Qui di seguito il documento diffuso in rete contenente le riflessioni e gli spunti proposti alla pubblica discussione dai protagonisti di questa vicenda, cui fa onore non essere stati affascinati dalle lusinghe della didattica 2.0 e del conseguente marketing concettuale.
Da anni i governi del nostro paese riducono fortemente le risorse per la scuola pubblica: hanno tagliato oltre otto miliardi di euro in tre anni, in questo e nello scorso a.s. il taglio di insegnanti elementari ha decretato la scomparsa del tempo pieno, .….. però il MIUR ha stanziato solo nel 2013, nell’ambito del Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD), decine di milioni di euro per fornire le scuole di lavagne elettroniche e per “digitalizzare” la didattica, modificando l’ambiente di apprendimento attraverso la dotazione individuale di tablet e computer ad un certo numero di alunni.
Molti tra genitori e insegnanti, in accordo con le motivazioni del MIUR, ritengono che questo possa favorire l’apprendimento dei bambini e tenerli al passo con lo sviluppo tecnologico della società. Del resto – si afferma – giocano spesso con i gadget elettronici, è bene che la scuola insegni loro a usarli in maniera corretta.
Questa è l’impostazione della teoria sui “nativi digitali”, secondo cui i bambini e i ragazzi riuscirebbero a navigare in maniera fluida nel flusso d’informazioni che li circonda, essendo in grado di gestire più stimoli in parallelo (multitasking). Ma tale teoria è fondata su basi scientifiche o è pura propaganda a fini commerciali? Finché si tratta di un dibattito intellettuale, poco male, il problema si pone seriamente quando su di essa si costruiscono le politiche scolastiche.
Proprio in applicazione di questa teoria, infatti, sono nate le azioni del MIUR “Cl@ssi 2.0” e “Scuol@ 2.0” che rientrano nel PNSD insieme ad altre 2 azioni: LIM in classe ed Editoria Digitale (la sostituzione dei libri di testo cartacei con gli e-book a partire dal 2014). Partendo da una presunta “mutazione antropologica” secondo cui i giovani avrebbero sviluppato il digitale come nuova e vera lingua madre, si vuol modificare radicalmente la didattica, realizzandola attraverso i media digitali: per questo si stanno fornendo in alcune classi tablet/pc a ogni alunno. Non quindi l’utilizzo episodico ma “costante e diffuso” dei dispositivi digitali.
Pertanto il problema non è lo scontro, come alcuni vorrebbero far credere, fra sostenitori e contrari alla tecnologia: com’è possibile soltanto ipotizzare che vi siano persone contro la tecnologia in quanto tale, dal momento che in ogni istante della nostra vita utilizziamo e pratichiamo i prodotti della tecnologia? Allora le accuse di “luddismo” e “oscurantismo” verso chi vuol riflettere criticamente sono ingiustificate e strumentali e servono a sviare l’attenzione dal vero punto della discussione. Serve serietà, non superficialità né feticismo o prevenzione ideologica, perché qui non si parla di un confronto sull’uso corretto o meno di gadget digitali da parte degli adulti, bensì si vuol valutare quale sia l’impatto dell’uso intensivo delle tecnologie digitali nello specifico campo dell’apprendimento e della formazione dei soggetti in crescita, bambini e adolescenti.
La pedagogia, la psicologia dell’età evolutiva, le neuroscienze sostengono che nella scuola dell’infanzia e primaria si apprende con il corpo tutto intero, nel rapporto concreto con gli oggetti, gli ambienti, le persone, il mondo vero. In questa fase, attraverso le esperienze i bambini costruiscono la propria intelligenza, si formano le “tracce mnemoniche” che resteranno per tutta la vita. Il problema è che se alcuni passaggi si saltano, da adulti non potranno più essere recuperati.
È come per l’alimentazione, nessuno si sognerebbe di dare alimenti da adulti a dei neonati: anche nell’apprendimento bisogna rispettare i tempi e i modi, è necessario fornire gli stimoli adeguati ai bisogni di ogni fase dello sviluppo.
Numerosissimi studi condotti da oltre 15 anni negli USA, in paesi europei, in Nuova Zelanda, ecc. -documentati e consultabili – hanno verificato che l’utilizzo precoce dei media digitali nei bambini ha conseguenze negative su diverse abilità cognitive quali attenzione, memoria, sviluppo del linguaggio e dell’intelligenza, che influiscono sui processi emotivi, sull’autocontrollo, sulla socializzazione reale fino a condizionare le posizioni etico-morali e la stessa identità personale. Inoltre, è ormai acclarato che l’utilizzo intensivo dei media digitali produce dipendenza ed anche significativi danni alla vista.
In Corea del Sud, il paese con la maggior diffusione di media digitali nelle scuole, un’indagine ministeriale ha evidenziato che già nel 2010 il 12% degli studenti avevano dipendenza da Internet: perciò proprio in questo paese è stata coniata la definizione di “demenza digitale”.
Persino l’indagine PISA/OCSE (che effettua una misurazione massiva e quantitativa e non analizza gli aspetti socio-affettivi, etici, le peculiarità individuali ed il pensiero divergente) indica che l’uso di Internet a scuola determina risultati scolastici peggiori, e ugualmente l’uso di tablet ed e-book. Addirittura, a Los Angeles, dopo aver speso un miliardo di dollari per informatizzare le scuole, hanno fatto marcia indietro perché si sono accorti che tablet e internet sono “armi di distrazione di massa”.
Ma allora perché alcuni governi non tengono conto delle esperienze passate e di tutte queste risultanze scientifiche ed invece cantano le lodi dell’apprendimento digitale, introducendolo massicciamente nelle aule?
L’ex ministro dell’istruzione Profumo, parlando nel 2012 del “Decreto Crescita” e della sostituzione dei libri con e-book ha dichiarato: “si assiste, a livello mondiale, al passaggio dal cartaceo al digitale. La nascita di giganti quali Amazon è una testimonianza di questa tendenza del mercato. La norma quindi, va anche letta all’interno di un più generale e crescente fenomeno di sviluppo dell’editoria digitale”. È chiaro: è il mercato che dice alla scuola quello che deve fare! Le multinazionali del digitale, dal canto loro, tentano di minimizzare i risultati delle molte ricerche indipendenti che mettono in guardia, e adottano la stessa strategia messa in campo quando si trattava delle conseguenze del fumo da tabacco. Dicono, come allora, “non è provato che faccia male” oppure “gli esperti sono divisi” e intanto con i loro potenti mezzi economici finanziano studi di parte e lanciano campagne pubblicitarie che spingono verso l’uso dei gadget digitali da parte dei bambini.
In discussione è il ruolo della scuola: deve adeguarsi acriticamente a tutti gli input che arrivano dall’esterno e alle direttive ministeriali o deve valorizzare la sua funzione di “coscienza critica” della società? Ancora: è valido il principio per cui qualsiasi innovazione va considerata positiva e valida solo perché tale?
In conclusione, i dati sono numerosi e allarmanti: i decisori politici, gli insegnanti, i genitori, gli educatori, gli intellettuali dovrebbero in coscienza chiedersi se il battage pubblicitario a favore della scuola digitale racconti la verità e, comunque, adottare per lo meno un ineludibile “principio di precauzione“. Sarebbe il caso di decretare una moratoria temporanea dell’affidamento di gadget digitali e schermi ai bambini affinché si possa realizzare un’analisi approfondita degli studi internazionali già esistenti e si avviino studi indipendenti, seri ed interdisciplinari in Italia liberi da atteggiamenti pregiudiziali e “interessati”.