Sono molti i rischi che corre il patrimonio culturale di un paese coinvolto in un conflitto, e non soltanto a causa dell’impiego delle armi. I monumenti e gli edifici di valore storico-artistico possono essere danneggiati o distrutti; i siti archeologici trasformati in campi di battaglia e postazioni militari o abbandonati agli scavi clandestini; le biblioteche e i musei saccheggiati; le opere d’arte e gli oggetti trafugati.
Gli edifici possono versare in uno stato di abbandono per mesi o per anni o essere utilizzati in modo improprio, come spesso accade agli immobili destinati al culto. Dopo l’occupazione cinese furono distrutti i templi del Tibet; negli anni Sessanta, in Albania, chiese, moschee e monasteri vennero demoliti o convertiti in palestre, stalle e sale da ballo; in Cambogia, negli anni Settanta, sotto il regime dei Khmer Rossi, i monumenti di Angkor furono trasformati in porcili e depositi.
Attraverso l’attacco al patrimonio culturale si esprime la volontà di aggiungere alla distruzione materiale anche la distruzione morale del nemico. E non parliamo soltanto del patrimonio culturale materiale, ma anche di quello immateriale, rappresentato da tradizioni culturali, espressioni orali, consuetudini sociali, conoscenze e competenze anche di tipo artigianale, che può andare disperso o perduto, con gravi conseguenze per le comunità locali.
Fra tutte le guerre che affliggono il mondo ce ne sono alcune di cui si parla pochissimo. È il caso, ad esempio, dell’Armenia. Dopo i primi due articoli (Incontro con l’Armenia #1 – I rapporti con l’Italia e Incontro con l’Armenia #2 – L’arte armena), riprendiamo il discorso interrotto con Marco Ruffilli, storico dell’arte e studioso di temi armeni, per scoprire qualcosa in più sulla situazione del patrimonio culturale armeno nel corso dei conflitti.
D: Quali rischi ha corso il patrimonio artistico armeno nell’ultimo secolo?
R: Ha subìto danni enormi, per ragioni molto diverse tra loro. La prima, l’eradicazione della memoria armena in Turchia dopo il Genocidio del 1915. Uno storico armeno francese, Raymond Kévorkian, ha riferito il numero di chiese, monasteri e scuole registrate dal Patriarcato armeno di Istanbul: in totale si trattava di circa 5000 monumenti. Di tutto questo oggi rimane in funzione qualche chiesa. Gli altri edifici o sono stati direttamente distrutti, o sono stati riutilizzati in modo da snaturarne l’identità, per esempio trasformandoli in moschee, come a Develi, o a Kayseri, dove la chiesa della Santa Madre di Dio è stata usata fino a non molto tempo fa come centro sportivo. Altri sono stati lasciati volutamente in uno stato di abbandono che li ha condannati alla rovina totale. Operazione per la quale è stata introdotta la nozione di “genocidio culturale”, che appare appropriata, perché la cancellazione di un popolo, dopo la scomparsa delle persone, deve passare necessariamente per la distruzione dei segni materiali superstiti.
Nella madrepatria, del resto, circostanze completamente diverse hanno recato comunque gravi danni al patrimonio monumentale, come la trasformazione di Yerevan in epoca sovietica. A parte il completo stravolgimento urbanistico della città, già in sé discutibile, molti edifici storici furono eliminati. Le chiese, ma anche le moschee e i bazar: per esempio la chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Yerevan fu atterrata nel 1931 e poi sostituita dal Cinema Mosca. Nel 1936, durante la demolizione della chiesa della Santissima Madre di Dio, emerse una chiesetta del XIII secolo, nota come Kathoghike, inclusa nella struttura maggiore. Si levarono allora le proteste e il piccolo edificio fu preservato.
Aggiungi a tutto questo i problemi, comuni a ogni nazione – Italia compresa – dell’ordinaria e costosa conservazione del patrimonio artistico, dei restauri non sempre adeguati, delle indebite sostituzioni edilizie recenti.
Poi c’è il caso drammatico, che merita attenzione propria, del Nakhichevan.
D: Exclave azera tra Armenia, Turchia e Iran.
R: Sì, esattamente. Nella determinazione dei confini tra Armenia e Azerbaigian in epoca sovietica, il Nakhichevan finì col passare sotto completo controllo azero, e lì rimase anche dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Da allora cominciò naturalmente il declino dei monumenti armeni, ma gli episodi più gravi sono abbastanza recenti. Le indagini satellitari dell’American Association for the Advancement of Science e del Caucasus Heritage Watch hanno ormai dimostrato che il 98% dei siti armeni del Nakhichevan è stato distrutto. Quanto stava accadendo, del resto, era noto, ma le autorità azere hanno sempre negato l’accesso a osservatori indipendenti: si possono leggere sull’argomento alcuni ottimi articoli-inchiesta del sito Hyperallergic.com, specializzato nel giornalismo d’arte. Un caso già ben documentato in precedenza era quello del cimitero di Giulfa, una località prossima al confine iraniano, dove la grande distesa di khachkar (manufatto tipico del mondo armeno di cui abbiamo parlato nel corso della seconda intervista) e pietre tombali è stata rasa al suolo tra il 1998 e il 2005: ne abbiamo le prove fotografiche, grazie ad alcuni scatti realizzati di là dal confine, in Iran. C’è però un uomo cui dobbiamo la documentazione sistematica dei monumenti del Nakhichevan: Argam Ayvazyan. Fin da ragazzo, sostenendo in proprio tutte le spese, e anche con serio rischio personale, ha fotografato i siti monumentali della regione, a larga prevalenza armeni. Tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta ha così fornito una documentazione completa di una novantina di chiese, oltre a migliaia e migliaia di khachkar e pietre tombali oggi in larga misura scomparsi. È dal lavoro di Ayvazyan che hanno mosso i loro passi anche i recenti lavori di geolocalizzazione. A questo studioso, ai suoi articoli e libri, fondati sulle sue campagne di documentazione, dovremo in futuro l’unica conoscenza possibile dell’architettura e dell’arte armena del Nakhichevan.
