Il sorriso illuminista nel conte philosophique

Tempo di lettura stimato: 19 minuti
In tutte le sue accezioni – dall’umorismo al grottesco al nonsenso – il comico incarna una delle svolte culturali e artistiche più rappresentative della modernità, e il Settecento illuminista ha il grande merito di affascinare i secoli a venire anche per la natura della sua singolare narrativa speculativa, ricca di figurine incerte e instabili che, fra tribolazioni continue e disastri portati fino al parossismo, vorticano a ritmi tali da anticipare visivamente alcune delle caratteristiche salienti del cinema comico muto.  Privilegiando quest’ottica, il saggio si focalizza sull’analisi di “Jaques le fataliste” di Denis Diderot.
Illustrazione di Quentin Blake © per il Candide di Voltaire – edizione The Folio Society 2011.

Tutto sta nel gioco delle accentuazioni. Un «susseguirsi di disgrazie, supplizi, massacri» si snoda «senza provocare nell’emotività del lettore altro effetto che d’una vitalità esilarante e primordiale»1. A dirlo è Calvino nella prefazione del 1974 al conte philosophique di Voltaire, nella quale si stigmatizza fin dal titolo, Candide o la velocità, la rapidità di una storia narrata a rotta di collo, in cui i martirii sono così esibiti da provocare insieme orrore e sorrisi, e la concatenazione degli eventi è tanto stretta che i capitoli si chiudono sull’inizio di nuove avventure. È un «giro del mondo in ottanta pagine»2, dal momento che «la grande trovata del Voltaire umorista è quella che diventerà uno degli effetti più sicuri del cinema comico: l’accumularsi di disastri a grande velocità»3.

In tutte le sue accezioni, dall’umorismo al grottesco al nonsense, il comico incarna una delle svolte culturali e artistiche più rappresentative della modernità, e il Settecento illuminista ha il grande merito di affascinare i secoli a venire anche per la natura della sua singolare narrativa speculativa, ricca di figurine incerte e instabili che, fra tribolazioni continue e disastri portati fino al parossismo, vorticano a ritmi tali da anticipare visivamente alcune delle caratteristiche salienti del cinema comico muto.

Del resto, l’accostamento della narrativa settecentesca al cinematografo non è una percezione isolata, se già Benedetto Croce nell’immediato dopoguerra aveva notato, leggendo Carlo Gozzi, che «le sue fiabe sembrano talvolta arieggiare, con l’accelerarsi delle bizzarre trasformazioni, ai cartoni animati, che si vedono oggi nei cinematografi»4.

In un’epoca di grande mobilità sociale come il Settecento, il comico diventa strumento antinomico anche «per questionare lo status quo dell’ordine stabilito»5. Montesquieu lo affida allo sguardo straniato del persiano intento a osservare il modus vivendi degli europei, Marivaux lo alimenta con i travestimenti e le inversioni dei ruoli di classe, Voltaire e Diderot lo fanno erompere da una rapidità di passaggi a scansione accelerata, dai dialoghi impertinenti autore-lettore e da strutture discontinue rispetto ai criteri abituali di successione narrativa. Grazie a questi accorgimenti nei loro contes o romans philosophiques «non è il ‘racconto filosofico’ che più ci incanta; non è la satira, non è il prender forma di una morale e d’una visione del mondo: è il ritmo»6.

Peccato che tanta leggerezza non sia più possibile nel nostro tempo «greve»7, avrebbe commentato Sciascia intento a scrivere il suo Candido. Eppure, a pensarci bene, il Secolo dei Lumi non è stato meno «greve» di conflitti e di sconvolgimenti epocali rispetto al Novecento. Evidentemente, le prose di forte carica vitale e di vis comica affermano la loro forza proprio là dove «per altri aspetti sembra che ci sia ben poco da ridere»8, come sottolinea Ferroni. Tutto questo spiegherebbe perché il XX secolo, con i suoi grappoli di tragedie belliche e di eccidi, sia stato anche il «secolo dell’espansione del comico»9 e della esplosiva inventività umoristica del cinema muto.

