L’uscita nella collana “bodiniana” del volume “Allargare il gioco”. Scritti critici (1941-1970) a cura di Antonio Lucio Giannone (BesaMuci, Nardò 2021) è un’ottima occasione per tornare a parlare di una figura di assoluto rilievo del nostro Novecento: Vittorio Bodini. Autore di uno dei più bei libri di poesia degli anni Cinquanta, La luna dei Borboni – oggi disponibile in questa stessa collana, con commento di Antonio Mangione –, classe 1914, al pari di altri compagni generazionali Bodini sa creare connessioni suggestive e nutrienti tra la sua terra natale – il Salento – e le correnti più vive della cultura internazionale, tenendosi sempre lontano dalle secche del provincialismo, sia quello di chi gesticola dal fondo di piccole patrie sia quello, dal fiato se possibile ancor più corto, di chi riconosce dignità d’arte soltanto a ciò che viene prodotto nelle grandi metropoli straniere.
Non a caso questo libro si apre con un articolo scritto, nel marzo del 1941, per commemorare la morte di James Joyce, e si chiude con un’affettuosa, magistrale “lettera aperta” del 1970, indirizzata a un conterraneo, di oltre vent’anni più giovane, ma per molti versi a lui affine, e destinato a una grande fortuna europea: Carmelo Bene. Tra i due estremi temporali – ma quasi tutti i contributi si collocano tra il 1941 e il 1953 – rilievi e osservazioni su figure di primo piano della storia letteraria occidentale, tra cui Poe, Kafka, Proust, i cui libri “proibiti” (perché invisi al Regime) il giovane, squattrinato Bodini aveva scoperto vagabondando nelle librerie fiorentine sul finire degli anni Trenta, dove li acquistava al prezzo di qualche pasto saltato.
La ricca silloge approntata da Giannone presenta materiali indispensabili per una più approfondita conoscenza dell’opera bodiniana, ma si fa apprezzare anche come vivace mosaico di storia della critica. Si segnalano in particolare le corpose pagine dedicate ad alcune figure chiave del panorama letterario italiano novecentesco.
In largo anticipo sulle interpretazioni di Sanguineti, risalenti agli anni Sessanta, Bodini rilegge Gozzano in chiave contrastiva, sul piano della lingua e dei temi, rispetto a D’Annunzio, in certa misura prefigurando quella linea Gozzano-Montale poi destinata ad ampia fortuna critica.
Riconosce in Salvatore Quasimodo l’iniziatore della moderna poesia del Mezzogiorno, in quanto autore capace di recuperare un paesaggio rimasto fino ad allora poco esplorato, tagliato fuori dalla linea dominante della geografia lirica italiana, e di portarlo alla ribalta della letteratura nazionale. Un Quasimodo, dunque, per certi versi più vicino alle vigne riarse di Scotellaro che a quelle degli smaltati colli toscani.
Ancora, lo scrittore leccese è tra i primi a scommettere sulla qualità assoluta del lavoro di Giorgio Caproni, e tra i primi a sollecitare, in uno studio del 1959, un ripensamento dell’opera in versi di Mario Tobino, a suo giudizio il solo vero poeta del nostro antifascismo, o perlomeno il solo poeta sorto in seno alla Resistenza attiva.
Quanto alla tradizione romanzesca italiana, Bodini non esita a evidenziarne i limiti: la povertà di opzioni, la miopia in termini di temi e spunti linguistici. Tra le rare eccezioni segnala un patito, come lui, dell’azzardo, Tommaso Landolfi, un prosatore sin dagli esordi disposto a rischiare, ad “allargare il gioco”, come scrive, ossia a espandere il campo del narrabile onde sparigliare il tavolo del già tentato. Anche in questo Bodini si dimostra lungimirante, se Landolfi è oggi più che mai figura di riferimento per tanti romanzieri di indiscusso valore, a partire da Michele Mari.
Sul piano della storia letteraria vale la pena notare come il raffinato interprete di Cervantes, Quevedo, Góngora mal tollerasse ogni risaputo, convenzionale inquadramento epocale. Così, in un saggio dell’agosto 1945, polemizzando con l’imperante concezione uniforme, solenne e imbalsamata del nostro Quattro-Cinquecento, Bodini si arrischia a definire il Rinascimento una «civiltà impura», conflittuale e contraddittoria, insomma un periodo di crisi, come nei decenni successivi gli studiosi si affanneranno a spiegare.
Ancor più appassionata è la sua difesa della civiltà barocca: non una morta gora della storia, non un periodo di decadenza, secondo un altro luogo comune dell’epoca, bensì, scrive, un’eccelsa stagione della musica e della cultura plastica e figurativa europee, vero e proprio retroterra del Novecento. Bodini ricorda che i maggiori rappresentanti della cultura letteraria secentista vissero in terra di Spagna, e, per quel che concerne la penisola, invita a leggere Galileo piuttosto che Marino, ossia chi spalancava nuovi mondi (anche formali) piuttosto che chi si attardava a far esplodere effimeri fuochi d’artificio.
