«In nessun modo mai spirituale»: l’amore, il morbo e il corpo nella poesia di Patrizia Cavalli 

Tempo di lettura stimato: 16 minuti
Al centro della poesia di Patrizia Cavalli ci sono il corpo e le sue rappresentazioni. Corpo-altro, corpo-nulla, corpo liquido: un organismo estremamente fragile che l’amore e la malattia hanno il potere di trasformare.

 

Il corpo-altro e il corpo-nulla

Un morbo, un morbo di certo non celeste,
un morbo nero mi prende senza febbre,
un morbo di non febbre, anche se la sento
a quarantuno: un’improvvisa stretta m’infeziona,
travasano gli umori, m’affogano le cellule,
tutte nemiche ormai, non più sorelle, mi lottano
negli organi, in anarchia mi cacciano
dalla mia sede propria, mi tolgono alla carne
che era mia, padrone immobiliari, e io
di nuovo sola in periferia.

Lo scenario è desolante. C’è l’io, c’è il suo corpo e un morbo che l’ha invaso, di cui sappiamo solo che è «nero» e «senza febbre». È un morbo senza nome e senza origine, eppure in poco tempo è capace di scombinare le carte: l’io ha perso autorità sul suo corpo (la sua «sede propria») e viene cacciata da una moltitudine di cellule in ribellione, costretta alla solitudine della periferia.

La poesia fa parte di Sempre aperto teatro, la quarta raccolta di Patrizia Cavalli, pubblicata nel 1999. Un morbo, un morbo di certo non celeste si trova nella sezione Per garanzia animale, che è una storia dentro la storia. Se Sempre aperto teatro è uno spazio dedicato alla finzionalità dell’amore, Per garanzia animale è la certezza che l’amore – quella fame che si spalanca dentro ogni essere umano – torna sempre. Per garanzia animale è una sezione che si svolge tutta all’aperto (le ambientazioni di Cavalli oscillano sempre tra spazi chiusi e aperti), perché la ricerca d’amore è una vera e propria caccia: «Il cuore gonfio, di nuovo pronto / a sciogliersi e a mischiarsi, uscivo in cerca / del mio appuntamento tra la sicura / ricchezza delle piazze» (Poi d’improvviso per garanzia animale, vv. 3-6). Ma l’io di questa sezione è una predatrice che cerca e insieme teme la sua preda («O dio ormonale, non farmi male!», Bella giornata ancora, esclamazione, v. 3), perché quando l’amore arriva, il corpo cede, si sfalda:

Immobile nel centro delle cose
senza gerarchia nella materia
tutta materia dolce in varie forme
ognuna forte nobile e assoluta
cedevolmente appaio alla natura,
io senza proprietà, di nuovo sua.

Questo testo si trova più o meno a metà della sezione, seguito proprio da Un morbo, un morbo di certo non celeste. Se l’io di Immobile nel centro delle cose è persa in una materia dolce e multiforme (il suo corpo sfatto), l’io di Un morbo non ha neanche più il privilegio della carne. Nella storia di Un morbo l’io è la vittima, condizione che viene evidenziata anche dall’uso transitivo di verbi normalmente intransitivi[1]: «un’improvvisa stretta m’infeziona», «m’affogano le cellule», «mi lottano / negli organi». Anche i verbi usati nella seconda parte del testo hanno un ruolo importante: nella climax verso la separazione marcano un prima e un dopo in cui il dopo significa inesistenza, o allontanamento da qualcosa che prima era vicino. Il «travasare» di «travasano gli umori» (v. 5) implica lo svuotamento di qualcosa che era pieno. L’«affogare» di «m’affogano le cellule» (v. 5) è la conseguenza di questo lago artificiale nato dal travaso di umori. Ancora, il «cacciare» di «in anarchia mi cacciano / dalla mia sede propria» (vv. 7-8) comporta un allontanamento. E quasi alla fine c’è «togliere», in «mi tolgono alla carne / che era mia» (vv. 8-9), il verbo di privazione per eccellenza. Ma la drammaticità esplode nel verso finale, il più breve e isolato: «di nuovo sola in periferia», dove si passa dal rumore della battaglia al silenzio della solitudine, quello di un essere ridotto a nulla, un contenuto che non è più niente senza il suo contenitore. È in questo testo che prende forma «la dimensione del corpo come resto»[2] , così tipica della poesia di Cavalli, questa immagine ricorrente di un corpo lontano, irriconoscibile. Un morbo, un morbo di certo non celeste è esemplare, perché in Cavalli la relazione tra l’io, il corpo e la malattia è così presente da essere matrice di poesia. L’io si definisce «malata» già nella prima raccolta, Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974):

Sono malata sono malnata
e poi tanto dico sempre
le stesse cose.