Su questo parallelismo, non stupisce che uomini semplici e dalla razionalità indifesa come il Candide voltairiano o il Buster Keaton del secolo scorso affrontino il pullulare degli eventi e la «distorta molteplicità del moderno»10 senza mai perdere la certezza della propria ‘umana’ misura. Ragione forse che spiega come mai proprio il «sorriso» misurato sia stato eletto, per dirla con Beatrice Alfonsetti, a emblema della ragione illuministica: un sorriso che non è corrispettivo del riso della comédie gaie, basata sul ridicolo e sui vizi, bensì figlio della comédie sérieuse, incentrata su riflessioni filosofiche e modellata da Diderot proprio sulla tragedia12.

E, sullo stesso parallelismo, possiamo capire come mai la riscoperta dei philosophes d’Oltralpe e del pensiero sotteso all’Encyclopédie sarebbe diventata negli anni bui del ventennio fascista la via maestra all’impegno civile e al cosmopolitismo per intellettuali contrari all’irrazionalismo e alla violenza del regime, come dimostrano l’editoriale di Piero Gobetti, Illuminismo, nel numero inaugurale del «Baretti»13 (23 dicembre 1924) o la Jeunesse de Diderot (1939) di Franco Venturi. L’Illuminismo diventa, insomma, un grande tema di studi su cui orientare la costruzione dell’Italia democratica e aprire la strada al contesto culturale del «Neoilluminismo italiano»14, che di lì a poco prende vita.

Illustrazione di Maria Enrica Agostinelli per l’edizione Einaudi del 1971 del «Barone rampante» di Italo Calvino.

Uscito dalla Resistenza, anche Calvino manifesta una vocazione illuminista, che attinge al magistero di Voltaire, di Diderot e dei contes phlosophiques, epurati però da finalità dimostrative e dal dettato filosofico, tant’è che nel Barone rampante le tappe significative della Rivoluzione Francese vengono raccontate senza un progetto cronachistico o ideologico, bensì come eventi che vorticano nell’immaginazione del lettore al variare della molteplicità dei palcoscenici arborei:

Tutti i momenti ce n’era una nuova: il Necker, e la sua pallacorda, e la Bastiglia, e Lafaiette col cavallo bianco, e re Luigi travestito da lacchè. Cosimo spiegava e recitava tutto saltando da un ramo all’altro, e su un ramo faceva Mirabeau alla tribuna, e sull’altro Marat i Giacobini, e su un altro ancora re Luigi a Versaglia, che si metteva la berretta rossa per tener buone le comari venute a piedi da Parigi15.

Anche Leonardo Sciascia, vent’anni dopo aver scritto la recensione a Il barone rampante sulla rivista di Calamandrei16, avrebbe passato in rassegna con Marcelle Padovani i philosophes illuministi per lui più significativi, valutandone la rilevanza stilistica e concettuale e notando che Diderot «non smette di crescere» nel credito dei posteri e «finirà per risultare più importante di Voltaire. In compenso, ritengo che Voltaire sia ben piazzato sulla linea d’arrivo – ammesso che ne esista una – degli scrittori. Voltaire, quest’esempio di professionalità della scrittura, questo modello di scrittore chiaro, svelto, conciso, intelligente, sintetico, ironico: ecco tutto ciò che per me rappresenta la chiave della scrittura e del vero mestiere. L’esatto contrario di Jean-Jacques Rousseau. […] Rousseau non mi interessa affatto. L’Emilio che ho letto all’età di quattordici anni mi è parso un libro fondamentalmente falso»17.

Sciascia con il trascorrere degli anni non avrebbe più voluto «Voltaire come padre», pur continuando ad amarlo, e avrebbe puntualizzato che «dell’Illuminismo mi ha sempre più interessato Diderot che Voltaire»18, mentre Calvino nel giugno 1984 scrive che Jaques le fataliste rappresenta l’anti-Candide, perché «Diderot è convinto che non si può costringere la verità in una forma, in una favola a tesi; l’omologia che la sua invenzione vuol raggiungere è quella con la vita inesauribile, non con una teoria enunciabile in termini astratti»19.

