Intelligenza digitale: una nozione non innocente

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In Italia, oggi, il più convinto assertore del darsi di una «intelligenza digitale» sembra essere Paolo Ferri, a giudicare da quanto ha scritto e da quanto convintamente difende questa nozione.

In Italia, oggi, il più convinto assertore del darsi di una «intelligenza digitale» sembra essere Paolo Ferri, a giudicare da quanto ha scritto e da quanto convintamente difende questa nozione. Per semplicità e controllabilità mi attengo al testo pubblicato da Paolo Ferri on-line, Esiste un’intelligenza digitale e può essere dimostrato, ma il discorso si potrebbe estendere anche ad altri suoi scritti, come ad esempio Nativi digitali a cui al bisogno farò comunque riferimento.

cervL’impostazione retorica degli scritti di Paolo Ferri è, a prima vista, molto solida: presenta argomenti, cita fonti autorevoli, prospetta conseguenze impressionanti delle sue tesi di fondo. Vorrei provare a grattare la superficie e vedere cosa c’è sotto, limitandomi qui al tema dell’intelligenza digitale.

Con molta enfasi, Ferri sostiene che è in corso quella che egli chiama «una vera e propria “trasformazione antropologica”». In un altro passo, egli parla addirittura della trasformazione dell’homo sapiens sapiens nell’homo sapiens digitalis. Egli continua dicendo che tale trasformazione «sembra configurare l’emergenza di una nuova forma di intelligenza umana, l’intelligenza digitale, appunto». Qui il «sembra» pare più un vezzo che non una formula cautelativa usata per esigenze di rigore. Infatti, dal titolo dell’articolo (Esiste un’intelligenza digitale e può essere dimostrato) a tutto il testo, l’autore sostiene convintamente che l’intelligenza digitale esiste e può essere dimostrata. Quando però si va agli argomenti, non se ne trovano di convincenti, come mostrerò di seguito.

Nell’articolo citato non è chiarito cosa sia l’intelligenza digitale. Si dice solo quando essa «è all’opera». Stando alle parole dell’autore, essa è all’opera «quando clicchiamo su un link ipertestuale all’interno di una pagina Internet o facciamo seguire a Super Mario un percorso piuttosto che altro nel suo mondo virtuale». Dire quando qualcosa è presente però, non è dire cos’è. Per avere dunque una risposta chiarificatrice che consenta di capire davvero di cosa stiamo parlando, bisogna andare a Nativi digitali: «Nell’accezione in cui intendiamo il termine, esso identifica l’abilità cognitiva di utilizzare l’alternativa “sì/no”, “azione/inazione” all’interno del nuovo spazio digitale dello schermo che è diventato la tecnologia caratterizzante della trasmissione del sapere» (p. 75). Chiarito l’oggetto del discorso, vediamo gli argomenti che l’autore presenta.

Ferri evoca addirittura le neuroscienze facendo dire loro che esiste l’intelligenza digitale. Dovendo andare sullo specifico, egli cita un lavoro guidato da Geraint Rees (University College di Londra). In esso, scrive Ferri, si studia «l’effetto di Facebook sul cervello di 125 ragazzi “forti” utenti del social network di Zuckerberg». Un esame del cervello dei 125 avrebbe mostrato un aumento della materia grigia nell’amigdala (coinvolta nella memoria emozionale) dei giovani con il maggior numero di amici su Facebook, cioè conclude Ferri «un potenziamento dell’intelligenza emotiva». Il discorso di Ferri non sta in piedi. Il lavoro di Rees infatti mette solo in correlazione lo stato del cervello e la pratica di utilizzo di Facebook (d’ora in poi Fb): è un dato interessante, ma va trattato con cautela e consapevolezza di quanto sia circoscritto. Nell’ipotesi sottesa al discorso di Ferri l’utilizzo di Fb modifica il cervello. Una legittima lettura alternativa di quei dati porta a dire che, avendo una forte attitudine prosociale probabilmente radicata in una conformazione cerebrale più sviluppata nelle aree deputate alla socialità, i 125 usino molto Fb. Ciò, del resto, è prospettato come possibilità dallo stesso articolo che sulla questione egli cita. Insomma vi è nell’autore una possibile fallacia di non causa pro causa. Quel che è certo è che le conclusioni dell’autore sono del tutto congetturali e non dimostrative. Soprattutto, anche ammettendo (ma senza concedere) a Ferri la sua conclusione, pretendere di parlare per tutta l’umanità di «cambiamento antropologico»  – unicamente sulla base del fatto che 125, usando Fb, hanno sviluppato un po’ più di massa in certe zone del cervello – è spararla grossa. In ultima analisi da questo non segue affatto che si possa parla di intelligenza digitale come di un qualcosa di esistente. Uno studioso rigoroso dovrebbe procedere con cautela, parlare quando ha prove inconfutabili, non impegnarsi su tesi enormi, spacciandole per dimostrate, esibendo un pugno di congetture, per giunta desunte da studi di portata molto limitata. Ferri poi dovrà spiegarci perché ritiene che un aumento di materia celebrale in alcune zone sia ipso facto segno inequivocabile di intelligenza. Non è un dettaglio nella sua argomentazione, eppure non viene svolto come sarebbe opportuno.