Ma il «morbo» vero e proprio compare per la prima volta in un testo de Il cielo (1981), la seconda raccolta:

Fuori in realtà non c’era cambiamento,
è il morbo stagionato che mi sottrae alle strade:
dentro di me è cresciuto e mi ha corrotto gli occhi
e tutti gli altri sensi: e il mondo arriva
come una citazione.
Tutto è accaduto ormai, ma io dov’ero?
Quando è avvenuta la grande distrazione?
Dove si è slegato il filo, dove si è aperto
il crepaccio, qual è il lago
che ha perso le sue acque
e mutando il paesaggio
mi scombina la strada?

Un «morbo stagionato», antico, che separa (dalle strade, dal mondo esterno) e trasforma il corpo («mi ha corrotto gli occhi / e tutti gli altri sensi»). Come in Un morbo, c’è un senso di estraniamento e solitudine dell’io («ma io dov’ero?»). E anche se questi testi sono opachi, enigmatici, non è difficile immaginare la natura di un male tanto potente e spietato. Soprattutto se si va oltre la poesia. In un’intervista per Repubblica del 2016, Patrizia Cavalli dice che da quando il cancro ha riempito il vuoto della sua ipocondria, per assurdo non si sente più depressa. Lei, che di depressione ha sempre sofferto: «Fin da giovanissima, al liceo. Poi si è ripresentata in periodi diversi. Mi abbandonavo a me stessa e fissavo il vuoto. Nella poesia l’ho descritta. Uno stato di separazione».[3] E cosa può essere, se non depressione, un male che ti lascia «sola in periferia», che ti «sottrae alle strade», che ti crepa la mente e rende il mondo irriconoscibile? E sembra sempre lei, quel morbo nero, la responsabile di un corpo che in Pigre divinità e pigra sorte, la quinta raccolta del 2006, non è più solo lontano, ma assente:

Come santa all’inedia consegno
ogni pezzo del mio macchinario,
lo depongo su frigido altare,
m’inginocchio difronte al portento
del mio nulla: in preghiera l’osservo.

(Cosa fare del nostro cervello, vv.10-14)

È un corpo macchinario, un corpo in pezzi, una custodia vuota di cui l’io non fa più parte. È un corpo che non ha più importanza, un corpo-nulla simile a quello delle mistiche che nel Medioevo praticavano il digiuno. Come Caterina da Siena o Chiara d’Assisi, l’io di Cavalli si consegna all’inedia; e se per le sante privarsi di cibo era un modo per purificare il corpo e prepararlo a un ricongiungimento con Dio, per l’io di Cavalli è un modo per sentire – non più con il tatto ma con la vista – quel corpo che il morbo sta cancellando. Una volta fuori da sé, spettatrice dei propri resti («ogni pezzo del mio macchinario»), riesce finalmente a vedere quel «nulla» che è anche un «portento». Viene in mente Zanzotto e il suo Esistere psichicamente, in cui il corpo è solo un’invenzione: un’«artificiosa terra-carne», «non è nulla / ed è tutto ciò ch’io sono» (vv 1; 13-14): un’illusione della mente, eppure l’unica testimonianza visibile dell’esistenza. Un niente, un tutto.

Il corpo liquido

Sarebbe sbagliato pensare che il morbo sia l’unico in grado di modificare il corpo. Il corpo è un organismo estremamente fragile nella poesia di Cavalli, e c’è qualcos’altro che ha il potere di trasformarlo. La sezione Per garanzia animale (quella che ospita Un morbo), dopo un breve excursus sulla malattia, finisce com’è iniziata: con l’amore. Ma se all’inizio della sezione l’io desidera un nuovo amore, un nuovo corpo di donna, alla fine è proprio dall’amore che viene distrutta. Qualche pagina dopo Un morbo c’è un testo che si chiama D’improvviso come fosse un raffreddore:

D’improvviso come fosse un raffreddore
torna l’amore. Non è un raffreddore
è un mal di testa che toglie ogni pensiero
alla mia testa e lo fa diventare
miele al cuore. Ma forse è una minestra
che ricadendo da una certa altezza
scioglie il mio corpo in tiepida emulsione:
tutto commosso corpo da trasporto
verso una lontanissima stazione.

