Insegnare (con) Petrarca

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Pubblichiamo il primo di due articoli sul concorso docenti 2016: una riflessione di Sabrina Stroppa, che insegna Letteratura Italiana all’Università di Torino e che è stata Presidente di commissione in Valle d’Aosta per la prova di italiano. Su questo stesso argomento aveva scritto anche ne La letteratura e noi.

Nel concorso docenti 2016, la prova di italiano dell’Ambito Disciplinare 4 (comune e preliminare alle classi di concorso ex A043, 50, 51 e 52) si apriva con il sonetto 272 di Francesco Petrarca. Nel concorso docenti 2016, la prova di italiano dell’Ambito Disciplinare 4 (comune e preliminare alle classi di concorso ex A043, 50, 51 e 52) si apriva con il sonetto 272 di Francesco Petrarca, sulla base del quale il quesito ministeriale chiedeva di organizzare una lezione di due ore «volta a porre in rilievo, oltre agli aspetti tecnico-formali utili all’interpretazione del testo, la specificità di temi, di immagini e di stile che caratterizzano la poesia petrarchesca, determinando la centralità del suo modello nella storia letteraria».

Da presidente di commissione, leggendo il testo del quesito dietro le spalle dei candidati (alla commissione non era possibile fare altro, non avendo il testo a disposizione in nessun modo), mi sono stupita, e compiaciuta insieme, di veder proporre Petrarca a una classe di concorso che comprende anche l’ex A043, ovvero la scuola superiore di primo grado, le vecchie medie. Per quanto mi riguarda, ho sempre proposto la lettura dei sonetti petrarcheschi, per il loro valore formativo, nei miei insegnamenti per le classi A043 e 50 in SSIS, TFA e PAS; ma sapendo che si trattava di una sfida. Il quesito ministeriale ha rappresentato, per me, una sorta di consacrazione delle mie scelte.

I candidati, però – non erano miei ex allievi, tengo a precisarlo – non hanno risposto bene alla prova: in generale è stata la domanda affrontata peggio, con più approssimazione nei contenuti, e scarsa efficacia didattica. Per questo propongo, ora, una lettura del sonetto 272: una lettura che discende dall’esperienza di correzione delle prove di italiano, tesa dunque da una parte a riflettere sugli errori più ricorrenti rintracciati nei compiti, dall’altra a proporre modelli didattici. Ovviamente, non essendo io in mente Dei – e non avendo fornito il MIUR una risposta al quesito con cui i commissari potessero confrontare quelle dei candidati – non posso che ragionare in base alla mia esperienza, e alle aspettative che la Commissione nutriva in sede di correzione. Si tratta, dunque, di una mera, piccola proposta.

Riproduco il testo del quesito come da prova concorsuale:

La vita fugge, et non s’arresta una hora,
et la morte vien dietro a gran giornate,
et le cose presenti et le passate
mi dànno guerra, et le future anchora; 

e ’l rimembrare et l’aspettar m’accora,
or quinci or quindi, sì che ’n veritate,
se non ch’i’ ò di me stesso pietate,
i’ sarei già di questi pensier’ fora.

Tornami avanti, s’alcun dolce mai
ebbe ’l cor tristo; et poi da l’altra parte
veggio al mio navigar turbati i vènti; 

veggio fortuna in porto, et stanco omai
il mio nocchier, e rotte àrbore e sarte,
e i lumi bei, che mirar soglio, spenti.

PETRARCA, Rerum Vulgarium Fragmenta, CCLXXII

Il candidato, sulla base del testo proposto, organizzi una lezione di due ore per una classe prima di secondo biennio della scuola secondaria di secondo grado, volta a porre in rilievo, oltre agli aspetti tecnico-formali utili all’interpretazione del testo, la specificità di temi, di immagini e di stile che caratterizzano la poesia petrarchesca, determinando la centralità del suo modello nella storia letteraria. Il candidato dovrà inoltre ipotizzare la presenza di studenti con Bisogni Educativi Speciali, specificando gli interventi didattici a loro rivolti.

