che ogni settimana vengono dedicati al declino della scuola, da far risalire in questo caso a Berlinguer – e non sarebbe un pensiero così singolare – e in qualche misura anche a Benedetto Vertecchi, che ha contribuito in misura notevole alla creazione del servizio nazionale di valutazione, ritenuto oggi responsabile di “suggerire” un modello culturale, didattico e comportamentale a cui sembrano conformarsi, sempre nella percezione di Galfrè, le scuole autonome e i loro insegnanti.
Va detto che lo spazio ridotto di un articolo di giornale non aiuta a dipanare la complessità di questi temi, ma credo sia imprudente mettere da parte la questione della mancata riforma dei cicli sbandierando l’autonomia come punto di frattura che separa il Novecento dal nuovo secolo.
Al di là del valore simbolico che si può attribuire a quella norma, infatti, rimane il fatto che uno dei tratti distintivi del sistema scolastico italiano è ancora oggi la gestione centralizzata dei processi, la cui uniformità è appena scalfita dalla legge sull’autonomia, che non solo è rimasta a uno stadio embrionale, ma è stata in vario modo boicottata dalle successive iniziative di legislatori e governanti. Basti pensare, ad esempio, che l’edilizia scolastica è di competenza esclusiva degli enti locali, la cui disponibilità finanziaria dipende in grande misura dalle decisioni della maggioranza parlamentare, e che il personale fa capo al Ministero dell’Economia e delle Finanze e quindi alle Ragionerie territoriali dello Stato.
I margini di autonomia decisionale degli istituti scolastici, limitati a questioni didattiche e organizzative, hanno contribuito a una certa flessibilità nel perseguimento dei risultati, che si è tradotta – si rinvia ancora a Argentin, cap. 4, per un’analisi dettagliata del fenomeno – in una «elevata variabilità negli esiti di apprendimento degli studenti». Proprio grazie alle rilevazioni dell’Invalsi, integrate con le informazioni messe a disposizione dall’OCSE, è possibile rilevare un problema strutturale enorme, che non può essere descritto in termini di “declino” o di perdita delle competenze, quanto semmai di persistenza delle disuguaglianze e di segregazione sociale e di genere, che fa sì che i livelli più bassi di competenza siano concentrati nelle scuole di certi quartieri, nelle scuole di certe regioni e, soprattutto, in specifici ordini di scuola.
Tornando quindi alla questione delle scuole di serie A e di serie B, trovo più interessante mettere a confronto studenti del primo biennio di un liceo classico del centro storico di Firenze con studenti di un primo biennio di un istituto professionale, e a partire dall’analisi comparata di alcuni dati – voto in uscita dell’esame di Stato, consiglio orientativo, background socio-economico familiare, quartiere di residenza, livello di istruzione dei genitori, livello di literacy in lettura e di literacy matematica – per cominciare a ragionare su come funziona oggi l’obbligo scolastico in Italia.
Per questo insisto nell’attribuire un grande peso, oggi, proprio dal punto di vista storico, più che alla legge sull’autonomia a quella mancata riforma dei cicli, che di fatto avrebbe cambiato in modo assai più radicale l’impianto del sistema di istruzione: sette anni di ciclo primario o di base (dai 6 ai 13 anni) e cinque di ciclo secondario (dai 13 ai 18), con l’obbligo scolastico fissato a 15 anni, cioè al termine del secondo anno del ciclo secondario. Tutti gli istituti di istruzione secondaria di secondo grado avrebbero dovuto assumere la denominazione di licei, articolati nelle aree classico-umanistica, scientifica, tecnica e tecnologica, artistica e musicale. Come reagiremmo, oggi, di fronte a questa proposta, e quali effetti potremmo ottenere sulla segregazione e sulla riproduzione delle disuguaglianze? Saremmo in grado di realizzare dei bienni comuni che consentano di transitare da un’area all’altra, e non solo, come accade oggi, di “cadere” dai licei di serie A perché da essi respinti a quelli di serie B, dai licei ai tecnici o dai tecnici ai professionali? Potremmo immaginare una scuola che per i primi dieci anni tiene insieme studenti di diversa provenienza sociale e differente livello di competenze linguistiche, per poi consentire loro di distribuirsi in orizzontale sulla base delle rispettive scelte? La desideriamo, questa scuola, o preferiamo pensare che sia meglio continuare come abbiamo sempre fatto, sia pure in un mondo radicalmente diverso?
Io credo sarebbe proficua una discussione ampia e plurale su questa «mancata elaborazione del lutto» e sul diffuso giudizio negativo sul valore e sul senso dell’autonomia, che oggi intralcia una riflessione sulle cause profonde del mancato sfruttamento degli spazi decisionali – sia pur limitati – messi a disposizione dalla legge. Perché, viene da chiedersi, nonostante l’autonomia, le scuole continuano a pensare in termini prescrittivi ai programmi scolastici o a votare regolamenti interni che prescrivono forme di valutazione degli apprendimenti giudicate dagli stessi docenti inadeguate e vessatorie? E siamo sicuri che il potere statale non possa e non debba riconquistare terreno a partire dalle alleanze territoriali tra enti locali e scuole, come avviene da decenni in molte parti d’Italia, accettando una volta per tutte l’idea che la scuola non è uno strumento di omologazione o di asservimento a quello stesso potere o allo spirito nazionale, né tanto meno un’istituzione totale, ma un servizio pubblico territoriale di base, che per funzionare ha bisogno sempre e in ogni caso di un rapporto ineludibile con la comunità? Cosa possiamo fare oggi per completare il processo di decentramento e dare un’effettiva autonomia alle istituzioni scolastiche?
Continuare a pensare all’autonomia come un pericolo perché il punto di partenza dei diversi territori è disomogeneo e perché in certe comunità territoriali sarebbe più difficile realizzare una scuola democratica, fatta salva l’esigenza di garantire uguali risorse a tutto il territorio nazionale, significa negare che la scuola è sempre e comunque un contesto di relazione, inevitabilmente intrecciato al mondo esterno, soprattutto a quello a lui più prossimo, e che per realizzare qualsiasi cambiamento dal basso occorre avere fiducia nelle potenzialità degli individui e nella forza della cooperazione.
E se per me la legge sull’autonomia scolastica rimane emblematica più della resistenza al cambiamento che ha suscitato che di una reale frattura sistemica, da ricercatore impegnato a supportare il cambiamento del sistema di istruzione auspico uno sforzo sempre più mirato all’analisi dei problemi e all’individuazione di soluzioni che siano effettivamente alla portata dell’istituzione scolastica autonoma più che del singolo insegnante, e che coinvolgano sempre attivamente almeno la comunità studentesca e i decisori politici, senza la cui collaborazione – ieri come oggi, fin dalle origini della scuola democratica, nella Firenze di Codignola come nella Bologna di Ciari – rimane difficile non abbandonarsi alle sirene del rimpianto o del lamento.