Prima un raffreddore, poi un mal di testa, poi ancora una minestra. L’amore è un dolore, un liquido che scioglie il corpo e – come il morbo – lo porta lontano. Nella poesia di Cavalli la perdita di materia, la liquidità del corpo, emerge soprattutto quando l’io si trova di fronte all’amante o all’amata. In Datura (2013), la penultima raccolta, l’io è «senza carne qui di fronte a te» (Questa notte perfetta, questa ora così dolce, v. 5). Ne L’io singolare proprio mio, la terza raccolta del 1992, capita che l’io abbia bisogno del corpo dell’altra per riacquistare forma, solidità: «Quella sostanza spessa, promessa di rimedio / fammi entrare. Riportami al mio limite / circondami, con le carezze segna i miei contorni, / col peso del tuo corpo dammi corpo» (La giornata atlantica, vv. 29-32). Ma la liquidità del corpo dell’io è messa allo stremo in un testo di Sempre aperto teatro, la stessa raccolta di Un morbo:

Come in presenza tu, per tua virtù,
del corpo che ti tiene, intera ora appari,
materia compattissima, tuo spazio
tuo presente, tutta presente in questa
superficie, scurezza della pelle, tu senza
nostalgia, senza passato, rappresa nello spazio
e nel presente, monade stretta che non si lascia
entrare, chiesa severa erta
che si basta in sé stessa e non decade,

e io sempre rubata mescolata
in liquido volatile che espatria,
fiume corrente che non raggiunge il mare,
pensiero sciolto, perduto e mai raccolto,
in sperpero autunnale.

Due strofe, una di nove e una di cinque versi. La prima, interamente dedicata al corpo dell’altra, che è un concentrato di materia ed energia («materia compattissima», «rappresa nello spazio / e nel presente»), un organismo ontologicamente superiore e impenetrabile («monade stretta che non si lascia / entrare», «chiesa severa erta»). Quando lo spazio di questo corpo finisce, al verso 9, c’è un respiro fortissimo prima della seconda strofa, una distanza grafica ma anche fisica: quella tra io e tu. E se al primo corpo Cavalli dedica nove versi, al secondo appena cinque, a sottolinearne il disvalore, la pochezza. Qui, la liquidità dell’io è assoluta («mescolata», «liquido volatile», «fiume corrente», «pensiero sciolto»), una liquidità che è anche lontananza («che espatria») e inconsistenza («perduto», «sperpero autunnale»). È facile notare, adesso, quanto il senso di separazione dal corpo accomuni i testi sull’amore e quelli sulla malattia. Nella poesia di Cavalli, amore e malattia spesso indicano la stessa cosa: una creatura con due facce, una maledizione che ha il potere di trasformare il corpo, o di renderlo estraneo.

Il corpo in rovina

Il sodalizio tra eros e morbus ha un sapore antico. C’è un testo all’interno di Pigre divinità e pigra sorte che richiama fortemente la poesia medievale italiana:

Incapace d’amore, Amore Fisiologico
con i più bassi mezzi mi tortura.
Ha a sua disposizione la vastità del corpo
reso ancora più vasto dal dolore.
Il sangue raspa e preme contro vene
e arterie e l’osso sterno che ripara
il cuore si sbriciola in acri trafitture.
Un sodalizio di lacrime e languore
si addensa nella zona occipitale
mentre una lama attraversa la cervice
e scende lunga quanto la dorsale.
Filo spinato elettrificato
penetra il manto della pia madre
e sparge scariche nel lobo temporale.
Il nervo vago ormai terrorizzato
lascia le redini e imbizzarrisce il cuore.
La linfa senza ordini e governo
non riesce più a fare il suo viaggio
si ferma sui binari dove capita
o ingorga le stazioni ghiandolari.
Solo terrore c’è e solo smarrimento.
E tutto questo per farmi confessare
che io non sono in nessun modo mai spirituale.