1. Errori di inquadramento del quesito ministeriale

L’errore più grave che la Commissione ha riscontrato, con allarmante frequenza, è quello della contestualizzazione del brano. Bastava tenere conto del numero d’ordine del sonetto, 272, per capire che La vita fugge non poteva essere collocato all’inizio di un percorso sul canzoniere petrarchesco, né di un percorso su Petrarca stesso, come pure qualche candidato ha proposto. L’errore di collocazione nel piano di lavoro era clamoroso: i candidati essendo quasi tutti già insegnanti, si presupponeva che potessero facilmente capire come articolare la proposta didattica: così, invece, non è stato. Leggere “Petrarca” e gettarsi a pianificare una lezione su Petrarca, senza riguardo allo specifico testo proposto, è stato tutt’uno. Collocare il sonetto all’inizio di un percorso complessivo su Petrarca e il canzoniere portava con sé errori di impostazione del lavoro dal punto di vista concettuale (come si fa a iniziare la lettura di un’opera quasi dalla fine? o per meglio dire a mezza via ormai superata?), ed errori anche più rilevanti nell’impostazione dell’attività didattica. Si trattava, come indicato nel quesito, di organizzare una lezione di due ore: possibile che un docente riesca, in due ore, a proporre agli studenti di una terza superiore una presentazione generale di Petrarca, del suo tempo, delle sue opere, dei temi del canzoniere, e poi anche dividerli in gruppi per farli lavorare autonomamente su questo sonetto in particolare? È un’ipotesi didattica plausibile, o solo aria, ovvero uno schema didattico buono per qualsiasi argomento?

È evidente che si trattava di impostare una lezione compresa in un percorso più ampio sul canzoniere, che aveva già affrontato alcuni temi capitali che qui si potevano ricapitolare, puntando però l’attenzione in modo particolare sul tema del tempo (quello che Rosanna Bettarini, nel commento a Rvf 272, definisce «il tema più petrarchesco del Canzoniere»); e che dal testo in questione – ultimo, o quasi, di tale percorso – si dovesse partire per tracciare un’idea dell’importanza della lirica petrarchesca non tanto e non solo nel petrarchismo, ma nella “storia letteraria”.

La traccia era poi chiara su un altro aspetto: impostare una lezione «sulla base del testo proposto» vuol dire tenerne conto, leggerlo e farlo leggere, non allegramente trascurarlo per parlare della forma-sonetto in sé e per sé. Per leggerlo, poi, occorreva mettere l’accento – cito ancora dal quesito – sugli «aspetti tecnico-formali utili all’interpretazione del testo»: ‘utili all’interpretazione’, frutto quindi di una selezione preventiva, compiuta dall’insegnante, di ciò che aiuta a leggere il testo: non gli ‘aspetti tecnico-formali’ insiti nella costruzione di qualunque sonetto. Occorreva bandire dunque – ma è pratica sana in qualsiasi contesto didattico – ogni invito a “rintracciare/sottolineare le figure retoriche del testo”, ad esempio: esercizio molto amato dagli insegnanti pigri, che non dice nulla sulla poesia in questione, ma la trasforma in eserciziario buono (cioè cattivo) per tutte le stagioni, quasi le mitiche “figure retoriche” siano la carta di un cioccolatino, sempre individuabile con precisione dallo studente – e dunque scartabile. Non era nemmeno pensabile partire da questo sonetto per studiare il sonetto, come alcuni candidati hanno proposto: gli studenti non hanno mai visto un sonetto in vita loro, dunque? E allora in quale tipo di scuola ci troviamo? Perché questo è stato, ancora, un errore: se non si contestualizza l’istituto di destinazione dell’attività, è impossibile dettagliarla. Si tratta di un percorso scolastico che prevede il latino? Allora poter accompagnare la lettura di Rvf 272 con qualche passo delle Confessioni di Agostino riguardante il tempo. Si tratta di una scuola che non prevede il latino, ma nella quale l’insegnante ha deciso di disegnare un curricolo fondato sul tema del tempo? O una scuola in cui la poesia delle origini viene affrontata scegliendo pochi testi fondamentali? Senza queste indicazioni di fondo non era possibile determinare il tipo di lettura proposta.

Ancora, bisognava desumere dalla lettura una specificità petrarchesca che ne ha determinato «la centralità del modello»: capire, dunque, che cosa in questo particolare sonetto sia additabile come costruzione di una forma recepita e ben assimilata dalla lirica posteriore. Non era sufficiente alludere genericamente a Bembo. Di nuovo, la corretta risposta a questa domanda presupponeva che il sonetto in questione fosse inteso come uno degli ultimi di un percorso su Petrarca, e che quindi, giunti a questo punto, gli studenti avessero recepito ormai un numero sufficiente di dati per poter fare il salto alla posterità petrarchesca.