Il secondo riferimento alle neuroscienze nel testo di Ferri riguarda la Jao Tong Medical School of Shanghai. Si sarebbe mostrata, riporta Ferri, in alcuni «forti utenti di Internet»: «una presenza anomala di materia bianca nelle zone in cui ha sede il controllo neuromotorio, l’attenzione, e le funzioni esecutive». L’autore riconosce che l’interpretazione di questo dato è controversa, nondimeno ne conclude che il «nostro cervello sta cambiando molto velocemente». A prescindere da altre considerazioni che si potrebbero fare (p.e. che il cambiamento locale nel cervello non giustifica la tesi di un cambiamento globale del cervello), il punto qui non è se il nostro cervello sta cambiando, ma se questi cambiamenti sono una prova dell’esistenza di una forma di intelligenza nuova. Si vede dunque che anche questo secondo argomento non è in grado di dimostrare la tesi che l’autore intende sostenere.

Ferri cita poi Patricia M. Greenfield, che su Science sostiene che nei soggetti che frequentano ambienti di apprendimento informali con televisione, videogiochi e Internet si osservano miglioramenti dell’intelligenza spazio-visuale (Ferri sbaglia però di riportare i numeri di pagina dell’articolo). Ciò però non prova certo che c’è una intelligenza digitale. Al massimo prova che l’intelligenza spazio-visuale è potenziata. Del resto, l’autrice non parla mai nell’articolo di intelligenza digitale. Stranamente poi Ferri si dimentica di riportare le considerazioni dell’autrice, la quale mette in guardia dall’aumento nei soggetti che giocano con certi videogiochi dell’aggressività e, in genere, dal darsi di una serie di debolezze frutto dell’apprendimento informale attraverso le tecnologie, quali ad esempio limiti nella capacità di riflettere, un limitato vocabolario astratto, limiti nel pensiero critico e nell’immaginazione. Tra le cose non dette e però riportate nell’articolo di Greenfield, il fatto che gli studenti che usano il portatile in classe fissano meno i contenuti presentati in classe. La ragione di tale «dimenticanza» da parte di Ferri appare però chiara, se si pensa che a dare conto anche di questi aspetti critici si rovinerebbe la retorica pro-digitale cara all’autore.

In seguito Ferri cita Antonio Battro, colui che ha lanciato, non senza importanti cautele, l’idea di intelligenza digitale. Nel libro di Battro, si legge infatti: «Non pretendiamo però, di aver stabilito in forma definitiva l’esistenza di un’intelligenza digitale. Per il momento è solo un’ipotesi, un modello che sottoponiamo alla prova» (Introduzione, in A.M. Battro, P.J. Denham, Verso un’intelligenza digitale). Ferri non ne tiene conto e pare usare l’autorevolezza di Battro per svolgere un argomento ex autoritate: Battro, sembra sostenere Ferri, che insegna al MIT ed è Chief Educational Officer del progetto OLPC, argomenta a favore dell’esistenza dell’intelligenza digitale, perciò l’intelligenza digitale è dimostrata dai neuroscienziati. Fatto sta che è fallace sostenere che qualcosa è vero perché argomentato da qualcuno che è autorevole. E, dopo tutto, il passo di Battro che Ferri cita a supporto della propria tesi non è affatto un argomento. Se infatti andiamo a leggere tale passo vediamo che in esso non si dimostra alcunché; esso si limita a una enunciazione della tesi, già più volte ripetuta da Ferri, che c’è l’intelligenza digitale, con l’aggiunta dell’osservazione che negli ultimi due decenni vi è una enorme crescita dell’«abilità digitale». Aggiunta che ovviamente, non costituisce un argomento, men che meno una dimostrazione.