Incapace d’amore racconta di un corpo allo sbaraglio, smarrito, terrorizzato. Un corpo preso in ostaggio da Amore Fisiologico, un amore che è una contraddizione perché incapace di amare; un personaggio che ricorda quel «signore di pauroso aspetto» che compare a Dante nella Vita Nova e gli dice: «Ego dominus tuus». Incapace d’amore è il racconto di un dolore più fisico che mai, scritto con una lingua più anatomica che poetica: la pressione del sangue sbriciola lo sterno, e il cuore si rompe, senza il suo riparo; «lacrime e languore» stringono un patto e invadono la zona occipitale del cervello; un dolore che buca come una lama scivola lungo tutta la spina dorsale, e come un «filo spinato elettrificato» penetra la pia madre e «sparge scariche nel lobo temporale»; il nervo vago – da vagus, ‘vagabondo’ – non è più capace di tenere a bada il cuore e lo fa imbizzarrire. Insomma, il corpo è nel caos. Vale la pena soffermarsi su quel «sodalizio di lacrime e languore» che «si addensa nella zona occipitale», la parte del cervello che controlla la vista. È qui che si instaura il legame più profondo con la poesia medievale. L’offuscamento degli occhi non va inteso come cecità in sé per sé, ma come incapacità di vedere la realtà, di interpretarla, stretta conseguenza della malattia d’amore, un argomento centrale nel dibattito sulla patologia amorosa tra gli intellettuali del Medioevo. Dino del Garbo, nel commento a Donna me prega di Cavalcanti (una poesia che è prima di tutto un trattato medico), afferma che una delle caratteristiche della patologia amorosa è la «condizione di assenza di giudizio razionale nell’innamorato […] In particolare, l’obnubilamento della capacità di discernere il buono, il bello e il giusto [dunque, l’obnubilamento della ragione] che conduce a riconoscere come superiore, e a desiderare sopra ogni altra, cosa o persona che obiettivamente, secondo ragione, non giustificherebbe tale presenza»[4].
Natascia Tonelli fa notare che sia in Dante che in Cavalcanti è presente il tema della fuga degli spiriti vitali, in particolare quelli «visivi», che abbandonano il corpo una volta che Amore si impossessa dell’innamorato:

Di fatto, sarà con ogni probabilità Guido prima di chiunque altro l’interlocutore cui Dante allude come a colui «in simile grado fedele d’Amore» da non aver bisogno di nessun approfondimento quanto alla cagione del sonetto Con l’altre donne mia vista gabbate: «tra le parole dove si manifesta la cagione di questo sonetto, si scrivono dubbiose parole, cioè quando dico che Amore uccide tutti li miei spiriti, e li visivi rimangono in vita, salvo che fuori de li strumenti loro» (Vita Nuova, XIV 14) […] l’argomento degli spiriti uccisi o messi in fuga da Amore è dei più familiari fra le drammatiche rappresentazioni dell’amico [Cavalcanti], che appunto, anche al proposito specifico degli spiriti visivi, gli spiriti che vengono fatti uscire dai loro “strumenti”, gli occhi, si pronuncia conformemente: «i quali [spiritei] eran venuti per difesa / del cor dolente che li avea chiamati. / Questi lasciaro agli occhi abbandonati» (Vedete ch’i’ son un che vo piangendo, vv. 15-17); o ancora: «Allor si parte ogni vertù da’ miei [occhi]» (A me stesso di me pietate vène, v. 12).[5]

Gli occhi vuoti dell’innamorato, privati di ogni capacità di vedere – e quindi di discernere il bene dal male – ricordano gli occhi dell’io in Incapace d’amore, annebbiati di lacrime e languore, rubati anche loro della propria capacità di vedere, di capire. C’è un altro aspetto, in Incapace d’amore, che richiama fortemente la poesia di Dante e Cavalcanti. Incapace d’amore infatti non è solo una sintomatologia d’amore, ma anche una guerra ad armi impari tra un carnefice e la sua vittima. Amore Fisiologico è «tortura», è «acri trafitture», è una «lama» che «attraversa la cervice»; l’io, indifeso, subisce la pena. Anche per Cavalcanti Amore è figlio della guerra, fatto di un’oscurità che viene da Marte: «In quella parte dove sta memora / prende suo stato, sì formato come / diaffan da lume, – d’una scuritate / la qual da Marte vene e fa dimora» (Donna me prega, vv. 15-18). Ma l’io di Incapace d’amore assomiglia soprattutto a quello delle rime petrose, quell’io che rimane impotente di fronte ai «colpi mortali» dell’amata:

