Insegnare l’editing #2

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Dopo la prima, ecco la seconda lezione di editoria: la differenza tra scrivere e pubblicare; che cosa hai letto?; il lavoro dell’editor: inventio, dispositio ed elocutio.

 

Scrivere vs pubblicare

Quando si propone a uno scrittore (o a una scrittrice: mi avvalgo per brevità del maschile sovraesteso, sapendo che la componente femminile, nel mondo editoriale, è la più numerosa) – quando si propone a uno scrittore l’affiancamento da parte di un editor, soprattutto se lo scrittore è poco esperto, o poco addentro ai meccanismi editoriali, spesso si innesca una reazione intimorita: come se l’editor avesse per statuto l’obiettivo di uniformare il testo a imprecisate “regole”, per renderlo più commerciale, meno originale, insomma privando l’autore di una parte della sua paternità.
Ora, che questo possa accadere è teoricamente possibile. La mia esperienza è però che il bravo editor non solo non attenua l’originalità dei testi su cui lavora, ma cerca di metterla in risalto, perché (al contrario di quanto spesso si sente ripetere) nessun libro privo di una forte personalità può sperare di farsi notare in mezzo a una produzione sovrabbondante come quella che viene proposta ai lettori italiani da molti anni in qua.

Vero è che un buon editor costringe l’autore a cambiare prospettiva (e questo, se non le giustifica, permette almeno di comprendere certe ritrosie): essendo il primo lettore dell’opera, infrange la bolla che si viene a creare fra l’autore e il suo testo nel momento della scrittura e sposta il discorso dal piano della produzione a quello della fruizione, mette al centro del discorso l’efficacia delle scelte dell’autore, costringe quest’ultimo a confrontarsi (spesso per la prima volta, perché i lettori-amici, spiace doverlo dire, ma non contano quasi nulla) con il fatto che scrivere può significare esprimere sé stessi, ma pubblicare, cioè rendere pubblica la propria scrittura, significa necessariamente comunicare con altri, instaurare un dialogo con i lettori.

Il lavoro di editor è quindi, prima che un lavoro sul testo, un lavoro sull’autore: bisogna conquistarne la fiducia, non in astratto, ma mostrando come l’editing produca effetti di valorizzazione, e non di diluizione o di appannamento, delle scelte autoriali. Ciò premesso, bisogna vedere concretamente in che cosa consista l’editing, cioè su quali aspetti del testo d’autore sia possibile intervenire a seconda dei casi.

Nelle poche righe a mia disposizione proverò a sviluppare lo schema ideale che seguo nei miei corsi – uno schema semplicissimo e antico, dato che è desunto dagli antichi manuali di arte oratoria e riprende la classica tripartizione in inventio, dispositio ed elocutio. Si tratta naturalmente di uno schema passibile di mille variazioni e articolazioni differenti, ma della cui utilità (non solo per gli aspiranti editor, ma in fondo per chiunque si trovi a scrivere, nella scuola come sul lavoro) resto fermamente convinto.

L’inventio, ossia la “trovata”

Il verbo latino “invenire” significa “trovare”: quando penso al lavoro di editing sull’inventio penso alla necessità di individuare in un testo (che si tratti di un romanzo, di un saggio, di una raccolta di poesie liriche o del classico bistrattato tema scolastico) il nucleo profondo che giustifica l’esistenza del testo stesso – la “trovata”, se vogliamo tradurre il termine antico, capace di catturare l’attenzione del lettore e spingerlo a investire tempo nell’attività di lettura.

Apparentemente, questo è il lavoro fondamentale dell’autore, ha a che vedere con quella che nel linguaggio comune si chiama “ispirazione”. Perché mai l’editor dovrebbe intervenire su questo aspetto? A volte è così, a volte invece l’occhio dell’editor si rivela decisivo.

