D: Sul suo profilo Twitter lei si definisce, prima di tutto, un «cittadino europeo». Eppure, in tempi di euro-scetticismo, c’è chi sostiene che l’insegnamento dell’Unione europea non dovrebbe essere neppure presente a scuola. Cosa ne pensa?
R: Penso che insegnare l’Ue sia non solo giusto, ma doveroso. A condizione di non fare dell’Unione europea un insegnamento burocratico, noioso, che disamora gli studenti invece di appassionarli. Credo che serva, anzitutto, raccontare gli ultimi sessant’anni di storia.
La mia generazione – quella dei trenta-quarantenni – è cresciuta convinta che alcune cose appartenessero alla retorica dei nonni e dei genitori: la pace, la possibilità di muoversi liberamente o di studiare in un’altra città europea sentendosi a casa. Abbiamo dato tutto questo per scontato e ci stiamo invece accorgendo che scontato non lo era affatto. Ci sono Paesi come il Regno Unito che stanno andando maldestramente contro la storia. Altri Paesi che rischiano di costringerci a riviverla – quella parte di storia del Novecento che ci piace di meno – visto che stanno scivolando pericolosamente e potrebbero arrivare presto a rimettere in discussione alcuni cardini della democrazia liberale. E poi non c’è praticamente più nessun Paese in Europa in cui qualcuno non si alzi la mattina con l’idea di costruire un muro.
Ecco, l’antidoto migliore per evitare di ripetere gli errori del passato è sempre stato quello di conoscerli, questi errori. Solo che l’insegnamento della storia bisogna farlo non (solo) con l’ennesimo libro di testo, ma con modalità e format partecipati che siano in grado di ottenere l’attenzione dei ragazzi. Di impressionarli nel senso originale di afficĕre. E sapendo che l’insegnamento della storia non basta.
D: Cos’altro serve, allora?
R: Dobbiamo aiutare i ragazzi a diventare consapevoli delle opportunità di crescita che offre oggi essere cittadini europei. Per farlo, serve una scuola che consenta loro non solo di imparare nelle forme più tradizionali di trasmissione orale – attraverso l’insegnamento o il racconto – ma di fare esperienze fisiche. Ci sono mille progetti concreti, e diversi, che si possono sviluppare. Ma penso che una parola chiave attorno a cui far ruotare tutto sia mobilità.
Servono periodi da trascorrere in una scuola di un’altra città europea – meglio se di provincia –; serve fare in modo che gli scambi diventino la regola e non l’eccezione, soprattutto per i ragazzi con alle spalle famiglie con meno possibilità economiche; serve scommettere sulla quotidianità in un altro Paese europeo come strumento di emancipazione.
Posso provocare? Se crediamo nell’Europa e vogliamo rilanciarla, evitiamo di insegnare l’Unione europea costringendo i nostri studenti a ore di studio dei meccanismi complessi delle istituzioni comunitarie. Evitiamo di parlare di Bruxelles, e parliamo invece di cosa accade in Grecia, in Spagna, in Francia. Non ci sono scorciatoie: se vogliamo ritrovare un senso di appartenenza verticale, dobbiamo concentrarci su un grande lavoro di aggregazione orizzontale. Facendo venire ai nostri ragazzi di Lecce, Cagliari, Rieti o Cuneo la voglia di scoprire cosa stanno facendo i loro coetanei a Lione, Malaga, Amburgo o Bucarest. La voglia di crescere insieme a loro. Di connettersi. Di imparare gli uni dagli altri. E le istituzioni – nazionali ed europee – hanno il dovere di investire fino all’ultimo euro in questo.
D: Quali sono gli impegni più urgenti, i rischi maggiori da evitare e la direzione in cui procedere per un’educazione alla cittadinanza europea?
