L’esperienza filosofica e umana di Antonio Banfi

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A sessant’anni dalla morte, un profilo del filosofo vimercatese, libero pensatore, innovatore culturale, uomo della Resistenza antifascista e maestro autentico. 
Antonio Banfi (ultimo a destra) con i suoi allievi nel 1935. In alto da sinistra: Vittorio Sereni, Antonia Pozzi, Remo Cantoni, Alberto Mondadori ed Enzo Paci. In basso da sinistra: Ottavia Abate, Elisa Buzzoni e Clelia Abate. Da Artconsulting.net.

22 luglio 1957
«Oggi è morto Banfi. Mi hanno telefonato all’improvviso. Ho trovato nella clinica gli altri amici. Pensavo a tutti noi – a tutti noi di fronte a questa morte. Sarà difficile rendersene conto. Tutta la sua opera, da ora, cambia significato e sento che esige una nuova valutazione. In questi ultimi mesi ho parlato spesso con lui. Viveva come se non fosse malato. E non si poteva parlargli del suo male. Gli ultimi autori che nominava: Galileo, Husserl, Simmel. E tutto questo risolto nel suo comunismo. Col suo atteggiamento ha voluto dire, fino alla fine: la vita è più importante della morte (Husserl: Ohne Leben, kein Tod)»1.
Con queste toccanti parole Enzo Paci nel suo Diario fenomenologico ricordava l’amico e maestro.
Paci e gli altri amici, cioè quella che Fulvio Papi chiamerà la “Scuola di Milano”, proseguiranno secondo linee articolate e diversificate l’opera già intrapresa sotto la guida di Antonio Banfi, contribuendo in modo determinante al rinnovamento della cultura italiana del secondo dopoguerra.
Le radici di questa nuova fase della cultura – non solo filosofica – italiana si trovano, oltre che naturalmente nel valore delle individualità coinvolte, nella vicenda e nell’opera banfiana.

Gli anni Venti: l’inizio di un’originale prospettiva filosofica
A partire dagli anni Venti il filosofo vimercatese aveva intrapreso la costruzione di un’originale prospettiva filosofica, maturata, dopo gli studi compiuti sotto la guida di Piero Martinettl, nel breve ma intenso e fecondo soggiorno in Germania, nel quale appunto conobbe e frequentò Georg Simmel ed Edmund Husserl.

Tale prospettiva, che assumerà in seguito il nome di “Razionalismo critico” si delinea già nel 1926, nel fondamentale Principi di una teoria della ragione, come una sistematica apertura del sapere nella quale, come afferma l’autore nel breve saggio autobiografico La mia esperienza filosofica, «rintracciare sotto il confuso procedere della ricerca filosofica una struttura metodica che ne garantisse la libertà. Del pensiero umano nella sua storia nulla doveva andar perduto, fuor del suo limite e della sua astrattezza».

Il processo di individuazione e costruzione di questa struttura metodica è insieme dialettico e fenomenologico. Banfi realizza infatti una originale sintesi, di ascendenza neokantiana, tra il modello hegeliano di dialettica e quello kantiano: dal primo trae la validità e costruttività del processo, dal secondo la sua struttura antinomica ed aperta, evitandone la chiusura dogmatica nello schema triadico.

Il sapere, le forme della cultura le scienze e la storia della filosofia si presentano così come un universale processo di risoluzione razionale dell’esperienza e della vita, nel quale, con evidente richiamo alla concezione di Simmel ed Husserl, «La filosofia è filosofia della vita, ma nel senso che la vita non è vita – non ha la propria unità – se non nel sistema dell’autonomia trascendentale della ragione, o, in altre parole, se non in quanto è più che vita o processo di relatività che trascende se stessa, come libertà, nell’idea”.

Scienza e filosofia “considerate nel loro principio, sono forme, le due forme essenziali, della risoluzione razionale teoretica dell’esperienza, ciascuna delle quali, universale per natura, ha trovato in campi diversi e in diversi aspetti la propria attualità, ha realizzato i suoi principi e i suoi metodi». (Principi di una teoria della ragione)

Gli anni Trenta: tra razionalismo critico e censura fascista
Su queste basi teoriche iniziò a delinearsi, negli anni Trenta, il razionalismo critico e a raccogliersi attorno a Banfi, presso la Facoltà di Lettere Filosofia dell’Università Statale di Milano, che egli aveva contribuito a far sorgere, un consistente gruppo di allievi attivi in molteplici campi del sapere, dall’estetica alla pedagogia. Ma proprio negli stessi anni iniziarono a manifestarsi, nei confronti della Scuola di Milano, ostacoli e difficoltà legate agli sviluppi del regime fascista e della situazione del dibattito filosofico italiano.

Già nel 1926 al VI congresso della Società Filosofica Italiana, Piero Martinetti aveva subito un duro attacco da parte di esponenti della cultura filosofica fascista e cattolica, che causò l’interruzione del convegno e la sospensione delle attività della società filosofica, ma, soprattutto, nel 1931, il coraggioso rifiuto di giurare fedeltà al fascismo aveva portato all’allontanamento di Martinetti dall’insegnamento. Banfi gli era appunto subentrato, ma doveva essere una specie di sorvegliato speciale.