Privilegiando quest’ottica, è stata proposta alla lettura di una classe quarta Jaques le fataliste di Denis Diderot, autore verso il quale sia Sciascia, sia Calvino, nonché Kundera20, hanno accordato a colpo sicuro le loro preferenze. Il romanzo «è un’esplosione di libertà impertinente senza autocensura, di erotismo senza alibi sentimentali»21. Diderot è un maestro nell’insegnare a creare «un palcoscenico senza scenario», dove non si sa «da dove vengano i personaggi» e in questo sta «il rifiuto più radicale dell’illusione realistica e dell’estetica del romanzo psicologico»22.

La storia narra un viaggio (evento che del resto avviene in ogni conte o roman philosophique) in direzione non precisata. Esiste solo un breve accenno alla Normandia, deducibile dalla notte di sosta a Conches, e un unico riferimento temporale, che è costituito dalla battaglia di Fontenoy del 1745, dove Jacques viene ferito ad un ginocchio prima di andare a servizio per dieci anni, cui ne seguiranno altri dieci con l’attuale padrone. A conti fatti, dovremmo essere intorno al 1765, anno in cui Diderot si appassiona alla lettura del Tristram Shandy, che tanto lo influenza: «Il libro VIII del Tristram Shandy fu spedito da Sterne a d’Holbach nel 1765 e Diderot ebbe modo di ascoltarne una lettura a casa del comune amico. In esso sono contenuti i passi, che costituiranno la fonte dell’inizio (la ferita al ginocchio di Jacques) e della fine (il messaggio di Denise) nel romanzo di Diderot»23.

Il padrone e Jacques si raccontano l’un l’altro episodi e aneddoti e hanno incidenti di percorso e avventure, secondo una dispersione propria del genere picaresco, ma il centro del racconto resta come nel Tristram Shandy la conversazione, che accompagna il viaggio, e il procedimento digressivo, vera innovazione strutturale del genere letterario ‘romanzo’, che si avvia con queste due opere a maturazione.

Se si affronta il Settecento anche in piani di studi di Istituti Secondari Superiori dove non sono previste ore curricolari di filosofia, si possono incontrare non poche difficoltà, superabili spesso proprio grazie alla lettura di un conte philosophique. In effetti, l’arabesco della narrazione, i rapporti fra i personaggi, i loro gesti e dialoghi prolungano i concetti filosofici e li rendono ‘visibili’ e, proprio perché visibili, li trasformano in ‘idee illustrate’. Dunque, di facile comprensione.

Basterebbe, a titolo esemplificativo, pensare al tema dominante socio-politico del rapporto padroni/servi in Jaques le fataliste e alla riflessione filosofica su determinismo/libertà. Per studenti digiuni appunto di filosofia tutto può essere dedotto anche solo osservando le contrapposizioni dei movimenti di Jacques e del suo padrone, se fin dalla prima sosta del viaggio il padrone è intenzionato ad allontanarsi a gran trotto dai manigoldi della locanda, mentre Jacques procede «passo passo e sempre secondo il suo sistema»24.

Sono dettagli comportamentali contrapposti di forte visività, come antitetiche sono le concezioni del mondo che i due viaggiatori incarnano: l’aristocratico si sente libero di decidere le proprie azioni e vuole evitare i pericoli, ma finisce per vestire i panni della meschinità e della codardia dei ceti parassitari. Il servo non si affretta, convinto com’è che tutto accada per inevitabile destino. Jacques è «un rappresentate della rassegnazione popolare (sotto i colpi di frusta)» e il padrone è «una figura della condizione aristocratica (agiata e qualificata alle scelte). Esperienza della necessità; esperienza della libertà»25.

Eppure, per quanto Jacques creda alla concatenazione rigida di causa ed effetto e al destino inevitabile per condizionamento naturale, in realtà è spesso pronto negli eventi che gli capitano all’iniziativa libera, a cominciare dalla spedizione punitiva che compie nei confronti dei manigoldi incontrati alla locanda, mettendo i loro vestiti sotto chiave.

Illustrazione di Maurice Leloir per un’edizione del 1884 di “Jacques le Fataliste”.

