L’Olocausto: una bussola dei diritti umani

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Creare un ponte tra il passato e il presente è il principale obbiettivo delle politiche della memoria promosse dalle istituzioni dell’Unione Europea. Un obbiettivo didattico non esente da problemi pedagogici e metodologici: cosa ricordare? E come farlo? L’articolo di apertura del dossier dell’ultimo numero de «La ricerca».
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Installazione allo Yad Vashem, il Memoriale della Shoah di Gerusalemme.

Per celebrare il 55º anniversario della liberazione di Auschwitz, dal 26 al 28 gennaio 2000 si è tenuto a Stoccolma un Forum internazionale sull’Olocausto. In quella occasione storici, sopravvissuti, politici e capi di Stato di 45 Paesi hanno sottoscritto una solenne dichiarazione assumendosi l’impegno a sostenere l’educazione all’Olocausto, preservare e mantenerne il ricordo, promuovere l’apertura degli archivi e istituire in ogni Paese la giornata della memoria. Per concretizzare tali obiettivi è stato istituito un gruppo di lavoro (IHRA’s Education Working Group) composto da pedagogisti ed educatori esperti che hanno cercato di rispondere a tre quesiti: perché insegnare l’Olocausto? cosa insegnare sull’Olocausto? come insegnare l’Olocausto? Sono domande fondamentali e non prevedono risposte ovvie.

Perché insegnare l’Olocausto

La dichiarazione di Stoccolma segna una tappa nuova rispetto agli ultimi decenni del secolo scorso, nei quali dominava l’idea che la Shoah abbia rappresentato un caso unico, una frattura singolare e probabilmente irripetibile nella storia della civiltà, tale da non poter essere confrontato con gli altri genocidi che hanno caratterizzato il secolo scorso e che rischiano di segnare anche il nostro. Il superamento di questo paradigma dell’unicità ha trasformato profondamente l’insegnamento: appare assodato oramai che la scuola non debba limitarsi a trasmettere approfondite conoscenze su questo “genocidio prototipico”, ma debba utilizzare il suo studio per prevenire l’antisemitismo, sensibilizzare alla violenza tra gruppi e comprendere meglio le conseguenze del pregiudizio e della discriminazione. Si vorrebbe che dall’approfondimento di questa tragedia gli studenti ricavassero una speciale vaccinazione contro la violenza politica.

Cosa insegnare dell’Olocausto?

Se queste sono le intenzioni, qual è la realtà? Per scoprirlo pubblichiamo a p. 43 l’estratto di uno studio (The International studies of Education about the Holocaust) condotto dal Georg Eckert Institute, la meritoria istituzione tedesca che svolge ricerche e confronti sui manuali scolatici di tutto il mondo, spesso per conto dell’Unesco. I risultati sono poco incoraggianti. Risulta infatti che quasi tutti i Paesi addomesticano l’Olocausto, interpretandolo e spiegandolo alla luce delle esigenze politiche e delle tradizioni storiografiche locali, smentendo così nei fatti l’idea che esista una cultura cosmopolita della memoria, ossia una “grammatica comune” dell’Olocausto.

I Paesi in cui lo studio dell’Olocausto è espressamente finalizzato ad approfondire argomenti più generali legati ai diritti umani, come suggerisce la Dichiarazione di Stoccolma, sono pochi: Argentina, Belize, Colombia, Ecuador, Messico, lo Stato del Maryland negli Stati Uniti e tre provincie canadesi (Alberta, Nuova Scozia e L’isola del Principe Edoardo). Vi sono Paesi che affrontano il tema della Seconda guerra mondiale senza accennare all’Olocausto (Algeria, Bhutan, India e Giappone) e altri che non trattano né l’Olocausto né la Seconda guerra mondiale (Bahrain, Dominica e Nepal). Nella maggior parte degli Stati europei (ma anche in Nord America, Etiopia, Namibia, Sud Africa, Cile, Trinidad e Tobago) si studia l’Olocausto come un fenomeno storico a sé stante, senza ulteriori approfondimenti sul piano etico, ma fanno eccezione la Moldavia, l’Ucraina, la Norvegia e la Slovenia, in cui alla Shoah si accenna solo indirettamente, e dell’Islanda, dove non se ne parla affatto.

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Il Memoriale della Shoah di Berlino.

Come insegnare l’Olocausto?

Lo stesso studio analizza come, nei Paesi in cui è oggetto di insegnamento, l’Olocausto viene narrato all’interno dei libri di testo di scuola secondaria.

Dal confronto fra 26 Paesi emergono analogie non sempre positive, come la tendenza a spiegare e a rappresentare iconograficamente le cause dell’evento in termini hitler-centrici (ossia come mero risultato della volontà di Hitler) o a utilizzare fotografie, documenti e tecniche narrative focalizzate più sui carnefici che sulle vittime.