2. Gli strumenti dell’insegnante

Le risposte ai quesiti ministeriali hanno messo in luce un dato abbastanza sconfortante: gli insegnanti non leggono. Lo dico così, in maniera abbastanza brutale, prima di porre una serie di distinguo. Sappiamo tutti che il mestiere dell’insegnante – diciamo soprattutto dell’insegnante di materie letterarie –, nonostante la solfa delle 18 ore settimanali rinfacciate da un pubblico sempre più distratto sui temi della scuola, è un mestiere che, a farlo bene, assorbe un numero esorbitante di ore quotidiane. Tra queste ore, tuttavia, c’è anche il lavoro di preparazione delle lezioni: e la mia esperienza di docente nei corsi di formazione, oltre che i risultati del concorso docenti, mi dicono che troppo spesso la preparazione delle lezioni viene compiuta sull’antologia adottata. Le case editrici che si occupano di testi scolastici questo lo sanno benissimo: e infatti antologie e manuali sono diventati un coacervo di dati e approfondimenti che tenta di tenere insieme i due aspetti: il libro per lo studente, e l’aggiornamento per l’insegnante. Bisognerebbe tenere distinti i due aspetti, ma non lo fa nessuno. E così gli insegnanti si trovano spesso a condividere con gli studenti tutte le informazioni relative a un autore e alle sue opere, mentre la loro preparazione dovrebbe avere altre fonti, e ben altra profondità.

In particolare, su Petrarca le celebrazioni del settimo centenario della nascita hanno portato a un generale rinnovamento degli studi, in Italia e nel mondo: ma quanto di questo fervore di studi e pubblicazioni è passato nella scuola? Quanti insegnanti sanno che esistono, oggi, almeno sei commenti moderni al Canzoniere (Santagata, Dotti, Fenzi, Bettarini, Vecchi Galli, e devo dire anche Stroppa), ampi e aggiornati, ognuno dotato di una sua specificità? Di questi, quanti ne posseggono? Quali hanno consultato in biblioteca? («E per pianger ancor con più diletto» [Rvf 37, 97], quanti hanno mai letto non dirò Varietà sintattica e costanti retoriche nei sonetti dei ‘Rerum vulgarium fragmenta’ di Natascia Tonelli, 1999, lettura obiettivamente impegnativa, ma almeno il primo capitolo della Sintassi del sonetto di Arnaldo Soldani, 2009? Quanti sanno che esiste un’ampia, utile Lettura micro e macrotestuale del Canzoniere, curata da Michelangelo Picone, con l’apporto di un grande numero di specialisti?). La risposta è sconfortante, ovviamente. Pochi insegnanti pensano che sia loro dovere possedere una biblioteca aggiornata, con testi commentati e recenti. Inizio sempre le lezioni del TFA invitando gli insegnanti ad andare a scuola portando i loro libri – libri annotati, con post-it e cartigli, ovvero libri letti –, per mostrare che i brani antologici sono tratti da qualcosa che sta fuori dall’antologia, e si chiama appunto “libro”: ma è un invito che devo rivolgere costantemente, perché quasi nessuno è abituato a farlo. L’insegnante, di norma, va a scuola con l’antologia, e da lì desume tutto ciò che insegna.

L’assenza di libri propri si traduce anche in scarsa o nulla dimestichezza con la bibliografia. Nelle risposte dei nostri migliori candidati non affiorava nessun nome di critico di riferimento: uno solo ha citato Contini, bontà sua. Ma io ho avuto insegnanti di italiano, al liceo, che spiegandoci Dante ci spiegavano anche le differenze tra i commenti di Sapegno, Momigliano, Bosco-Reggio, mettendoli anche a confronto su singoli passi. Ora esiste solo l’antologia.

Anche per questo, nelle risposte i candidati si sono rifugiati nella didattica – una didattica, per altro, buona per tutte le stagioni, non specifica per il ‘caso Petrarca’. Non hanno nessuna idea dei progressi nell’interpretazione del Canzoniere a cui si è giunti negli ultimi anni, né, forse, pensano che di quei progressi si debba tenere conto. La colpa è forse anche nostra, che non guardiamo alla scuola come logico destinatario dell’attività di ricerca compiuta in ambito universitario.

