Che la pedagogia interculturale sia il modello più adatto a gestire l’inserimento di bambini stranieri nelle scuole italiane, ancora eurocentriche e ben lontane da una reale integrazione degli alunni provenienti da altre comunità, è oggi un’idea molto diffusa e probabilmente egemone fra gli educatori italiani. Conosciuta nel mondo anglosassone come multicultural education, l’educazione interculturale mira a inserire nel curricolo elementi provenienti dalle culture d’origine, al fine di valorizzare e utilizzare le risorse di cui gli immigrati sono portatori. È dunque animata da un intento antirazzista, che in genere si esplicita nell’insegnare agli studenti che il concetto di razza non esiste in quanto categoria scientifica e materiale, fondata cioè su una differenza biologica; esiste solo una costruzione culturale, un’invenzione storicamente utilizzata dalle ideologie politiche razziste per stabilire differenze naturali laddove non esistono affatto.
In questo Dossier vogliamo dare voce a una posizione più radicale, nota negli Stati Uniti come Critical Race Theory (CRT), per la quale affermare che il razzismo non ha alcuna validità scientifica non rende questo atteggiamento meno dannoso, e neppure ne elimina la persistenza implicita in ampi strati della società, comprese le istituzioni scolastiche.
È il primo articolo, Quando la razza conta, a fornire questa contestualizzazione. Affondando le radici delle proprie rivendicazioni nella storia del movimento per i diritti civili e nella lotta dei neri per l’emancipazione, la Teoria Critica della Razza nasce come movimento di studiosi di colore impegnati nel rileggere il diritto americano a partire da una prospettiva razziale, considerata essenziale per la comprensione della realtà giuridica. Inizialmente applicata all’ambito giuridico e alle politiche pubbliche, la CRT è diventata nel tempo una lente teorica particolarmente efficace per leggere le dinamiche ancora fortemente segregazioniste della scuola americana.
Contro il daltonismo razziale
Comunque non è diffuso solo negli Stati Uniti l’atteggiamento che gli studiosi critici della razza rimproverano al multiculturalismo: essi, infatti, sono critici anche nei confronti della retorica della color blindness (cecità verso la razza, o daltonismo razziale), ovvero il principio di indifferenza verso il colore della pelle e quindi verso l’origine etnica dei cittadini/studenti, oggi assunto come valore guida da molti educatori. Da una parte, essi riconoscono che ci sono buone ragioni perché ciò accada: sottolineando l’irrilevanza giuridica dell’appartenenza razziale, la color blindness rifiuta la supremazia normativa bianca, cioè il sistema formale di dominio basato sull’esplicita pretesa che i neri siano inferiori ai bianchi. Per questo, in campo educativo la neutralità nei confronti della differenza razziale è percepita come un’opzione garantista, capace di evitare, almeno dal punto di vista formale, le forme di discriminazione più evidenti.
D’altra parte, però, questi studiosi sottolineano gli effetti distorcenti e perniciosi cui giunge la cecità verso il colore.
Li documenta l’articolo di Janet Ward Schofield, Gli effetti della prospettiva daltonica a scuola (un classico della letteratura sul daltonismo razziale in campo educativo) sulle relazioni umane alla Wexler Middle School, un istituto creato con l’intento di fornire un modello esemplare di convivenza multiculturale. Pur non essendovi tensioni evidenti, si verifica l’incapacità di questo approccio di far fronte al reale vissuto degli studenti, per i quali lo status razziale è spesso un problema vero, soprattutto ovviamente per quelli di colore o appartenenti a minoranze. Per loro, la Color Blindness equivale a una forma di negazionismo che, mantenendo immutato lo status quo, si tramuta in definitiva nella riconferma di una egemonia bianca. Senza contare, poi, che essa permette ai professori di evitare discussioni difficili, sino a giungere in casi estremi a una vera e propria autocensura educativa: esemplare il caso di quel professore che, per non urtare la sensibilità della classe, spiega la storia romana senza accennare all’esistenza della schiavitù.
L’importanza di evitare le micro-aggressioni
Nonostante la proliferazione delle pedagogie ispirate alla Critical Race Theory, la questione di come e in che misura utilizzare il concetto di razza a scuola rimane negli Stati Uniti al centro di un dibattito animato.
Spesso si ha la sensazione che la discussione sia intrappolata in un’impasse: pare che sia il tacerne sia il parlarne possano alimentare dinamiche discriminatorie. Se per un verso non nominando la razza si finisce per nascondere le cause profonde delle vecchie e nuove forme di razzismo di fatto presenti, dall’altra il parlarne apertamente può apparire a volte irragionevole, rischioso o irrispettoso.
Lo sanno bene alla University of California, uno dei fiori all’occhiello del sistema di educazione superiore del Paese, che ha messo a punto una serie di regole per studenti, impiegati e professori volte a limitare l’utilizzo di «frasi razziste o sessiste» per «migliorare la convivenza nei campus» fra le quali sono comprese domande come “Da dove vieni? e “Dove sei nato/a?”. È la logica del politicamente corretto, ormai predominante in tutti i campus americani e inglesi, al cui centro vi è il tentativo di combattere quelle che i regolamenti universitari definiscono “micro-aggressioni”, un termine coniato negli anni Settanta dallo psicologo Chester M. Pierce a indicare tutte le frasi, espressioni e comportamenti che posseggono, anche solo potenzialmente, un significato svalutativo verso gruppi di persone definiti dall’etnia, dall’orientamento sessuale, religioso o culturale.
Intrappolati fra l’ansia dilagante del politicamente corretto, che impone l’utilizzo di un linguaggio neutrale e daltonico, e le suggestioni della pedagogia più innovativa, che al contrario suggeriscono di affrontare esplicitamente il tema, gli insegnanti americani vivono con crescente disagio e apprensione la questione dell’appartenenza razziale dei loro studenti.
Lo conferma l’ultimo articolo di questo dossier, Il disagio nel parlare di razza e razzismo: un estratto da un manuale di buone pratiche messo a disposizione dei docenti per gestire le tempeste emotive che il tema della razza può suscitare e scongiurare il rischio di ferire o offendere gli studenti.