D: Anche nell’ultima guerra si registrano danneggiamenti?
R: Sì, il caso simbolico è quello della cattedrale ottocentesca del Salvatore a Shushi, vittima di un bombardamento che ne ha sfondato la copertura, e ora oggetto di ambigui “restauri” da parte azera. Oltre a questo, però, desta preoccupazione la sorte di tutti monumenti armeni che si trovano nelle aree passate sotto il controllo azero. Il precedente del Nakhichevan induce questi timori. L’attenzione oggi è un po’ più alta, e si avvale delle tecniche di monitoraggio di cui dicevo, così che le denunce possano almeno essere tempestive, il che non significa che producano effetti. Del resto potrebbero oggi essere utilizzate strategie più sofisticate di cancellazione culturale: per esempio, invece di abbattere le chiese, abraderne le tracce più vistosamente armene, come le iscrizioni (alfabeto e lingua non sono equivocabili), e attribuire poi la costruzione di questi monumenti a un passato in cui gli armeni non compaiano più. La politica culturale azera tende a ricondurre questi monumenti, palesemente armeni, a un passato “albano”, costruendo su questo antico popolo del Caucaso meridionale, gli Albàni, un’identità nazionale. Dei due monasteri più famosi dell’Artsakh, quello di Gandzasar è rimasto in territorio armeno, mentre l’altro, Dadivank, è oggi sotto la protezione del contingente russo. Naturalmente però il rischio è grande per molti altri monumenti di minore notorietà, e perciò ancora più vulnerabili. Oltre all’Artsakh, bisogna poi aggiungere che il “corridoio” tra Azerbaigian e Nakhichevan preteso dalle autorità azere, il cosiddetto “Corridoio di Zangezur”, nell’estremo sud della Repubblica d’Armenia, se realizzato metterebbe a rischio, per esempio, il patrimonio artistico della città di Meghri, con le sue chiese affrescate. Sono cose che naturalmente si aggiungono al danno già inferto direttamente alle persone, che hanno dovuto abbandonare case e villaggi perduti. L’attacco al territorio della stessa Repubblica d’Armenia e il blocco del Corridoio di Lachin che sta sequestrando gli abitanti dell’Artsakh aprono ulteriori, gravi, scenari di fronte alla sostanziale indifferenza del mondo.
Tornando al patrimonio, la preoccupazione degli Armeni nasce ancora una volta dal silenzio che ricopre questi rischi. A differenza dell’Isis, che ostentava le sue distruzioni come un mezzo di terrore e un’affermazione di dominio, queste attività di cancellazione culturale avvengono perlopiù di nascosto o con poca pubblicità, così che poi il fatto compiuto sia accettato come irreparabile e cada nell’oblio.
D: E a proposito del patrimonio immateriale?
R: C’è sicuramente un patrimonio immateriale da promuovere. Per esempio la musica del duduk, strumento tipico della tradizione armena. Si tratta di un flauto di legno d’albicocco ad ancia doppia, dal suono dolce e arcano, misterioso. È uno strumento che ha avuto un grande successo anche in Occidente nella composizione di colonne sonore, ma che va ascoltato soprattutto cercando di entrare nella sensibilità di chi nei secoli ha sentito nel duduk il suono dell’anima armena. Oppure alcune forme di danza, come il kochari e la yarkhushta.
C’è poi il caso della lingua armena occidentale. L’armeno moderno si divide in due varianti, l’orientale, parlato nel Caucaso e in Iran, e l’occidentale, già lingua degli armeni dell’Impero ottomano, oggi parlato nella comunità ancora presente a Istanbul e nella diaspora. Mentre la prima variante non corre pericolo, perché è la lingua ordinaria di alcuni milioni di persone, la seconda è conosciuta perlopiù da armeni che vivono, ormai da generazioni, in molti luoghi diversi del mondo, e che parlano perciò anzitutto la lingua dei paesi d’arrivo. Diluendosi il suo uso col passare delle generazioni, l’armeno occidentale rischia perciò di scomparire. Anche le lingue, per varie ragioni, corrono rischi di estinzione come le specie animali. L’armeno occidentale è insegnato in alcune università e in vari altri corsi, ma è importante soprattutto il fatto che le comunità armene lo coltivino e lo tengano in vita.