Alla prova dei fatti, insomma, «il fatalismo (o materialismo)»26 concede la massima libertà: «È che non sapendo cosa è scritto lassù – sostiene Jacques – non si sa né ciò che si vuole, né ciò che si fa, e si segue la propria fantasia che si chiama ragione»27.

S’intuisce che è «proprio dalle concezioni del mondo più rigidamente deterministe che si può trarre una carica propulsiva per la libertà individuale, come se volontà e libera scelta possano essere efficaci solo se aprono i loro varchi nella dura pietra della necessità»28.

La riflessione filosofica su determinismo/libertà, tradotta visivamente nel comportamento dei due personaggi, assume comprensibilità immediata per gli studenti, così come la tematica sociale padroni/servi appare palpabile fin dal titolo: il servo ha un nome, Jacques, e un attributo che ha in sé una concezione di pensiero, il fatalista, il padrone è anonimo e senza attributi distintivi, a eccezione di quel «suo», che lo rende inseparabile dal servo, come Don Chisciotte e Sancho Panza. E, se non bastasse, il servo precede il padrone, Jacques il fatalista e il suo padrone, in rovesciamento palese dei rigidi obblighi di classe codificati dalla società settecentesca. Le gerarchie sociali non sono ancora messe in discussione, perché rimane chiaro a tutti chi sia il padrone e chi il servo, però sono state svuotate da dentro. È Jacques che prende le decisioni e, quando il padrone comanda, può anche rifiutarsi d’obbedire, dimostrando di non farsi schiacciare. I loro ruoli sono, insomma, in una situazione di trapasso.

Nell’opera di Diderot la garanzia della reazione comica, motore intrigante per la lettura, si annida anche nell’ampio uso di burlesque e di allusioni erotiche. Basti un esempio su tutti, enucleabile quando Jacques commenta la caduta di una donna da cavallo: «era scritto lassù che oggi, su questa strada, a quest’ora, il dottore fosse un chiacchierone, io e il mio padrone fossimo due burberi, che voi aveste una contusione al capo e che vi si vedesse il culo»29.

La comicità è offerta, oltre che dalla finale visione del «culo», dalla giustapposizione delle varie proposizioni subordinate, che scandiscono gli eventi in modo fortemente enumerativo. Ancora una volta, una comicità dal ritmo accelerato.

Potremmo, a questo punto, sottoporre alla riflessione degli studenti, come valutazione della comprensione, il passo in cui Jacques narra a rotta di collo il recupero dell’orologio rubato al padrone, con eventi che, prima della chiusura paradossale ed erotica della vicenda, vengono elencati in concitata successione verbale:

Sono andato, mi sono battuto, ho messo in subbuglio tutti i contadini della campagna, ho provocato un sollevamento in tutti gli abitanti della città, sono stato preso per un ladrone e condotto dal giudice, ho subito due interrogatori, ho fatto quasi impiccare due uomini; ho fatto mettere alla porta un domestico e cacciato una serva, sono stato riconosciuto colpevole di essere andato a letto con una creatura che non avevo mai vista, e che ho dovuto ugualmente pagare; e sono tornato.
– E io aspettandoti…
– Aspettandomi, era scritto lassù che vi addormentaste, e che vi rubassero il cavallo30.

Un altro effetto comico nel testo di Diderot è affidato al refrain, che fa crescere gradualmente la tensione attraverso la compresenza di due opposti, espediente che nullifica la possibilità di un giudizio assoluto. Nella disputa sulla natura della donna l’espediente è evidente: «sostenendo l’uno che le donne erano buone, l’altro cattive: e avevano entrambi ragione; l’uno sciocche, l’altro piene di spirito: e avevano entrambi ragione; […] l’uno belle e l’altro brutte: e avevano entrambi ragione; l’uno chiacchierone, l’altro discrete: e avevano entrambi ragione»31.