Per esempio: capita che un autore presenti un progetto, realizzato solo in parte (è un caso piuttosto comune nei testi di indole saggistica, ma non troppo raro neanche nella narrativa di fiction); in questo caso la discussione preliminare consente all’autore di mettere a fuoco meglio di quanto possa fare da solo il punto di forza del futuro libro, facendo ordine in una messe di idee e di spunti che (chi scrive lo sa bene) in una certa fase del lavoro minacciano di apparire tutti importanti, tutti significativi, e quindi tutti poco incisivi.

Ma capita anche che l’autore, al termine del lavoro, non abbia il distacco necessario per guardarlo “dall’esterno” e per valutarne pregi e difetti con l’occhio del potenziale lettore. Nel momento in cui si accinge alla revisione, quindi, l’autore non sempre è la persona più idonea a compiere il lavoro. Lo si verifica proponendo un semplice esercizio: riassumere il proprio libro in tre righe – i famosi 60 secondi che un produttore concede all’aspirante sceneggiatore per descrivere il soggetto del film che vorrebbe realizzare. Nella maggior parte dei casi, l’autore non è in grado di fare un riassunto così sintetico, si addentra in vicende secondarie, episodi minori, dettagli insignificanti (Gustavo, il cognato del custode di cui abbiamo parlato prima…) e dopo un quarto d’ora deve ammettere di essersi smarrito nel proprio labirinto. Niente di male: è probabile che Manzoni non avrebbe saputo trovare, né forse avrebbe apprezzato la “formula” di Natalino Sapegno “epopea della Provvidenza” per descrivere I promessi sposi. E non è detto – anzi! – che questa sintesi estrema debba poi servire da guida nel lavoro. Ma riuscire a metterla a fuoco è certamente utile.

È necessario sottolineare il carattere non solo soggettivo, ma in qualche misura ideologico di ogni lavoro sull’inventio: dire che i Promessi sposi sono un’epopea della Provvidenza indirizza la lettura, attribuisce maggiore importanza ad alcuni episodi rispetto ad altri; così come dire che sono una «storia milanese del secolo XVII» (è la scelta di Manzoni, come è noto, e suscita numerose domande: perché “storia”? perché Milano? perché il XVII secolo?) o che sono una metafora dell’Italia sotto la dominazione straniera, o che sono una grande storia d’amore, o una riflessione tragica sulla natura umana e così via. Non tutti i libri hanno un “nucleo” così ricco di sfaccettature, naturalmente, ma il lavoro di messa a fuoco non è mai scontato.

Non voglio fare esempi tratti da opere su cui ho lavorato, perché gli autori potrebbero non gradire che siano svelati certi retroscena. Mi permetto quindi di fare un esempio tratto da un mio racconto del 2014, Il Duomo e la lepre. Nella versione iniziale, il protagonista è un ragazzino che, dalle montagne piacentine, scende a Milano col fratello maggiore per vedere il Duomo. Il fratello, che ha degli impegni di lavoro, lo porta in giro tutto il giorno per uffici e altri luoghi privi di interesse – e quando finalmente stanno per raggiungere il Duomo il nostro eroe pesta una cacca di cane, con le conseguenze che si possono immaginare. Questa conclusione non mi soddisfaceva: strappava un sorriso, ma era stonata rispetto all’andamento del racconto, più serio, più intimo… Il Duomo, ovviamente, non doveva essere raggiunto, di questo restavo convinto; ma l’ostacolo doveva essere meno casuale e legato invece al processo di crescita che il protagonista vive nel corso della sua giornata milanese. La soluzione che mi è stata suggerita è stata di fare del protagonista una ragazza, anziché un ragazzo: l’evento che la costringe a interrompere la sua quête è l’arrivo del primo ciclo, che mette in imbarazzo lei e il fratello e fa dimenticare a entrambi l’agognato Duomo. Poiché il sangue compariva anche in altri episodi del racconto, questo cambiamento (apparentemente radicale, ma che ha comportato la riscrittura di una pagina o poco più) è servito a garantire la compattezza del testo sul piano simbolico, oltre che su quello del tono generale.

