Abbiamo già incontrato Marco Ruffilli, uno degli organizzatori dell’annuale Seminario sulla Storia dell’Arte Armena e dell’Oriente Cristiano dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, in occasione dell’articolo sulla presenza armena in Italia e sugli stretti rapporti che fin dall’antichità uniscono i due paesi (Incontro con l’Armenia #1 – I rapporti con l’Italia). Lo incontriamo nuovamente, in quanto studioso di storia dell’arte armena, per scoprire qualcosa in più sulle manifestazioni artistiche che caratterizzano questa produzione.
D: Quali sono le principali caratteristiche dell’architettura armena?
R: La civiltà armena ha un’architettura tipica, e perciò molto riconoscibile, manifestata soprattutto dalle chiese e dai monasteri, ma anche dalle imponenti fortezze. Alcuni di questi luoghi possiedono un’immensa suggestione ed esercitano un’attrazione profonda sul visitatore “occidentale” – se si può usare questa categoria – magari abituato a ogni genere di meraviglia artistica europea, ma lontano dalle atmosfere dell’Oriente cristiano. Questi monumenti instaurano con l’ambiente circostante, quello dell’altopiano o della montagna, un rapporto materiale ed emotivo insieme, come se le rocce si traducessero naturalmente in chiesa, monastero o fortezza. L’uso della cupola centrale, le superfici voltate, un particolare trattamento dei volumi, un rapporto discreto fra esterno e interno, il raccoglimento degli spazi interni, la presenza, dal secolo X, di un caratteristico nartece, il gavit, ne sono forse le caratteristiche principali. L’europeo più esercitato alla cultura artistica del cristianesimo latino cerca di comprendere lo stile armeno vedendovi a volte una versione esotica del nostro romanico, ma queste categorie sono poco applicabili. Anche le architetture civili superstiti in alcune città sono di grande fascino: penso alla vecchia Gyumri, di una severa eleganza addolcita da tratti art nouveau, o alla soave Dilijan, circondata da un parco naturale.
D: E per quanto riguarda la pittura?
R: C’è una vastissima produzione pittorica destinata all’illustrazione di manoscritti. Il codice manoscritto ha un grande valore nella spiritualità armena: non è solo uno strumento, o un oggetto d’arte. Negli esiti artistici, la miniatura armena eguaglia quella occidentale e bizantina. Ha espresso grandi figure di miniatori, come Thoros Roslin, Momik, Sargis Pitzak, Mesrop di Khizan – per citarne alcuni distribuiti dal XIII al XVII secolo – con una ricchezza stupefacente di forme e colori. I suoi temi iconografici comprendono quelli comuni a tutto il mondo cristiano, con elementi anche tratti dai vangeli apocrifi.
La decorazione dei manoscritti attinge a un vastissimo repertorio geometrico, vegetale e animale. Nel corso dei secoli vanno delineandosi ambiti territoriali, più che scuole, con caratteristiche proprie: la miniatura ciliciana, la miniatura del Vaspurakan, quella del Syunik, quella dell’Artsakh, quella delle colonie, come la miniatura armena in Crimea. Questo tipo di illustrazione continua addirittura oltre la nascita del libro a stampa.
A partire dal Settecento, del resto, si diffonde anche una pittura mobile, “da cavalletto”, che si aggiunge alla pittura murale – quest’ultima purtroppo oggi attestata da poche testimonianze – e a quella su libro. Ci sono molti pittori interessanti, la cui conoscenza dovrebbe essere più diffusa. La dinastia degli Hovnathanyan, per esempio, copre ben cinque generazioni, che compiono il percorso artistico verso l’Armenia moderna. L’ultimo della dinastia è un ritrattista dallo stile inconfondibile: le sue figure femminili sono uno degli esiti più alti della pittura armena, per pulizia formale e intensità psicologica. I maggiori artisti armeni dell’Ottocento e del Novecento vanno letti come interpreti universali del loro genere, come Ivan Ajvazovskij nel contesto del romanticismo, o Vardges Surenyants nell’ambito del simbolismo (e non soltanto). Martiros Saryan è tra i più coinvolgenti artisti dell’Armenia novecentesca: la sua produzione più nota è forse quella d’epoca presovietica.