3. Guidare la lettura

Si presuppone che l’insegnante abbia avuto una buona formazione universitaria: senza aggiornati rudimenti di filologia (e di filologia testuale), infatti, non so bene come potrebbe rispondere all’eventuale domanda di uno studente sveglio che dovesse chiedergli perché al v. 5 la congiunzione “e” si trova scritta in due modi diversi («e ’l rimembrare et l’aspettar m’accora»). Data per scontata la preparazione di base, pare che ciò che meno sanno fare i docenti, almeno a giudicare dal piccolo campione esaminato, sia guidare la lettura di un testo poetico. Curioso, perché le antologie oggi non sono che immense guide alla lettura: gli strumenti, dunque, ci sono. Ma quando un insegnante si trova di fronte a una prova di concorso, alla quale deve rispondere senza poter attingere ai suoi libri, finisce per far emergere chiaramente ciò – spesso il poco – che sa fare (o ciò che pensa che la commissione vorrebbe che dimostrasse di saper fare: questa opzione però è talmente scoraggiante, e indice di una così sconfortante mancanza di sicurezza in se stessi, e di dignità, che non la prendo nemmeno in considerazione), e in genere ciò che sa, o ha ben assimilato.

Quasi tutti hanno trovato il modo di mettere gli studenti a lavorare per gruppi: sempre nelle stesse due ore in cui dovevano organizzare «una lezione» – il quesito ministeriale era chiaro – sul sonetto, e sulla «centralità del suo modello nella storia letteraria». Diciamolo chiaramente: un sonetto petrarchesco non è un testo su cui gli studenti possano essere messi a lavorare in autonomia, per gruppi – soprattutto se lo si considera come testo di avviod i un percorso su Petrarca! –, a meno che quel particolare sonetto non costituisca una variante o uno sviluppo di un sonetto di argomento o costruzione retorica simile, che gli studenti abbiano già letto con la guida dell’insegnante. Solo così si costruiscono le vere competenze: non assegnando un compito difficile – per non dire impossibile –, per poi stare a vedere se e come i ragazzi se la cavano, ma fornendo modelli di lettura, sulla base dei quali innestare le letture successive. Nel primo caso, c’è il rischio che gli studenti ricordino indelebilmente più gli errori commessi che altro; nel secondo caso, il testo già conosciuto funge da fondamento per quello ancora incognito.

Ora, nel canzoniere di Petrarca è proprio questo il lavoro difficile da fare: se si considera che nelle antologie in uso i numeri proposti alla lettura sono in genere quelli canonici (per dire: 1, 3, 35, 90, 126 …), si fa in fretta ad accorgersi che ognuno di questi fragmenta pone un diverso e ben preciso problema, relativo al tema (sono tutti diversi, e di molto), alla forma, all’articolazione sintattica, al lessico. È molto difficile, dunque, impostare un lavoro sulle competenze, perché in un percorso di questo tipo lo studente si trova continuamente di fronte a temi nuovi, lessico nuovo, articolazioni sintattiche mai viste prima, predominanza di questa o di quella figura retorica. La lettura dovrà essere, dunque, sempre guidata. (E trascuro, qui, di approfondire il fatto che nonostante l’ampia penetrazione degli strumenti della didattica nei corsi di TFA e PAS, i candidati avevano la tendenza a chiamare cooperative learning – una pratica complessa, che richiede addestramento, molto tempo a disposizione, e il rispetto di una serie ben definita di passaggi – un semplice ‘lavoro a gruppi’: per altro non richiesto dalla traccia, che parlava di una «lezione»; ma un senso malinteso di ‘competenza’ spinge spesso gli insegnanti a credere che solo il lavoro autonomo sia in grado di sviluppare competenze).

Per poter proporre un lavoro autonomo da parte degli studenti, invece, dovrò presupporre di lavorare in antecedenza su un piccolo gruppo di testi che già rechino gli elementi che poi gli studenti dovranno individuare. Quindi, nel caso di Rvf 272, dovrò aver già affrontato insieme agli studenti almeno il tema del tempo, nonché la particolare articolazione sintattica, fondata sull’antitesi, che lo governa.

4. Costruire competenze: l’articolazione sintattica del sonetto

Partiamo da quest’ultimo punto, che è a mio avviso il più affascinante. Il sonetto petrarchesco ha valenza altamente formativa, se lo si studia dal punto della sua articolazione argomentativa (e non come testimonianza di un “romanzetto d’amore”). Nel caso del sonetto 272, uno degli aspetti più notevoli è l’assedio del tempo, e la sua rappresentazione oscillante tra la distribuzione binaria e ternaria degli elementi. Per la lettura non occorrono particolari competenze di lessico storico: l’insegnante dovrà però aver chiaro il significato delle giornate del v. 2 (spiegando la formularità del magnis itineribus latino, ma anche eventualmente provvedendo a una piccola vivace illustrazione di che cosa significasse viaggiare nel Medioevo), per evitare di spiegare che nel sonetto «la morte si avvicina con lo scorrere del tempo e con il passare delle giornate», come ha fatto un nostro candidato; e dovrà sapere che cosa sia la «fortuna» vista «in porto» nel v. 12, per evitare di fraintendere completamente la terzina finale. L’articolazione sintattica, perciò, si potrà studiare senza particolari inciampi d’ordine lessicale.

