Il sabir: la lingua franca barbaresca

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Nel Mediterraneo, e in particolare sulle coste algerine, per almeno tre secoli, dal XV al XVIII, arabi, turchi ed europei parlavano fra loro senza bisogno di traduttori. Usavano il sabir, un pidgin inventato dai turchi ma sorprendentemente simile a un dialetto veneto.
J. Janssonius, cartina della costa barbaresca, Amsterdam 1662.

Ai soldati francesi che nel 1830 si imbarcavano alla volta dell’Algeria per iniziarne la colonizzazione protrattasi sino al 1962 venne dato in dotazione un Dictionnaire de la langue franque ou petit mauresque, suivi de quelques dialogues familiers, ovvero un Dizionario della lingua franca o piccolo moresco, corredato da un frasario per la vita quotidiana.
Così per la prima volta si cercava di fissare una grammatica della lingua franca, un idioma usato da secoli nei porti del Mediterraneo come mezzo di comunicazione sia tra cristiani di diverse lingue romanze sia e soprattutto fra cristiani da un lato e arabi e turchi dall’altro.
Era la lingua usata dai pirati musulmani per farsi capire dai franchi, come chiamavano indistintamente gli europei occidentali, ovvero gli schiavi cristiani che formavano la ciurma delle navi, servivano nelle loro case, erano trattenuti in attesa di riscatto oppure ancora, più semplicemente, risiedevano come rinnegati ad Algeri. Pare che attorno al 1600 gli europei a vario titolo abitanti in questa città fossero ben 25000. Ne parliamo con il professor Guido Cifoletti, docente di Glottologia e Linguistica all’Università di Udine, autore della più recente ricerca in questo campo, La lingua franca barbaresca, edita da Il Calamo nel 2004 e in seconda edizione nel 2011.

D: Perché ci si riferisce alla lingua franca chiamandola anche sabir?

R: È un termine moderno, in uso solo dopo il 1830. I coloni francesi in Algeria (molti dei quali erano in realtà d’origine spagnola o italiana) trovarono laggiù questa lingua alquanto buffa, e si ricordarono che proprio per la sua naturale comicità essa era stata spesso sfruttata dai commediografi europei dei secoli precedenti.
Carlo Goldoni, ad esempio, aveva inserito frasi in lingua franca in alcune commedie, come L’impresario delle Smirne e La famiglia dell’antiquario, mentre Molière, nel Borghese gentiluomo (scena quinta del quarto atto) aveva addirittura immaginato una “cerimonia turca” in questa lingua: quella in cui si conferisce un fittizio titolo nobiliare al protagonista, il borghese Monsieur Jourdain.  Avvalendosi della consulenza di Laurent d’Arvieux (1635–1702), un diplomatico che per molti anni era stato ambasciatore francese nell’impero turco, Molière immagina che il muftì inizi la cerimonia rivolgendo al protagonista queste parole: «Se ti sabir, ti respondir. Se non sabir, tazir, tazir». Ossia: «Se tu sai, rispondi. Se non sai, rimani in silenzio». Nell’ambiente scanzonato dei coloni francesi in Algeria (i Pieds-Noirs), sempre pronti a trovare soprannomi per le lingue e le etnie con cui erano a contatto, questa parola (reminiscenza di un brano famoso) fu usata per designare tutta la lingua. Ma a quel tempo l’uso che se ne faceva non era più come ai tempi dei pirati, essa era ormai una lingua in disfacimento, diventava sempre più rudimentale e diminuiva le capacità espressive, finché dopo una cinquantina d’anni scomparve del tutto; gli studiosi in casi del genere parlano di “continuum post-pidgin”.

D: In che epoca si può collocare la nascita della lingua franca?

R: Secondo una leggenda messa in giro (purtroppo) da alcuni studiosi, la lingua franca sarebbe stata usata già al tempo delle crociate: ma posso dire con sufficiente sicurezza che non è vero. È probabile invece che sia nata nel XVI secolo, quando si formarono le repubbliche corsare (ma sottoposte all’impero turco) di Algeri, Tripoli e Tunisi. Di certo agli inizi del Seicento questo pidgin era già ben consolidato, come conferma la testimonianza di Diego de Haedo, un frate dell’ordine dei trinitari.

D: Possiamo considerare il sabir come una vera lingua?

R: Sappiamo che non era una “lingua di necessità”, cioè un mero repertorio di espressioni già elaborate da utilizzare nelle transazioni commerciali o nei rapporti diplomatici. E neppure era una “lingua della ciurma”, dato che il lessico non sembra dare particolare rilievo alla terminologia marinaresca e fra gli usi linguistici previsti non hanno grande spazio ordini, imprecazioni e minacce.
Al contrario, la stabilità temporale del fenomeno linguistico, protrattosi sicuramente per almeno tre secoli, e l’estensione del suo uso a tutti i casi della vita quotidiana, fanno della lingua franca barbaresca la più antica e più longeva lingua pidgin di cui si abbia notizia.