D: E ora veniamo alla scultura…
R: Se dovessi indicare il manufatto più tipico dell’arte armena, che non ha riscontri veri e propri in altri contesti, direi il khachkar. Si tratta di una stele di pietra su cui è scolpita la croce, con vari altri elementi simbolici e decorativi. La croce ha l’aspetto della crux florida, la croce fiorita, a simboleggiare la resurrezione dalla morte. Gli elementi decorativi appartengono al repertorio cristiano, o sono simboli cosmici più generali, come a dire che la Passione e la Resurrezione di Cristo regnano sull’universo intero. Spesso sui khachkar appaiono iscrizioni, qualche volta scene figurate. Le combinazioni nelle quali gli armeni hanno usato questi simboli sono tante da poter dire che è difficile vedere due khachkar uguali, pur nell’uniformità dell’oggetto. In più gli scultori armeni si sono prodotti in un virtuosismo esecutivo impressionante, con intrecci che costringono lo sguardo a rallentare la sua visione, e l’osservatore a calmare il suo spirito per meditare sul senso della croce.
D: Qual è la situazione degli studi sull’arte armena in Italia?
R: Lo studio dell’architettura armena ha una solida tradizione da noi, fin dagli anni Sessanta del Novecento, soprattutto grazie a Paolo Cuneo, Armen Zarian e Adriano Alpago Novello, che ne fecero un’indagine sistematica, insieme con altri studiosi. I due volumi di Cuneo, frutto di un progetto della Sapienza, sono ancora un punto di riferimento. Armen Zarian, che proveniva da una famiglia di armeni di Costantinopoli e viveva a Roma, si trasferì in Armenia dove, lavorando con Cuneo, profuse un’energia straordinaria nello studio dei monumenti del suo popolo. Alpago Novello, professore al Politecnico di Milano, fondò il Centro Studi e Documentazione della Cultura Armena – oggi a Venezia – che con le sue collane ha approfondito lo studio di molti documenti specifici. Suoi colleghi, come Maurizio Boriani e Gayanè Casnati, ne hanno raccolto l’eredità.
Anche in Piemonte – regione da cui proviene oggi una serie di giovani storici dell’arte armena sparsi qua e là in Italia – lo studio dell’architettura armena ha una vicenda propria, grazie a Giulio Ieni e Claudia Bonardi. In Italia, del resto, nascevano già negli anni Settanta due cattedre di Letteratura armena, a Bologna e Venezia, di cui sono stati titolari Gabriella Uluhogian e Boghos Levon Zekiyan. Negli anni Settanta e Ottanta venivano organizzati grandi simposi interamente dedicati all’arte armena, che prendevano in considerazione tutte le arti, con una vastissima partecipazione di studiosi e una mole ponderosa di studi pubblicati negli atti. I seminari annuali dell’Associazione Padus-Araxes e la relativa rivista hanno spesso ospitato temi storico-artistici.
Nel 2015 io e Aldo Ferrari, che insegna Letteratura armena a Ca’ Foscari, abbiamo ideato un seminario, ormai da alcuni anni organizzato insieme alla cattedra di Storia dell’arte medievale di Stefano Riccioni. Includere la storia dell’arte armena nel corpo maggiore degli studi storico-artistici dovrebbe aumentare l’interesse per questa produzione. Al convegno internazionale del 2019 a Venezia hanno preso parte alcuni studiosi illustri insieme a ricercatori più giovani, realizzando una cerniera tra generazioni che appare di buon auspicio. Va aggiunto che anche gli studi su Urartu, la civiltà che occupava l’altopiano armeno dal IX al VI secolo a.C. hanno una loro storia italiana fin dagli anni Sessanta, grazie al lavoro di Mirjo Salvini, oggi proseguito da Roberto Dan. Non esiste ancora in Italia, invece, una cattedra universitaria unicamente dedicata all’arte armena.
I nostri incontri con l’Armenia non si concludono con questo articolo. Nel prossimo incontro con Marco Ruffilli vedremo quali rischi ha corso il patrimonio culturale armeno negli anni passati e quali rischi corre ancora oggi.