Una lettura guidata è a mio avviso necessaria affinché gli studenti non scambino l’iterazione delle congiunzioni coordinanti con una sintassi a colata unica, dominata da paratassi ad aggiunte successive. In realtà, tutte queste e hanno funzioni sintattiche assai diverse, che spetta all’insegnante additare (un ampio capitolo dedicato a Coordinazione e coesione si trova nel già citato Varietà sintattica e costanti retoriche di Natascia Tonelli). Ma, come sempre accade per i sonetti petrarcheschi, il primum sta nella disposizione dei materiali nelle strofe. Per riprendere il discorso della collocazione di questo sonetto nel piano di lavoro, occorre che gli studenti siano già stati abituati a vedere le quartine in termini di coppie di distici.

Stiamo ai numeri canonicamente presenti nelle antologie scolastiche, per ipotizzare un intervento didattico praticabile. Questo tipo di lavoro si può fare agevolmente con Rvf 90, esemplare per costruzione. Le sue quartine sono infatti ripartibili esattamente in quattro elementi della descriptio (tre per Laura, uno per l’io), racchiusi entro i confini dei distici: primo distico > capei d’oro-nodi; secondo distico > vago lume-begli occhi; terzo distico > viso di pietosi color; quarto distico > esca-arsi. Le terzine hanno egualmente struttura regolare, ovvero quella struttura che definirei “due nel tre”, essendo intenzionata a ripetere la struttura binaria anche entro i confini della terzina. Ognuna delle due terzine – indipendentemente dalla punteggiatura ‘continiana’ – è infatti suddivisa in due periodi, ognuno dei quali occupa esattamente un verso e mezzo: prima terzina > (1)«Non era l’andar suo … ma d’angelica forma»; (2)«e le parole … voce umana»; seconda terzina: (3)«Uno spirto celeste … i’ vidi»; (4)«e se non fosse… non sana». Anche le terzine racchiudono dunque quattro periodi (e quattro concetti), esattamente come le quartine.

Questo lavoro sull’articolazione delle strofe è l’unico che consenta allo studente di vedere come i materiali si dispongano entro il sonetto, e apprestare dunque una descrizione del sonetto – ad esempio in forma di parafrasi – che non sia una vaga impressione relativa a contenuti affastellati senza ordine, come accade spesso di ascoltare, ma segua la scansione interna dei temi, distinguendoli e perciò sapendoli restituire con cognizione di causa. Pensiamo a quanto diversa risulta la restituzione della prima stanza della canzone 126, quando gli studenti vengono invitati a trovare le regolarissime successioni di vocativi e congiunzioni relative che la tramano.

Nella lettura del nostro sonetto, è importante che il docente richiami questa struttura-base del sonetto petrarchesco per mostrarne le ricorrenze e gli scarti: la prima strofe è divisibile in due distici, la seconda no. Per questa seconda quartina si dovrà allora fare riferimento a un altro sonetto del percorso canonico, ovvero Rvf 3, nel quale egualmente, dopo una prima quartina suddivisibile in due distici, si vede, nella seconda, l’impennarsi del secondo periodo sintattico in corrispondenza del secondo emistichio del secondo verso, così come accade nel nostro sonetto (Rvf 3, 6: «però m’andai»; 272, 6: «sì che ’n veritate»).