D: È possibile affermare che il sabir sia stata una lingua franca diffusa in tutto il Mediterraneo?

R: Sul finire del Medioevo e con l’inizio dell’età moderna, l’italiano assunse un grandissimo prestigio, in Europa ma anche in tutto il bacino del Mediterraneo: la lingua di Dante veniva usata come lingua di scambio e certamente era parlata in forme più o meno corrette, spesso anche pidginizzate. Tuttavia, le testimonianze di questo “italiano corrotto” provenienti dal Levante sono nettamente più sporadiche e non ci permettono di pensare all’esistenza di un vero e proprio pidgin stabile e continuato nel tempo, mentre quelle provenienti dalla “Barberia”, ossia dalle reggenze ottomane di Algeri, Tripoli e Tunisi, sono molto più numerose e coerenti. Solo negli Stati barbareschi e durante il periodo di fioritura della pirateria la lingua franca divenne un pidgin di uso quotidiano e socialmente rilevante, con una netta autonomia dalla lingua lessicalizzante. Per questo ho concentrato su quest’area le mie ricerche e ho aggiunto “barbaresca” nel titolo del mio libro.

D: In quali condizioni sociali e politiche si trovava questa regione africana?

R: Mentre nei primi decenni del XVI secolo l’area magrebina era stata oggetto di tentativi di penetrazione politica da parte della Spagna, nella seconda metà la pirateria vi si installò stabilmente. Due rinnegati greci, noti come i fratelli Barbarossa, si impadronirono di Algeri nel 1516, e poi nel 1529 ne conseguirono il pieno dominio espugnando il fortino che gli Spagnoli avevano costruito su un’isola davanti al porto; nel 1551 Tripoli fu conquistata da Dragut, uno dei pochi pirati a essere turco e mussulmano di nascita; nel 1574 cadde anche Tunisi, dove fino ad allora avevano regnato degli emiri che si appoggiavano alla Spagna. Queste città costiere divennero covi di pirati e vi si ammassò un gran numero di europei catturati sulle navi, trattenuti come schiavi e costretti a lavorare.
Al contrario della tratta dei negri, attiva in quei secoli anche nei porti magrebini, questa schiavitù non era senza speranza di ritorno, perché i più ricchi potevano farsi riscattare dalla propria famiglia. A volte, per i più poveri, la somma del riscatto era raccolta con l’aiuto dei frati Trinitari, un ordine (ancora oggi esistente) che pone la redenzione degli schiavi come primo obiettivo statutario. Altri, in circostanze più fortunate, potevano arrivare a svolgere un lavoro indipendente e così guadagnarsi la somma del riscatto. Ma le possibilità di finire i propri giorni in Barberia erano alte.
La lingua franca era usata in quei porti soprattutto per il colloquio con gli schiavi europei, e il fatto può essere considerato singolare perché generalmente ci si aspetta che siano gli schiavi ad adottare la lingua dei padroni.

D: Come si spiega questa rinuncia da parte dei turchi a imporre la propria lingua?

R: Le circostanze storiche sono importanti. A quel tempo il prestigio dell’arabo era ai minimi storici, perché i Paesi arabi attraversavano una crisi al cui confronto i “secoli bui” del nostro Medioevo paiono luminosi; d’altra parte il turco non salì mai a posizioni di grande prestigio.
Viceversa, in quei secoli l’italiano era veramente una lingua internazionale: non la conoscevano soltanto i letterati (ricordiamo che a quel tempo gli imitatori di Petrarca fiorivano in tutta Europa), ma anche i capitani di nave, i diplomatici, i viaggiatori; si può dire che la sua conoscenza facesse parte del bagaglio culturale degli uomini più in vista, anche nell’impero ottomano.
Ma d’altra parte, per dei mussulmani era difficile accettare di parlare la stessa lingua che parlava il Papa, che era il loro più irriducibile antagonista. Teniamo conto inoltre che a quel tempo molti abitanti dei Paesi magrebini erano d’origine ispanica: si trattava di ebrei e moriscos espulsi dalla Spagna, che avevano una buona competenza del loro dialetto spagnolo (alcune comunità ebraiche hanno mantenuto l’uso del cosiddetto giudeo-spagnolo fino ai nostri giorni; quanto ai mussulmani, sappiamo che anch’essi mantennero a lungo questi dialetti, anche se non possiamo dire con precisione quando si siano spenti).
Queste persone non avrebbero avuto difficoltà a parlare un italiano più corretto, ovvero non peggiore di quello che parlavano allora molti abitanti della nostra penisola; ma probabilmente non volevano farlo, per non identificarsi con una nazione cristiana.
Così inventarono questa lingua che non era l’italiano, ma qualcosa di autonomo: in fondo era una lingua di mussulmani, e per questo la potevano imporre ai loro prigionieri. Naturalmente però, una volta che questa convenzione fu stabilita, la lingua franca potè diventare anche una “lingua di comodo”: numerosi ebrei e mussulmani che non avevano dimestichezza con le parlate romanze avevano così l’opportunità di comunicare anch’essi con gli europei, senza lo sforzo d’imparare la grammatica.