La dispositio (e qualche consiglio di lettura)

Con il termine dispositio non si intende solo l’ordine con cui sono esposti i contenuti del libro, per quanto tale ordine abbia un valore spesso sostanziale (pensiamo, per fare un esempio da un’opera in versi, alla calibratissima disposizione dei Canti leopardiani: l’ultima delle dieci canzoni nettamente separata dalle altre, Il passero solitario anticipato rispetto al probabile ordine di composizione, e così via).

Quando lavoro da editor sulla dispositio mi metto, ancora una volta, dal punto di vista del lettore e delle indicazioni di lettura che il testo gli fornisce. Pensiamo per esempio al ritmo, nei due sensi che può assumere questo termine: il ritmo del racconto, che è legato al numero di avvenimenti che si verificano in una certa unità di tempo (qualunque lettore si accorge che la novella di Andreuccio da Perugia ha un ritmo assai più rapido di quella di Griselda); e il ritmo della lettura, che è legato alle partizioni interne del testo, alle suddivisioni in libri, sezioni, capitoli, paragrafi…, e alla lunghezza delle singole unità di senso che l’autore propone al lettore (due esempi opposti, tratti da autori contemporanei: Thomas Bernhard non divide i suoi libri in capitoli e non va quasi mai a capo, proponendo di fatto dei monologhi ininterrotti; Annie Ernaux segmenta i suoi libri in capitoli, all’interno dei quali troviamo spazi bianchi più ampi e spazi bianchi meno ampi, che spesso individuano unità di senso di poche righe; siamo di fronte a scrittori prevedono e inducono il lettore a ritmi di lettura molto diversi).

Se dovessi indicare “il” problema legato alla dispositio, direi la voce narrante. Le incoerenze di tempo e luogo si rilevano piuttosto facilmente e non solo si correggono senza grandi problemi, ma spesso sono l’occasione per nuove invenzioni, nuovi episodi e così via. Più complesso è l’intervento sui personaggi, rispetto ai quali vale, credo, la regola che «si può inventare tutto, tranne la psicologia» (credo che sia stata Elsa Morante a formularla così, ma vado a memoria e potrei sbagliare), e tuttavia l’esperienza permette di riuscire efficaci anche in questo campo. Dove si pare la nobilitate dell’editor è nel lavoro sulla voce narrante – sia nel caso ormai frequentissimo in cui l’autore ne abbia usata più di una, perché le due o più voci devono avere una giustificazione narrativa, devono essere dotate di una personalità precisa, non possono “impallidire” a poco a poco fino ad assomigliarsi o a coincidere con quella dell’autore; sia nel caso in cui l’autore ricorra alla tradizionale terza persona onnisciente, da un lato perché l’onniscienza è difficile da maneggiare (sapere tutto non vuol dire raccontare tutto: bisogna comunque scegliere e quello che si racconta dev’essere significativo), dall’altro perché la voce narrante esterna deve adeguarsi al mondo che racconta (in un romanzo di ambientazione trecentesca l’espressione “pochi minuti dopo”, dato che gli orologi del tempo segnavano sì e no le ore, va usata con cautela, in un contesto ironico, o straniante, o forse è meglio evitarla del tutto…).