La struttura apparentemente pacificata, e librata su evidenti suddivisioni binarie, racchiude però frizioni ternarie, e asimmetrie (sulle asimmetrie del sonetto si trova qualche considerazione nella lettura di Raffaele Donnarumma pubblicata nel 1998 in un fascicolo doppio di «Allegoria», 29-30, che curiosamente comprende, come sola altra analisi testuale, quella di Donatella Marchi sulle fonti di Cigola la carrucola del pozzo, tema del secondo quesito ministeriale). Nel primo distico, sintatticamente coeso, e geometricamente suddiviso tra due enti, La vita e la morte, si susseguono incalzanti tre determinazioni temporali, corrispondenti ai tre verbi (un buon esercizio, in Petrarca, è quello di sottolineare i verbi – non le “figure retoriche” –, e ragionarci su): la vita fugge e non s’arresta, la morte vien dietro. Perché, intanto, la fuga della vita è rappresentata con due verbi? Ovviamente non si tratta di una semplice iterazione sinonimica. La fuga temporis è infatti vista genialmente, da Petrarca, da due punti di vista: quello, oggettivo, della vita che fugge, e quello, soggettivo, di chi tenta – inutilmente – di arrestarne la corsa. La figura è la stessa di quella con la quale Montale, che di Petrarca aveva capito tutto, rappresenta «gli sciacalli al guinzaglio» nel suo celebre mottetto: loro che si tirano indietro, mentre il «servo gallonato» li trascina in avanti. Così, qui, c’è la vita che fugge, e la frustrante consapevolezza di non poterla arrestare. (L’insegnante può portare in classe una sveglia con le lancette dei secondi: l’inesorabile tic tac della loro corsa, ascoltato in silenzio, a fanciulli che ormai guardano anche l’ora sugli smartphone, può essere eloquente più di mille parole).

I tre verbi del primo distico si trovano a essere replicati nei tre enti del secondo distico: le cose presenti, le passate, e le future. Canonica suddivisione dei tre tempi, si dirà (ma, intanto, abbiamo di nuovo un “tre nel due”, come nelle terzine avremo un “due nel tre”). E allora, dove finisce il terzo tempo, il presente, nel primo distico della seconda strofe? Perché lì, la suddivisione temporale si focalizza e radicalizza nella «sola bipolarità delle cose passate e delle future, che convivono a contatto e pressoché indistinguibili» (è ancora il commento della Bettarini). Questa bipolarità, in cui il presente scompare e si annulla nella trazione opposta di passato e futuro, genera l’opposizione di quinci e quindi al v. 6, e l’opposizione del dolce che ‘torna alla mente’ ai ‘venti turbati’ veduti in porto, nella prima terzina. Il presente dell’Io – il punto in cui, agostinianamente, il futuro passa per trasformarsi in memoria – si riduce a un volgere la testa di qua e di là, senza trovare requie né nella memoria né nella speranza. Tutto passa attraverso la sintassi, e la disposizione degli oggetti nelle strofe.

Al di là, dunque, delle minuziose suddivisioni dei descrittori graduati per classe nel progetto CompIta, sulle quali avrei da opinare (particolarmente riguardo alla successione progressiva di competenze che dovrebbero allargarsi, nei tre anni del triennio, dal testo all’opera all’autore: vuol dire che quando leggo Dante o Petrarca o Boccaccio, in terza superiore, lo studente sarà valutato solo per la sua competenza nella lettura di testi, senza riguardo all’inserimento dei medesimi nell’opera e senza riguardo all’autore?), occorre che l’insegnante pianifichi quale competenza vuole attivare.

Se vuole soltanto raccontare il Canzoniere e i suoi temi, potrà seguire i testi presentati di norma nelle antologie e fare un discorso complessivo sul Petrarca lirico, che poi dovrebbe riemergere come presenza costante negli autori successivi, da Ariosto e Tasso fino almeno a Leopardi. Se vuole seguire un tema particolare, come quello del tempo e della morte, dovrà compiere scelte autonome tra i numeri del Canzoniere, che lo portino a sviluppare l’argomento con letture coese. Se vuole sviluppare vere competenze di lettura e seguire l’antologia, al di sotto e al di là del «vario stile» dei numeri di norma presentati dovrà mostrare l’articolazione sintattica di sonetti e stanze di canzone, aiutandosi con rappresentazioni grafiche e geometriche della stessa, per far capire il contenuto di pensiero della poesia petrarchesca, la sua tendenza a disporsi per simmetrie e e stacchi, per scivolamenti e frizioni: non il “romanzetto d’amore” dell’Io infelice, ma l’autorappresentazione, ferocemente lucida, di una testa pensante.

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Sabrina Stroppa

Professore associato di Letteratura Italiana presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino, ha insegnato per diversi anni in istituti secondari di secondo grado, e dal 2001 è responsabile della formazione insegnanti (SSIS, TFA, PAS). È autrice di studi su Dante, Petrarca, Ariosto, Metastasio, sulla letteratura mistica del Seicento, sulla poesia contemporanea; ha pubblicato presso Einaudi un commento al «Canzoniere» di Petrarca.

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