Nell’affrontare con gli studenti l’analisi del testo è importante raccogliere l’iterazione tematica di Jacque il fatalista lungo tre assi principali: il ‘discorso metafisico’ che contrappone il fatalismo alla libertà nel comportamento di Jacques e del suo padrone; il ‘discorso morale’, che consente l’ingresso nel territorio del comico con l’incongruenza dei comportamenti rispetto ai ruoli sociali (es. preti, medici, boia…) e con una sessualità da codice naturale ben lontana da quella della morale comune; infine il ‘discorso letterario’, con l’uso del paradosso come elemento conoscitivo e l’allontanamento dall’illusione realistica del romanzo.

Il lavoro sui temi, strettamente connesso sempre alle forme, consente raffronti didatticamente fertili, quando lo si orienti anche, in ottica comparatistica, al raffronto fra Jacques e il suo padrone di Diderot e l’opera teatrale di Kundera, Jacques e il suo padrone: omaggio a Denis Diderot in tre atti, scritta due secoli dopo. In primo luogo, potremmo iniziare dall’accostamento dei due incipit:

Come si erano incontrati? Per caso, come tutti. Come si chiamavano? E che ve ne importa? Da dove venivano? Dal luogo più vicino. Dove andavano? Si sa dove si va? Che dicevano? Il padrone non diceva niente; e Jacques diceva che il suo capitano diceva che tutto ciò che quaggiù ci accade di bene e di male, sta scritto lassù32

Chi sta parlando nell’incipit di Diderot?

Sono parole pronunciate in forma interrogativa da un narratore a un ipotetico lettore sottinteso, figura estranea alla storia raccontata e che finisce per divenire un nuovo personaggio. Ciò che si racconta non segue il filo del reale, ma le scelte arbitrarie dell’autore. Rispetto ai modelli che ogni studente ha imparato a conoscere da lettore, quest’incipit di Diderot appare subito inconsueto, in primo luogo proprio per le risposte, che non riempiono il vuoto creato dalle domande. Al «Come si erano incontrati?» non segue, come ci si potrebbe aspettare, il tempo e il luogo ma la casualità («come tutti»); il «Come si chiamavano?» genera una risposta, che cambia curiosamente registro («E che ve ne importa?»); infine, al «Dove andavano?» si risponde con un’altra domanda («Si sa dove si va?»).

Insomma, tutto è gestito rapidamente con un botta e risposta e c’è un susseguirsi di sensi diversi, che obbligano a reinterpretare, dopo la risposta, anche la domanda che la precede. «Non ho mai sentito parlare – dice Milan Kundera – di un inizio di romanzo più affascinante»33 sia per «l’avvicendarsi dei registri», sia per il «metodo di accelerazione» e per la prospettiva del «telescopio»34.

Anche nell’incipit di Kundera l’azione «si svolge nel diciottesimo secolo, ma il diciottesimo secolo come lo immaginiamo noi»35:

Jacques (con discrezione) Padrone (Indicando il pubblico al suo Padrone), come mai ci guardano?
Il Padrone (Trasalendo e aggiustandosi il vestito, come se temesse di attirare l’attenzione per via di qualche difetto del vestire) Tu fai finta che non ci sia nessuno.
Jacques (al pubblico) Non potete guardare da un’altra parte? Va bene, allora cos’è che volete sapere? Da dove veniamo? (Indica col braccio dietro di lui) Da laggiù. Dove andiamo? (Con filosofica saggezza) Forse che l’uomo sa dove va? (al pubblico) Lei sa dove va?
Il Padrone Jacques, io ho paura di sapere dove andiamo
Jacques Avete paura?
Il Padrone (Tristemente) Sì. Ma non ho alcuna intenzione di metterti al corrente dei miei tristi doveri.
Jacques Signore, non si sa mai dove si va, credetemi! Ma come diceva il mio capitano, è scritto lassù.
Il Padrone E aveva ragione…36.