Inoltre, proprio a partire dal 1931, sulla rivista “La Critica” di Benedetto Croce iniziarono a comparire articoli e recensioni ostili nei confronti della fenomenologia, che si aggiungevano alla condanna della psicanalisi, della sociologia, della teoria della relatività, della logica formale matematica, che Croce chiamava “logistica”.

Tutto ciò non fu irrilevante se, come osserva Eugenio Garin in uno dei più importanti saggi sulla cultura italiana dell’epoca, «all’egemonia politica del fascismo non si può non far corrispondere, nel Ventennio, l’egemonia culturale crociana, alla quale variamente sono da connettere anche non pochi degli ‘attualisti’ o meglio degli ‘intellettuali’ operanti intorno al Gentile» (La cultura italiana tra ‘800 e ‘900).

Gli anni Trenta videro quindi Banfi dedicarsi soprattutto allo studio, tra l’altro anche di Galileo, e all’insegnamento universitario, che riguardò anche un importante corso su Nietzsche del 1934 pubblicato negli anni Ottanta, fino alla pubblicazione, nel decennio successivo, della rivista “Studi Filosofici”, poi sospesa in seguito all’intervento censorio del regime fascista.

Ma nel 1941 Banfi si era segretamente avvicinato al Partito Comunista e dal 1943 iniziò la partecipazione attiva alla Resistenza, con la fondazione, insieme a Eugenio Curiel, del Fronte della Gioventù e la conseguente attività clandestina.

Il Dopoguerra: una rilettura critica del marxismo
La riconquistata libertà di espressione consentì a Banfi di esplicitare ne L’uomo copernicano e in quelli che poi verranno pubblicati come Saggi sul marxismo una rilettura critica del marxismo che costituì il coronamento del suo percorso intellettuale

L’approdo banfiano al materialismo storico e dialettico, che intendeva porsi in continuità con il razionalismo critico, conservando l’impianto fenomenologico e le caratteristiche di sistema aperto, avvenne nel momento in cui era in corso una adesione massiccia al marxismo da parte di intellettuali provenienti dai più diversi orientamenti ed era in atto una ridefinizione complessiva di quella che Gramsci chiamava “filosofia della praxis”, sulla base di un ampio dibattito che coinvolgeva diverse riviste: e proprio in quegli anni avvenne la pubblicazione, a partire dal 1947, a cura di Togliatti, proprio dei Quaderni del carcere gramsciani.

In questo quadro, nel quale prevalsero gli orientamenti storicistici o comunque vicini alla ortodossia marxista, non dovette trovare molto spazio la prospettiva indicata da Banfi e da alcuni altri esponenti della Scuola di Milano, tra i quali si può annoverare Elio Vittorini al cui «Politecnico», progettato nel 1944 in riunioni clandestine a casa di Banfi, contribuirono Remo Cantoni e Giulio Preti.

La vicenda de «Il Politecnico» si concluse dopo solo tre anni, dopo aver provocato l’aspro contrasto tra Vittorini e il PCI, e anche Praxis ed empirismo di Giulio Preti fu accolto con ostilità dalla gran parte degli intellettuali comunisti: ma con questo testo di Preti siamo già nel 1957 e dunque alla conclusione della vita di Banfi, il cui ultimo scritto, Prassi e teoresi come antinomia dell’esistenza personale, rimasto incompiuto, risentiva, forse, in modo molto mediato e caratteristicamente rielaborato in linguaggio speculativo, dei drammatici fatti d’Ungheria.

Banfi, un Maestro alla ricerca della realtà
Per un insegnante, oggi, è straordinario osservare come Banfi abbia saputo circondarsi di allievi e collaboratori, ad ognuno dei quali trasmettere il valore dell’apertura verso le forme più elevate e consapevoli di elaborazione culturale, realizzando praticamente quella sistematicità aperta e critica che costituisce anche il nucleo teorico fondamentale del suo pensiero; un pensiero costantemente orientato, come recita il titolo dell’ultima importante raccolta di suoi saggi da lui stesso progettata e realizzata dai suoi discepoli, alla Ricerca della realtà.

Note
1. Devo la segnalazione di questo passo del Diario fenomenologico di Paci alla collega del Liceo “Banfi” Ornella Ponzellini, che ringrazio, unitamente alle colleghe Antonella Cattaneo e Claudia De Salvo, organizzatrici della conferenza su Antonio Banfi tenutasi presso il nostro liceo il 20 maggio 2017, di cui queste note sono in qualche modo una rielaborazione. Un ringraziamento, infine, al collega Mauro Reali, che mi ha cortesemente invitato a redigere su questa rivista il presente modesto contributo.

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Franco Sirio

È docente di Storia e Filosofia presso il Liceo “Antonio Banfi” di Vimercate (MB) – Scuola Amica de «La ricerca».

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