Knight of Cups

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Terrence Malik ha sempre diviso pubblico e critica senza possibilità di mediazione. È un autore estremo, interprete spietato e poetico dell’esistenza, raccontata attraverso un talento visivo fuori dal comune. La sua formazione filosofica lo spinge a esplorare l’animo umano in modo profondo e coraggioso, senza fermarsi alle convenzioni e addentrandosi in profondità nelle zone d’ombra, alla ricerca di un rapporto sincero con l’esperienza della vita.

La sua carriera è segnata da poche opere e da lunghi periodi di silenzio, come se avesse bisogno di un lavoro d’elaborazione e di sedimentazione lenta prima di cominciare a girare. I suoi tempi non sono certo quelli dell’industria hollywoodiana dell’intrattenimento, ma piuttosto quelli di un’artista che racconta solo quando ha qualcosa da dire e si sente pronto per farlo.

Malik si mette subito in luce con il lungometraggio d’esordio, La rabbia giovane (1973), ma il grande successo, suggellato dalla Palma d’Oro al Festival di Cannes, arriva con I giorni del cielo (1978) e con La sottile linea rossa (1998), forse il suo film più bello, che vince l’Orso d’Oro a Berlino. Bisognerà poi attendere fino al 2006 per vedere The New World, il 2011 per The Tree of Life e il 2013 per To the Wonder. Nel corso degli ultimi decenni la sua poetica si è fatta sempre più personale, lontana dai canoni espressivi del mainstream cinematografico. Le sue opere si muovono in un ambito di ricerca, che spazia tra filosofia, arti visive e desiderio d’arrivare all’essenza della vita. Solo così si spiega l’approdo a Knight of Cups, uscito da poco nelle sale italiane. Un film insolito, che ci conduce fuori dai territori consueti del cinema per farci entrare in un universo espressivo intenso e straniante.

Rick è un uomo smarrito, sospeso, che attraversa la vita alla continua ricerca di un senso, che gli sfugge senza lasciare traccia, come nel moto perpetuo di un’onda che cancella la precedente. Non è un caso che sia uno sceneggiatore in crisi, il protagonista: un costruttore di storie ormai in frantumi, in una sequenza rallentata, interrotta, che si rigenera in modo metalinguistico nel film. La sua pallida esistenza è immersa in un mondo sfuocato e lontano, che ogni tanto lo sfiora come un asteroide vagante, avvicinandosi alla sua stanca orbita esistenziale senza entrarne mai in collisione. Nel suo spaesato errare lo vediamo attraversare con algida distanza feste glamour con donne bellissime, mentre ricordi di vita familiare e di amori malinconici affiorano disturbanti e muti a lacerare la sua solitudine.

Terrence Malik si spinge oltre i limiti consueti della visione e della rappresentazione, sconfinando liberamente. Il suo cinema si fa sempre più rarefatto, intimo, quasi autoreferenziale. Il rifiuto della sintassi narrativa diventa estremo. Più che filmare gli accadimenti, la macchina da presa sembra soffermarsi a contemplare il tempo e lo spazio che stanno tra le cose, tra le persone. I personaggi si muovono in una realtà che scivola tra le loro vite assenti, quasi si trattasse di un universo parallelo compresente solo nella finzione. Un mondo straniante, fluido e intangibile. Lo sguardo si perde smarrito in uno spazio senza coordinate, volutamente dimenticate, per non avere e non dare alcun riferimento. Attimi di vita, sensazioni, percezioni, presentimenti, si mescolano in un flusso interrotto, alla disperata ricerca di un senso occulto e misterioso. Il fuori campo dell’esistenza e dell’inquadratura prende il sopravvento. I margini si dilatano verso spazi altri, che aprono a nuove e infinite visioni. Metafora di un rapporto irrisolto tra vita e il cinema, di una messa in scena che vira verso il non rappresentabile, il non detto. Lo sguardo si addentra in ambigue suggestioni visive, diafane e cangianti. Lo sconfinamento diventa paradigma espressivo, l’altrove il luogo eletto, il tempo sciolto della Persistenza della memoria di Dalì, avvolge liquido ogni cosa.
Siamo all’interno di un mondo complesso ed enigmatico, che ci chiede di abbandonare ogni consuetudine visiva, ogni abitudine narrativa, ogni radicamento con la realtà tangibile. Forse il mistero della vita è semplicemente nella carta dei tarocchi del cavaliere di coppe, come se in quest’assurdo gioco fossimo seduti a un tavolo a sfidare il destino in compagnia di Jodorowsky.

Knight of Cups
Regia: Terrence Malick
Con: Christian Bale, Cate Blanchett, Natalie Portman, Brian Dennehy, Antonio Banderas, Wes Bentley, Freida Pinto, Isabel Lucas, Teresa Palmer
Durata: 118 min.
Produzione: USA 2013

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Alessio Turazza

Consulente nel settore cinema e home entertainment, collabora con diverse aziende del settore. Ha lavorato come marketing manager editoriale per Arnoldo Mondadori Editore, Medusa Film e Warner Bros.

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