Quello di Kundera non è l’adattamento di un’opera narrativa in versione teatrale. Per sua stessa ammissione, è una «variante» scritta per rendere omaggio a Diderot. Dunque, è l’incontro di due scrittori, ma anche di due secoli e di due generi, il romanzo e il teatro, e gli studenti possono capire dagli esiti dell’incontro quanto la letteratura sia ‘materia viva’, che può essere sempre declinata al tempo e agli interrogativi presenti: «Per uno scrittore ceco degli anni ’70, era strano pensare che Jacques le fataliste (scritto anche negli anni ’70) non fu mai pubblicato quando l’autore era in vita – dice Kundera – e che circolava solamente sotto forma di manoscritto tra un numero ristretto di lettori. Quello che ai tempi di Diderot era un’eccezione, a Praga duecento anni dopo è diventata la sorte di tutti gli scrittori cechi, che, banditi dalla stampa, potevano vedere i loro lavori solamente dattiloscritti. Cominciò con l’invasione russa, è continuato fino ad oggi e, a quanto pare, durerà ancora molto. Ho scritto Jacques e il suo padrone per mio piacere personale e forse con la vaga idea che un giorno sarebbe stato rappresentato in un teatro ceco sotto falso nome»37.

Se è vero che la letteratura, come sostiene Federico Bertoni, «comincia quando il soggetto diventa lettore del suo secondo libro»38, la competenza letteraria può muovere i suoi passi proprio dall’accostamento di due opere lontane nel tempo. Del resto Laurent Jenny lo chiarisce bene: «Al di fuori dell’intertestualità l’opera letteraria sarebbe semplicemente impercettibile, allo stesso modo di un’espressione scritta in un linguaggio finora sconosciuto»39.