Ella ancide, e non val ch’uom si chiuda
né si dilunghi da’ colpi mortali
che, com’avesser ali,
giungono altrui e spezzan ciascun’arme,
sì ch’io non so da lei né posso atarme

[…]

E’ m’ha percosso in terra e stammi sopra
con quella spada ond’elli uccise Dido
Amore, a cu’ io grido
«merzé!», chiamando, e umilmente il priego,
ed e’ d’ogni merzè par messo al niego.

(Dante, Così nel mio parlar vogli’esser aspro, vv. 9-13; vv. 35-39)

A proposito della canzone, Giunta scrive che «ciò che va osservato è soprattutto questo, che tutti quanti gli oggetti e i personaggi, anziché vivere sulla scena, vivono soltanto nelle metafore che il poeta adopera per descrivere il suo stato»[6]. Anche Incapace d’amore è una grande metafora, nulla accade veramente. Eppure, i personaggi di Dante e di Cavalli sono incredibilmente vivi, forse proprio perché la loro azione si consuma nel corpo: sembra di sentirli addosso i «colpi mortali» della «bella pietra»; la spada di Amore, così simile alla «lama» di Amore Fisiologico; gli organi, così antropomorfi.

Sentire il corpo: il doppio effetto dell’amore

Perdita della ragione, dolore, guerra. Dopo il racconto di un corpo allo sbando, Incapace d’amore si conclude così:

Solo terrore c’è e solo smarrimento.

E tutto questo per farmi confessare

che io non sono in nessun modo mai spirituale.

Eccolo, lo scopo di tanta sofferenza: dire «io non sono in nessun modo mai spirituale», nemmeno nell’amore, che qui è qualcosa di puramente fisico. Questi ultimi versi sono fondamentali per concludere il discorso iniziato con Un morbo, un morbo di certo non celeste, perché ammettere di non essere spirituale non significa solo affermare che amore è corporalità, ma significa anche affermare il proprio corpo, significa dire «io sono il mio corpo attraverso l’amore, il dolore che sento». Questa è una delle poche poesie di Cavalli in cui l’io si riconosce nel corpo, lo sente, e può dichiararne l’esistenza. Qui non c’è separazione. Amore fa male, manda in tilt il sistema, ma è un sistema che esiste. Non è lontano, in pezzi, o liquefatto. Ed è qui che forse si può arrivare a una conclusione: se è chiaro che il morbo (depressione, malessere, o qualcos’altro) porta sempre un distacco tra l’io e il suo corpo, l’amore no. L’amore, nel mondo poetico di Cavalli, ha in realtà un doppio effetto: se a volte, come il morbo, implica una perdita di corpo, altre – quando è fisico – funziona  da collante potentissimo. Cavalli, in fondo, ci insegna che l’amore non è solo una tragedia: può essere l’unico modo per sentire il nostro corpo precario, per sentire che esistiamo davvero, al di fuori della nostra mente.

[1] M. Bergamin, Il Soggetto contemporaneo nella poesia di Anedda, Cavalli e Gualtieri. Appunti per un rinnovamento dello sguardo critico, in «Ticontre. Teoria Testo Traduzione», 8, nov. 2017, p. 15, http://www.ticontre.org/ojs/index.php/t3/article/view/184.

[2] Ivi, p. 123.

[3] L. Bentivoglio, Patrizia Cavalli: “Io, la malattia e le mie pene d’amor perdute”, “Repubblica”, settembre 2016, https://www.repubblica.it/cultura/2016/09/07/news/patrizia_cavalli_io_la_malattia_e_le_mie_pene_d_am

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[4] N. Tonelli, Fisiologia della passione. Poesia d’amore e medicina da Cavalcanti a Boccaccio, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2015, p. 27.

[5] Ivi, p. 85-86.

[6] Dante, Rime, a cura di C. Giunta, Milano, Mondadori, 2021, p. 424.

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Annalisa Bardelli

Vive ad Arezzo e lavora come insegnante di italiano a stranieri. Si è laureata all’Università di Siena in Lettere Moderne, con una tesi su Patrizia Cavalli.

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