R: La cittadinanza europea è uno strumento potente. Ma dobbiamo riempirla di senso. Da quando è stata inventata – 25 anni fa con il Trattato di Maastricht – è rimasta una creatura fragile, che non è mai riuscita a creare un vero senso di appartenenza ad una comunità più vasta di quella nazionale. Al contrario, oggi rischiamo pericolose retromarce. Basta vedere ciò che sta accadendo ai continentali che si trovano nel Regno Unito. La cittadinanza europea può essere molto di più che non un titolo quasi onorifico. Molto di più che non il voto alle elezioni comunali in un Paese diverso da quello della propria nazionalità, o la protezione consolare fuori dall’Europa.
Oggi abbiamo la possibilità di trasformare la cittadinanza europea in un veicolo di opportunità, e l’istruzione può fare molto a riguardo. Perché conta imparare matematica, italiano o storia, ma conta altrettanto sviluppare quelle competenze trasversali che aiuteranno le generazioni più giovani a leggere le trasformazioni del mondo di domani; a diventare aperti, curiosi, capaci di sentirsi a proprio agio in contesti profondamente diversi dal loro specifico contesto di partenza.
Esiste anche un tema di inclusione scolastica, di lotta contro la dispersione e l’abbandono, di avversione a qualsiasi forma di discriminazione. Storicamente, gli Stati sono sempre stati gelosi in materia di istruzione. E invece mi pare sia proprio questo il nuovo campo dove ci giochiamo la possibilità di costruire nei prossimi anni società porose, che si nutrono di diversità. Sono convinto che l’emancipazione dei nostri ragazzi sarà in futuro sempre più correlata – in maniera inversamente proporzionale – all’isolamento della singola scuola che frequenteranno. Isolamento rispetto a reti di conoscenza e progettualità che dovranno diventare velocemente, e strutturalmente, reti europee.
D: Che ruolo devono avere gli insegnanti per la riuscita di tutto questo?
R: Le rivoluzioni del passato si sono fatte spesso contro i professori. Ma io credo che oggi non esista rivoluzione possibile senza di loro, senza la ricostruzione di un patto sociale tra famiglie e insegnanti che metta al centro i ragazzi. Perché oggi tutto cambia estremamente in fretta e sono loro che – con il loro lavoro quotidiano – alleveranno i cittadini di domani e decideranno quindi in che mondo vivremo tra 20 o 30 anni. La scommessa è fare in modo che si sentano sul palco, non in platea. Bisogna dare loro strumenti, e il primo strumento non può che essere la loro stessa formazione.
Contestualmente, bisogna dare loro risorse e liberarli da troppa burocrazia scolastica, perché possano portare avanti agilmente il loro progetto educativo. Certo, riducendo il rischio sempre presente di scuole che diventano progettifici, collezioni di cose piccole e poco stimolanti per gli studenti, che operano per comportamenti stagni e «riserve di caccia» invece che con l’ambizione di costruire piattaforme abilitanti dentro le scuole. Stimolando quindi i docenti a pensare in grande, in lungo, in rete. Bisogna fare in modo che lavorino in team, e sempre più in team diversi, non solo in quelli precostituiti a cui magari si sono abituati nel corso degli anni.
Il Paese ha un tremendo bisogno di migliaia di docenti che abbiano – loro per primi – fame di imparare e di migliorarsi. Chiunque di noi ha sempre moltissimo da imparare. Abbiamo bisogno di insegnanti che diventino spugne in grado di trovare e assorbire stimoli nuovi, di rielaborarli, di riproporli ai loro studenti. E qui, ancora una volta, la dimensione europea è fondamentale. Ogni docente, nel corso della sua carriera – e chiaramente prima questo avviene, meglio è – dovrebbe fare un’esperienza in una scuola di un altro Paese europeo: e dovrebbe farla adeguatamente formato prima della partenza, finanziariamente sostenuto (assieme ai figli che magari si trasferiscono per un anno a frequentare una classe diversa della stessa scuola) durante il periodo fuori Italia, e soprattutto messo nelle condizioni di restituire ciò che ha appreso una volta rientrato nella sua città di partenza. Quanto cresceremmo come sistema scolastico! Che balzo in avanti faremmo come Europa unita.