Note

1. I. Calvino, Candide o la velocità, in Saggi 1945-1985, Meridiani Mondadori, Milano 1995, t. 1, 999-1003: 999.
2. Ivi, 1000.
3. Ibidem.
4. B. Croce, La letteratura italiana del Settecento. Note critiche, Laterza, Bari 1949, 161.
5. L. Salkin-Sbiroli, Il senso del non senso, Edizioni Lerici, Cosenza 1980, 6.
6. I. Calvino, Candide o la velocità …, 999.
7. Cfr. C. Ambroise, A cosa serve il Settecento in Sciascia?, in R, Castelli (a cura di), Leonardo Sciascia e il Settecento in Sicilia, Atti del Convegno di Studi, 6-7 dicembre 1996, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 1998, 42.
8. G. Ferroni, Secolo tragico, secolo del comico, in Il comico nella letteratura italiana, Donzelli, Roma 2005, 290.
9. Ivi, 288.
10. Ivi, 291.
11. Cfr. B. Alfonzetti, Paradossi del comico da Riccoboni a Goldoni e oltre, in Il comico nella letteratura italiana, Donzelli, Roma 2005, 164-165.
12. Proprio Diderot prospetterà come esempio di «ris sur le bord des lèvres» un testo filosofico sulla morte di Socrate (D. Diderot, Discours de la poésie dramatique, Larousse, Paris 1984, 33).
13. «Le confuse aspettazioni e i messianismi di questa generazione dei programmi, che per aver messo tutto in forse si trovava a dar valore di scoperte anche alle più umili faccende quotidiane, preparavano  dunque l’atmosfera di una nuova invasione di barbari, a consacrare la decadenza. Anzi, i letterati stessi, usi agli estri del futurismo e del medievalismo dannunziano, trasportarono la letteratura agli uffizi di reggitrice di Stati e per vendicare le proprie avventurose inquietudini ci diedero una barbarie priva anche di innocenza. Con la stessa  audacia spavalda con cui erano stati guerrieri in tempo di pace, vestirono abiti di corte», P. Gobetti, Illuminismo, «Nuova rivista europea», III (set.- ott. 1979) 13, 136.
14. Il «Nuovo illuminismo» aveva come premessa un rinnovato concetto di ragione illustrato da Abbagnano nell’articolo Verso il nuovo illuminismo, «Rivista di filosofia», (1948), 39, 313-325. I neoilluministi riunitisi in convegno nel maggio 1953 sentirono l’esigenza di riconnettere idealmente il movimento agli impulsi ideali della liberazione dal fascismo e alla ricostruzione democratica, come dimostrano i contributi di Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio (autodefinitosi «illuminista pessimista»), Ludovico Geymonat e Giulio Preti.
15. I. Calvino, Il barone rampante, in Romanzi e racconti, Mondadori, Milano 2003, I vol., 750.
16. La recensione di Leonardo Sciascia a Il barone rampante apparve su «Il Ponte», (1957), 12, 1880-1882.
17. L. Sciascia, La Sicilia come metafora, intervista di M. Padovani, Arnoldo Mondadori, Milano 1979, 57-58.   Riguardo a Rousseau Sciascia precisava: «Mentre la democrazia è l’espressione di una volontà aritmetica, quella della maggioranza, Rousseau ha creduto di scoprire una ‘volontà generale’ che non coincide con la legge del numero massimo, che può essere l’appannaggio di pochi o di qualcuno, pur pretendendo di imporsi come interprete della volontà di tutti. Proclamando che la parte può sostituire il tutto, parlando di volontà generale, Rousseau è all’origine dei principali mali del nostro secolo.» (Ivi, 58).
18. L. Sciascia, Conversazione in una stanza chiusa, intervista di D. Lajolo, Sperling & Kupfer, Milano 1981, 276.
19. I. Calvino, Denis Diderot, Jaques le fataliste, in Saggi 1945-1985…, 849. Inoltre, nell’Introduzione al volume I nostri antenati (1960) Calvino rifiuta la definizione di contes philosophiques per la sua trilogia, perché non ci sarebbe un assunto ben chiaro da propagandare come avviene invece nei narratori illuministi del Settecento, sia pure in chiave ironica, e perché per scrivere queste storie era partito sempre da immagini, mai da concetti. Proprio come era avvenuto a Diderot.
20. M. Kundera, Jacques e il suo padrone: omaggio a Denis Diderot in tre atti, (1981), Adelphi, Milano 1993.
21. M. Kundera, Introduzione a una variazione, in Jacques e il suo padrone …, 14.
22. Ivi, 15.
23. C. Colletta, Sta scritto lassù, Napoli, Liguori Editore, 1978, 17.
24. D. Diderot, Jacques il fatalista e il suo padrone, introduzione di M. Rago, Einaudi L’Unità, Torino 1992, 11-12.
25. M. Rago, introduzione, in D. Diderot, Jacques il fatalista e il suo padrone…, XXI.
26. Ivi, VI.
27. D. Diderot, Jacques il fatalista e il suo padrone…., 12.
28. I. Calvino, Il gatto e il topo, «La Repubblica», 24 giugno 1984.
29. D. Diderot, Jacques il fatalista e il suo padrone…, 6.
30. Ivi, 32.
31. Ivi, 22.
32. Ivi, 3.
33. M. Kundera, Introduzione a una variazione, in Jacques e il suo padrone, Teatro di Genova Editore, Genova 1986, 14.
34. Ibidem.
35. M. Kundera, Jacques e il suo padrone …, 53.
36. Ivi, 53-54.
37. Ivi, 16-17.
38. F. Bertoni, Il testo a quattro mani, La Nuova Italia, Firenze 1996, 222.
39. L. Jenny, Le strategie delle forme, «Poétique», (1976), 27, 257.

Condividi:

Cristina Nesi

Fiorentina, è autrice con Maria Corti di “Dialogo in pubblico” (Rizzoli, 1995; ampl. Bompiani, 2006) e di una monografia su Sebastiano Vassalli (“Cadmo”, 2005). Ha curato per i Meridiani Mondadori gli “Scritti scelti” di Ottiero Ottieri (2009) e per Rizzoli l’opera omnia di Romano Bilenchi (1997), oltre a “Il Capofabbrica” (Rizzoli, 2002) e ad “Amici e altri racconti” (Bompiani, 1991). Ha raccolto prose inedite e rare di Alfonso Gatto, fra le quali “Il pallone rosso di Golia” (Bompiani, 1997) e “L’Arno dalla sorgente al mare” (San Marco dei Giustiniani, 2006). Per il Piccolo Teatro di Milano ha curato la mostra e il catalogo “Il giacobino Federico Zardi” (CLUEB, 2002). Ha collaborato a volumi collettanei e a riviste («Autografo», «Strumenti Critici», «Levia Gravia», «Griselda», «Il Caffè»).

Contatti

Loescher Editore
Via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino

laricerca@loescher.it
info.laricerca@loescher.it