Ferri riconosce nel suo articolo che fare click su dei link è un’attività molto elementare. Allora perché evocare addirittura l’esistenza di una «intelligenza» specifica e deputata a questa attività? La tesi di Ferri ottiene successo perché sembra spiegare la ragione per cui le nuove generazioni sono così brave con le apparecchiature digitali, diversamente dalle generazioni meno giovani. Purtroppo per Ferri, la sua fantasiosa supposizione dell’emergenza dell’homo sapiens digitalis, non è l’unica possibile soluzione esplicativa. Quanto a me, non credo che sia nemmeno la migliore. Le giovani generazioni, diversamente dalle altre, dispongono ad esempio del tempo per esplorare le tecnologie, non hanno altre preoccupazioni che assorbono risorse emotive e cognitive ed assorbono energie (responsabilità, impegni, etc.), non sono ostacolate dai pregiudizi che spesso imbrigliano la curiosità dei più maturi. Si tratta, mi pare, di una diversità di condizione, non di intelligenza. Ammettere che si tratta di una diversità di condizione aiuta poi a dare conto del fatto che capita che persone mature ottengano talvolta una maestria con gli strumenti digitali, come non avviene invece per molti di coloro che Ferri chiama nativi digitali (usando una nozione almeno altrettanto dubbia di quella di intelligenza digitale). Capisco però come la nozione di intelligenza digitale abbia ottenuto tanta attenzione: essa è suggestiva perché insinua che ciò che credevamo fosse molto simile a noi (i nostri figli e nipoti) in realtà è tremendamente diverso. Dopo le sue parole, ci guardiamo intorno e ci sentiamo circondati da alieni. Si sa, il sensazionalismo a buon mercato paga in termini di marketing.

L’intelligenza digitale, stando al testo di Ferri, si articolerebbe in intelligenza spaziale, multitasking, conoscenza per esplorazione e scoperta. Queste molteplici realtà (abilità, forme di attività, metodologie euristiche) sono effettivamente presenti nell’utilizzo delle tecnologie digitali. Ammetto che possono essere convenzionalmente definite con un’etichetta: intelligenza digitale (ma poi bisogna controllare che la definizione data all’inizio si concili davvero con questa declinazione complessa). Con le dovute cautele tipiche dell’elaborazione di una nuova nozione, non ci sarebbe però nulla di male, in linea di principio, e forse potrebbe essere pratico il fatto di utilizzarla. Si tratterebbe comunque di una mossa convenzionalistica e pragmatica. Quello che infastidisce nel procedere di Ferri è l’impianto retorico pretenziosamente fondante che si radica su una impegnativa tesi di esistenza, senza saperla adeguatamente sostenere. Tale procedimento svolge una funzione importante sul piano retorico in quanto rende più forte le conclusioni cui perviene Ferri in altri campi: siccome c’è l’intelligenza digitale, allora bisogna usare gli strumenti digitali per potenziarla. Ne seguono conclusioni normative circa la politica scolastica, l’edilizia scolastica, fino alla pedagogia e alla didattica. Insomma, la retorica di Ferri non è solo un modo scollacciato di vendere un prodotto culturale, piuttosto è un’operazione culturale gravida di conseguenze sociali, politiche ed economiche. Discutiamo pure sulle concrete opzioni sociali e di politica scolastica che Ferri prospetta e propone con forza, ma riconosciamo che esse non seguono da quelle premesse le quali sono un fuoco di paglia retorico.

P. s. Rispetto alla prima pubblicazione, questo testo è stato emendato da una svista ricorrente. Ringrazio Franco Castronovo per la segnalazione.

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