Il problema delle emozioni

L’uso delle immagini e dei documenti pone il problema della componente emotiva dell’educazione dell’Olocausto. Poiché i giovani hanno difficoltà a rapportarsi con la storia se questa viene presentata in termini puramente statistici, agli insegnanti è lasciato il difficile compito di trovare i metodi giusti per coinvolgerli. D’altra parte anche i rituali istituzionalizzati della memoria hanno perso la forza iniziale e vi è chi pensa (Recchia, Luciani, Vercelli, Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2016) che la sovraesposizione mediatica dell’argomento abbia generato una saturazione dell’interesse degli studenti.

Da tempo, dunque, si è fatta sempre più forte l’esigenza di trattare l’Olocausto in chiave interdisciplinare e attraverso materiali didattici non solo testuali e trasmissivi, ma forieri di un apprendimento attivo.

Pubblichiamo un articolo (I problemi psicologici nel trattare l’Olocausto) che riflette criticamente sulla natura estremamente delicata di questa impresa, ricordandoci che molti studenti, se sovraccaricati di emozioni, possono sviluppare reazioni di difesa e sentimenti negativi che si traducono in riluttanza ad approfondire l’argomento, diffidenza verso le fonti di informazioni ufficiali (teorie cospirazioniste e negazioniste) e, nei casi più estremi, perfino posizioni antisemite (antisemitismo secondario).

È su queste basi che la letteratura sulla didattica dell’Olocausto mette in guardia dall’usare in classe strumenti formativi come la scrittura creativa o il role-playing (giochi di ruolo in cui i partecipanti sono chiamati a interpretare il ruolo di carnefici, vittime o spettatori). Oltre a essere emotivamente scioccanti, essi tendono a mettere in scena una visione dicotomica rigida e sovra-semplificata dei ruoli e delle responsabilità dei protagonisti del genocidio.

Allo stesso modo, un ricorso eccessivo a film o a fotografie che mostrino tumuli di corpi o scene particolarmente violente per suscitare l’interesse degli studenti è vivacemente sconsigliato.

L’importanza dei luoghi

Rispetto a questi problemi, negli ultimi anni i musei e i luoghi della memoria europei hanno svolto un ruolo importante e crescente. Basti pensare che ogni anno il museo di Auschwitz-Birkenau ha oltre 1,1 milioni di visitatori, la casa di Anna Frank quasi un milione, il Memoriale del campo di concentramento di Dachau 800.000, il Memoriale della Shoah in Francia circa 200.000 e altrettanti quello di Mathausen in Austria. Il 50% dei visitatori è di età inferiore a 18 anni, e la maggioranza partecipa a visite organizzate dalle scuole. Lo sforzo compiuto dalle istituzioni scolastiche per coinvolgere le nuove generazioni si è fatto con gli anni veramente imponente.

E se i risultati non sono quelli attesi il problema risiede forse nella qualità dei programmi e delle iniziative. Ci è sembrato quindi utile pubblicare un contributo della European Union Agency for Fundamental Rights, un’istituzione creata nel 2007 dall’Unione Europea per fornire consulenza indipendente in materia di diritti fondamentali. È una panoramica delle pratiche pedagogiche virtuose promosse da otto musei dell’Olocausto europei. I centri di ricerca e didattici a essi collegati si sono distinti per aver tradotto in pratica il principio per cui decodificare il passato deve servire ad acquisire una visione critica del presente: in tutti, l’Olocausto non è trattato come un evento metastorico ma come uno strumento per sollecitare il confronto e per analizzare le somiglianze e le differenze con gli altri genocidi e con le forme più attuali di xenofobia e di intolleranza.

La salienza pedagogica di questi musei risiede nella metodologia didattica impiegata. Fare dell’educazione all’Olocausto uno strumento interpretativo della contemporaneità, infatti, comporta anche diversi problemi di ordine filosofico e soprattutto metodologico. Sviluppando i loro programmi di educazione in collaborazione con i sopravvissuti e con le scuole, essi vantano ormai da anni programmi di studio attivi e personalizzati, capaci di generare empatia negli studenti attraverso storie personali, case-studies, testimonianze di sopravvissuti, documenti e materiale audiovisivo o di archivio, ma allo stesso tempo di canalizzare le loro emozioni in un percorso formativo basato sull’analisi e sulla comparazione storica, razionale e puntuale. 

Valga per tutti, anche se non è rivolto alle scuole, l’esempio della municipalità parigina, che conclude l’addestramento dei suoi agenti di polizia con un corso breve, ma ben documentato, sulle pesanti responsabilità della polizia parigina nella deportazione degli ebrei francesi.

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Francesca Nicola

Dottoressa in Antropologia all’Università Bicocca di Milano.

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