Ci alziamo, ci prepariamo, andiamo a fare lezione. Contiamo chi c’è. In certe classi quasi tutti (quelle terminali), in altre quasi nessuno. Questo problema mi tormenta da giorni. Provo a mettermi nei loro panni. E mi chiedo: ma io cosa farei?
Hanno 17, 18, 19 anni o poco più. Sono abituati – come ci ha spiegato in un recente corso di formazione nella mia scuola la dottoressa Nicoletta Simionato – al “qui e ora”. Gli adolescenti di oggi non riescono a investire su un futuro. Spesso non lo vedono proprio. Hanno un modo diverso dal nostro di affrontare la vita. Vivono in una immanenza continua. Per loro la progettazione non ha il valore che ha per noi. Non sono sequenziali, ma reticolari.
Quindi dal loro punto di vista oggi la scuola “non c’è più”.
Se sono fortunati, dietro hanno una famiglia che costruisce per loro un futuro, che insiste, che li inchioda al pc, che chiede, che pretende. Se sono malleabili, forse il futuro se lo lasciano costruire.
Per tutti gli altri c’è solo l’immanenza. Se non mi reco in un luogo, quel luogo non c’è. Lo sforzo per credere che io ci debba andare “virtualmente” è enorme.
Per tutti gli altri, molti dei miei studenti, la motivazione a studiare non c’era già prima. Ora quindi gli stiamo chiedendo un atto di fede enorme. Una specie di scommessa su un futuro possibile che non esiste. Non sanno se e quando torneranno a scuola, se e quando ci saranno esami, se e come saranno valutati. Tutto rema contro.
Dovrebbero investire su qualcosa che in concreto non esiste. La scuola non c’è più. L’edificio non c’è più. Le lezioni non ci sono più. Le campanelle non ci sono più. Le giornate non ci sono più. I ritmi sonno/veglia tutti sballati. È saltata ogni routine. Ogni tanto vedono una faccia che parla su uno schermo. Ogni tanto ricevono compiti. Li fanno molto spesso. Poi scompaiono. Per giorni. Poi riappaiono.
Stiamo davvero affrontando un periodo della storia che mai si era visto prima, e loro non hanno, come me, strumenti sufficienti. Non parlo di strumenti materiali, device, aggeggi, bande, linee. Quelle magari ci sono pure, anche se non sempre. Parlo di credere di poter fare un qualcosa che rivesta senso senza avercela davanti davvero, quella cosa… Il saper investire in un progetto richiede una forza d’animo enorme. Se il progetto non è condiviso già a prescindere, la forza d’animo deve essere ancora maggiore. Devono trovarsi e darsi da soli una organizzazione, una motivazione.
Se poi questo progetto salta, per vicende imprevedibili, i primi a non crederci più sono proprio quelli che già non ci credevano prima.
Nella classe quinta bene o male rimangono: un po’ per rispetto, un po’ per l’esame, un po’ perché c’è un rapporto consolidato da 5 anni. Nelle altre classi il lavoro si complica moltissimo. Non ne vedono il senso. Siamo noi adulti che dobbiamo trasmetterglielo, ma spesso perdiamo anche noi le coordinate. Anche noi siamo in balia di un tempo sospeso e non prevedibile. E quindi anche noi diventiamo fluttuanti, incerti. Mentre i ragazzi avrebbero bisogno di un appiglio sicuro, di un guardiano del faro.
«Mi dica: perché lo devo fare?», mi sembra che mi chiedano. Ma non osano. Invece vorrei – e l’ho già in parte fatto – sfidarli proprio su questo terreno. Ditemi cosa vi aspettate da noi e noi proveremo a rispondervi.
Di tutto questo immane lavoro di questi mesi credo che rimarrà ben chiara un’idea: la scuola che è solo trasmissione e non costruzione condivisa di sapere è morta. La scuola è un’alleanza che sta in piedi se tutti ci mettono qualcosa di proprio a cui tengono. Il secondo concetto che ci porteremo dietro da questa esperienza è “lavorare sull’essenziale”, come si diceva oggi con le colleghe in un corso online tenuto da Simone Giusti. L’essenziale nei contenuti, l’essenziale nelle competenze, l’essenziale nelle relazioni. L’impalcatura che conteneva tutto il nostro mondo non c’è più. Dobbiamo tenerlo in piedi con altri sistemi e altre coordinate, di cui per ora non sappiamo ancora quasi nulla, ma forse ne intravediamo i contorni.