Jonas Burgert, «Lötsucht», al MAMbo

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Ha inaugurato lo scorso 25 gennaio al MAMbo di Bologna, e proseguirà fino al 17 aprile 2017, la mostra «Lotsucht/Scandagliodipendenza» dell’artista berlinese Jonas Burgert, a cura di Laura Carlini Fanfogna.

Nato nel 1969 Burgert ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Berlino e ha cominciato a esporre i propri quadri in mostre collettive e personali, in patria e all’estero, dalla fine degli anni ’90; a quarantesette anni Burgert è un artista affermato, le cui opere vengono presentate e collezionate su scala internazionale. Pittore a olio su tela, pittore che predilige le dimensioni monumentali, con quadri di svariati metri di altezza e lunghezza, Burgert concentra tutta la propria energia creativa su una manualità del gesto artistico assente in gran parte della produzione di arte contemporanea mainstream. Le sue opere hanno la ricchezza di pigmento e la faticosa elaborazione della pittura a olio su grande scala, ma hanno anche la consapevolezza della tradizione storica della pittura a olio europea: è la figura umana, o animale, calata entro uno spazio estremamente costruito, per quanto centrifugo, l’oggetto privilegiato.

Ma quale umanità dipinge Burgert? Figure in abiti carnevaleschi o fantasmatici, zombie, creature metamorfiche il cui volto appare zebrato, o a scacchi, le cui estremità, mani e piedi, sono sanguinanti o tinte di un colore – verde acido o giallo fosforescente – che le fa pensare radioattive: amazzoni, saltimbanchi, mutilati, inquietanti vestali, licantropi, animali transgenici, segmenti di DNA, stralci decorativi popolano le grandi tele con un surplus visivo e cromatico che le rende molto attraenti e al tempo stesso faticose all’occhio.

Bisogna guardarli e riguardarli, i quadri di Burgert, per capire cosa contengono, quante cose animate e inanimate, vive o mezze morte ci siano dentro, intassellate in scale, navi, relitti di case, interni asfissianti e fantastici dove la buona carta da parati delle stanze borghesi diventa anche la stoffa dei corpi, i trofei appesi alle pareti sono teste o braccia umane, i pavimenti sprofondano e il colore dilaga come un’edera tenace e proteiforme. La sapienza compositiva di Burgert è infatti coloristica prima che strutturale e formale, tant’è che davanti a più di un dipinto si ha la sensazione che si tratti di un’insieme di citazioni di pittura storica assemblate con gusto postmoderno: Albrecht Dürer, ma soprattutto Hieronymus Bosch e Pieter Bruegel, insieme agli stralunati manieristi italiani come Jacopo Pontormo o il Bronzino, costeggiando pericolosamente un effetto kitsch per la contaminazione o sovrapposizione con la cultura grafica del fumetto, dell’illustrazione e perfino dei manga.

  • xJonas Burgert. «Lotsucht / Scandagliodipendenza», MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna: veduta della mostra. Foto: Matteo Monti
  • xJonas Burgert, «Euchmeute / Brancoavoi», 2013, olio su tela. Collezione privata. Foto © Lepkowski Studios
  • xJonas Burgert, «Falle / Trappola», 2010, olio su tela. Collection Thuault-Lemogne. Foto © Lepkowski Studios
  • xJonas Burgert, «Gifter / Velenatore», 2009, olio su tela. Collezione privata, Basilea. Foto © Lepkowski Studios
  • xJonas Burgert, «Graufeld / Camprigio», 2003, grafite su carta. L’Artista. Foto © Lepkowski Studios
  • xJonas Burgert, «Hellwild / Selvaggina», 2013, olio su tela. Collezione Privata, Brescia. Foto © Lepkowski Studios
  • xJonas Burgert, «ihr Schön / suo Belmondo», 2016, olio su tela. L’Artista. Foto © Lepkowski Studios
  • xJonas Burgert, «immer / sempre», 2014, olio su tela. L’Artista. Foto © Lepkowski Studios
  • xJonas Burgert, «Leugne / Negalia», 2016, olio su tela. L’Artista. Foto © Lepkowski Studios
  • xJonas Burgert, «scheucht / scaccia», 2014, olio su tela. L’Artista. Foto © Lepkowski Studios
  • xJonas Burgert, «Stück Hirn / Pezzo di cervello», 2009, olio su tela, Olbricht Collection. Foto © Lepkowski Studios

Come domina Burgert questo mondo spaventoso, perturbante ed eccessivo, enciclopedico e magmatico? Questo carnevale grottesco che pare uscito da un incubo sotto effetto allucinogeno, dove nessuno comunica e tutti recitano la loro assurda parte? Lo domina con il colore. Il filo che tiene insieme e dà consistenza a una ricerca pittorica autentica, e non meramente elencativa o epigonale, è un uso idiosincratico e fortissimo del colore, che non lascia mai riposare l’occhio, lo cattura e lo dirige, gli fa da guida nei meandri di questi coacervi di figure che variano in scala e qualità anche all’interno della stessa tela.

L’effetto non per questo cessa di essere sovrabbondante e in qualche modo oppressivo, ma se da un lato si può richiamare il caos del mondo contemporaneo, saturo di informazioni e arido di conoscenza vera, saturo di immagini ma povero di sguardo, dall’altro c’è una dimensione onirica nella pittura di questo artista che spiega l’estremismo del suo immaginario: “Nella nostra mente creiamo esistenze come eroi, divinità o clown. Vivono vite fracassone, malvage, ciniche, spiritose e appassionate, in luoghi meravigliosamente strani o terribili. Nella mia arte cerco semplicemente di raffigurare la scena di questo processo continuo di conflitto e negoziazione, con tutte le sue caratteristiche”.

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Alessandra Sarchi

Ha studiato alla Scuola Normale Superiore di Pisa, laureandosi in storia dell’arte; ha poi svolto un dottorato di ricerca a Ca’ Foscari, Venezia. Ha lavorato alla Fondazione Federico Zeri di Bologna, occupandosi di catalogazione fotografica. Collabora con vari giornali e blog culturali. Con Einaudi Stile libero ha pubblicato due romanzi: «Violazione» (2012), «L’amore normale» (2014) e l’ultimo, «La notte ha la mia voce», uscito nel 2017.

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