Venendo al Ventesimo secolo, nei suoi contributi sparsi lo scrittore si sofferma sull’esperienza del futurismo, da lui tangenzialmente sfiorata anche come autore, e soprattutto dell’ermetismo. Le opere nate in seno a quella piccola fratria che Bodini conobbe e fiancheggiò senza mai entrare a farne parte – a differenza dell’altro grande salentino-toscanizzato, Oreste Macrí, poi curatore di Tutte le poesie bodiniane – sono ricordate e studiate con affetto ma a mente lucida, cercando di comprenderne peculiarità, ragioni e limiti.
In pagine di grande finezza ed equilibrio ragionativo Bodini restituisce quell’esperienza e quelle voci al loro tempo storico, facendo giustizia da un lato degli sprezzanti, liquidatori giudizi dati dalla generazione precedente (storicisti e idealisti di matrice crociana, sordi ai fermenti della poesia contemporanea), dall’altro della frettolosa condanna comminata agli ermetici dalla letteratura engagée del Dopoguerra, tutta protesa verso esiti mimetico-documentaristici.
Con i suoi molti limiti, che Bodini non nasconde e anzi rileva in modo puntuale e talora impietoso, l’ermetismo rappresentò a suo avviso un’alta esperienza di “moralità letteraria”, capace di calare la carta della civiltà contro la qualità amorale o immorale dei tempi.
Un altro punto rilevante: i saggi di “Allargare il gioco” confermano come Bodini, in quegli anni legato a Giustizia e Libertà, sia stato un originalissimo pensatore civile attraverso la letteratura. Vanno in questa direzione alcune prese di posizione per l’epoca davvero sorprendenti: penso al saggio, datato agosto 1946, in cui lo scrittore condanna la «barbarie dello specialismo» che degenera in particolarismo; penso all’invito a non identificare le fazioni letterarie con quelle politiche, senza per questo ignorare, o fingere di ignorare, il fatto che gli avvenimenti storici inevitabilmente scuotano e segnino in profondità gli individui ancor prima che le loro opere. Penso, ancora, ai suoi appelli agli intellettuali per un rinnovamento della lingua, per una necessaria presa in carico dei problemi più urgenti di un Paese che andava ricostruito non solo materialmente ma anche culturalmente.
Davvero ancora preziosa la sua esortazione a giudicare con equanimità il ruolo degli “ismi”, delle scuole, dei movimenti letterari, che «possono svolgere», riassume Giannone, «un compito positivo perché contribuiscono a creare un clima comune, a chiarire temi che appartengono a tutta una generazione, ma possono costituire anche un limite a cui si potrebbe soggiacere, e a cui infatti i più deboli soggiacciono, se non si ha la forza di andare oltre» (p. 26). La frase, quasi una massima, «un movimento poetico è una utilità che la poesia deve inutilizzare dentro di sé, utilizzandola» (p. 124), scritta venticinque anni prima che Montale, nel celebre discorso del Nobel, rivendicasse la necessaria “inutilità” della poesia, è una lezione che ancora oggi chi lavora con le parole dovrebbe meditare.
Infine, qualche parola su due paragrafi degni di nota. Il primo, particolarmente gustoso, si intitola Il gallese ubriaco. Invano si cercherebbe nelle biografie di Dylan Thomas, che pure si soffermano con dovizia di dettagli sui disordinati giorni e le ancor più sfrenate serate trascorsi dall’autore di Under Milk Wood dalle parti delle Giubbe Rosse, tra la primavera e l’estate del 1947, un racconto così arguto, vivido e insieme bonario, una restituzione plastica altrettanto efficace di questo rude gallese refrattario alle raffinatezze del nostro Parnaso. A Bodini bastano due pagine appena per tracciare un bozzetto genuinamente divertente per quanto venato di malinconia, che è anche una piccola meditazione sulla sostanziale incompatibilità di due civiltà letterarie lontane mille miglia per indole, modi, temperamento.
L’altro testo notevole è la già citata Lettera a Carmelo Bene sul barocco, stesa nell’ultimo anno di vita dello scrittore. Bodini aveva appena interpretato la parte del marito dell’amante di Don Juan nel Don Giovanni di Bene (un film estremamente “lirico”, come il regista stesso lo intendeva), quando l’amico di Campi Salentina gli chiese di arricchire il suo pamphlet L’orecchio mancante con un contributo originale. In poche righe l’autore di Barocco del Sud (altro volume curato da Giannone per “bodiniana”) consegna al sulfureo conterraneo una lezione sul valore della cultura secentesca e insieme provvede a rendergli omaggio, consacrandone la rilevante statura artistica: quasi un lascito, un generoso “passaggio di consegne” generazionale.
Fa piacere che l’edizione 2020 (la settima) del Premio Letterario Internazionale a Bodini intitolato se la sia aggiudicata un altro grande intellettuale salentino, grosso modo coetaneo di Bene e al pari di Macrí lungamente “toscanizzato”, come Antonio Prete. Anche la sua è una voce che ha sempre lavorato per “allargare il gioco”.