Chiunque faccia l’editor ha per i problemi di dispositio un archivio di esempi, che qui però occuperebbero troppo spazio. Preferisco affrontare un altro aspetto della questione, che emerge laddove l’autore non si rende conto del problema e quindi reagisce al suggerimento (“c’è una stonatura”) rivendicando la propria libertà (“non è una stonatura, ma una dissonanza voluta”). Interloquire con chi pesta a caso sui tasti di un pianoforte e confonde il rumore che produce con Schoenberg o Stockhausen è quasi impossibile se manca un terreno comune – cioè un patrimonio di letture condivise. Il numero di aspiranti autori (soprattutto romanzieri e poeti) che ignorano sia i classici moderni, sia le opere di riferimento degli ultimi anni, intorno a cui si orienta il discorso editoriale, è incredibilmente alto. Sembra una banalità, ma non si può pretendere di scrivere un noir senza conoscere Ellroy; non si dovrebbe tentare la strada (difficilissima) dell’umorismo senza aver mai letto Stefano Benni; non è lecito, lo dico senza mezzi termini, cimentarsi nel fantasy se non si sa chi siano Licia Troisi o Harry Potter; e lo stesso vale ovviamente per la poesia (Zanzotto mai sentito; Milo de Angelis chi?) e così via.

È in questi casi che mi è capitato di dover interrompere il lavoro (ebbene sì, mi è capitato, come a tutti quelli che fanno questo mestiere). Potendo, bisogna allora ripartire dalla lettura, e in effetti la prima cosa che faccio, nei miei corsi, è verificare la conoscenza di alcuni autori e/o alcune opere che vengono spesso richiamate come esempi, come modelli (da cui eventualmente discostarsi, com’è ovvio) e insomma come un minuscolo “canone” che permette al laboratorio di funzionare.

Siccome mi trovo spesso di fronte a persone poco abituate alla lettura, prima di consigliare i grandi classici, le opere-mondo che hanno segnato un’epoca e che dovrebbero costituire le pietre miliari di chi si accinge a un lavoro di scrittura, propongo la lettura di testi brevi – al di sotto delle 100 pagine – e reperibili in edizione economica: è sempre sorprendente scoprire quante persone, non solo fra gli adolescenti, non abbiano mai sentito parlare di Bartleby, lo scrivano di Melville; La morte di Ivàn Il’ic di Tolstoj; Cuore di tenebra di Conrad; La morte a Venezia di Mann; La metamorfosi di Kafka; La leggenda del santo bevitore di Roth; Ehrengard di Blixen; La solitudine del maratoneta di Sillitoe; La breve vita felice di Francis Macomber di Hemingway; fra gli italiani, Il visconte dimezzato di Calvino; Gli occhiali d’oro di Bassani; Il gioco segreto di Morante; La bella di Lodi di Arbasino… e mi limito ai testi narrativi; analogo discorso si dovrebbe fare per la saggistica, la poesia ecc. Ciascuno potrà arricchire o correggere questo elenco a seconda delle sue esigenze.

Mi rendo conto che questa impostazione del lavoro può apparire “tradizionalista” e sembra trascurare le tendenze più recenti (diciamo dell’ultimo ventennio circa), che giocano sulla commistione di generi (canzoni, fumetti, film, videogiochi ecc.), trascurando il lavoro sui classici. Ho il massimo rispetto per alcune di queste ricerche in fieri e so bene che, come diceva Mahler, tradizione non è adorazione delle ceneri, ma conservazione del fuoco.
Tuttavia resto convinto che la lettura analitica dei buoni autori sia la premessa per poter scrivere in maniera efficace (insisto su questo aggettivo: l’efficacia è il valore-guida, nel lavoro di editing). Il timore di cadere nell’imitazione, che alcuni allievi esprimono quando affronto questi temi, è infondato: tutti i grandi hanno copiato, Virgilio ha saccheggiato Omero, Dante ha saccheggiato Virgilio, Montale ha saccheggiato Dante. Non bisogna avere paura di copiare, bisogna imparare da loro a copiare bene.

(continua)

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Alberto Cristofori

ha organizzato nel 2015 “Milano per Dante”, una lettura integrale della Commedia affidata a 100 esponenti della società civile milanese. È autore di manuali scolastici e traduttore. Ha pubblicato con Bompiani un romanzo e una raccolta di racconti, e dirige una casa editrice per bambini e ragazzi (Albe
Edizioni).

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