D: Risulterebbe strano immaginare un sultano turco mentre parla italiano: come si spiega questa preferenza?

R: Infatti non mi risulta che un sultano turco abbia mai parlato italiano, anche se non lo giudico impossibile. Va detto che l’educazione dei futuri sultani non era curata: in mancanza di chiare norme per la successione, chiunque avesse avuto la sfortuna di nascere nella famiglia sultaniale era visto dal sultano in carica come un possibile rivale, e di conseguenza era tenuto segregato (generalizzo, perché nei tre secoli che prendiamo in considerazione le situazioni mutarono). Comunque a quel tempo la letteratura aveva un’importanza enormemente maggiore di oggi e l’italiano, in virtù dei suoi scrittori, era una lingua di prestigio in tutta Europa; non risulta che i sudditi dell’impero ottomano studiassero i poeti e prosatori italiani (con l’eccezione dei greci, che se erano di famiglia facoltosa spesso erano mandati a studiare in Italia), ma ugualmente il prestigio della nostra lingua si riverberava anche in quelle contrade. Sta di fatto che, in perfetto parallelismo con l’uso della lingua franca nel parlato, esisteva anche un uso dell’italiano nello scritto, come lingua di comunicazione fra l’impero ottomano e l’Europa.

D: Le questioni religiose non avevano alcuna incidenza?

R: Certamente sì, e giocarono a favore della lingua franca. Infatti, parlare correttamente l’italiano, cioè la lingua dei cristiani infedeli, era considerato in qualche modo disdicevole per un mussulmano (anche se non risulta che vi sia mai stata una chiara proibizione in questo senso), mentre nei confronti della lingua franca non vi era questa interdizione.

D: Basta leggere qualche frase in lingua franca per capire che la preferenza per l’italiano si esprime prima di tutto nel lessico. Qual è la sua composizione?

R: Il lessico della lingua franca comprende solo pochi termini derivanti dal turco e poche parole di origine araba. La maggior parte delle parole, il 70%, è di origine italiana, in particolare veneziana e genovese; segue lo spagnolo con il 10% mentre il resto dei termini è in arabo, catalano, greco, occitano, siciliano e turco.

D: L’impressione, a volte, è di trovarsi di fronte a una specie di versione buffa del dia- letto veneto. È una suggestio- ne veritiera?

R: È un’impressione giustificata. Non sappiamo con precisione quale fosse l’italiano che si usava a quei tempi nel parlato, ma certo i dialetti vi avevano un posto maggiore di oggi; e il veneto era allora il dialetto dello Stato italiano più potente.
Lo si vede dai pronomi personali. Quando si pidginizza l’italiano, la tendenza generale (come mostra l’italiano semplificato d’Etiopia ma anche l’uso attuale della lingua quando si parla con stranieri) porta a usare forme di nominativo come “io” o “tu”, mentre nella lingua franca si usa “mi” e “ti”, che nel dialetto veneziano fungono anche da nominativi.

D: Come si è conclusa in definitiva la vicenda storica della lingua franca?

R: La conquista francese dell’Algeria nel 1830 segnò anche l’inizio della sua fine. Infatti, con lo stabilizzarsi dell’occupazione francese vennero meno le condizioni politiche che ne avevano decretato il successo. A ciò si aggiunga che in Europa il periodo di maggior prestigio dell’italiano era terminato, e si era ormai in piena egemonia della lingua francese.
Ma non solo, anche l’atteggiamento dei mussulmani era cambiato. Arrivati al colmo del declino, gli arabi smisero di vedere gli europei come rivali, e per risollevarsi cercarono di studiare la cultura europea (dati i tempi, soprattutto quella francese). Perciò veniva meno la stessa ragion d’essere della lingua franca: la riluttanza a parlare appieno una lingua di “infedeli” non c’era più. Il sabir continuò a esistere per almeno un’altra cinquantina d’anni per pura forza d’inerzia, ma andò sempre più francesizzandosi sino a modificare profondamente il suo lessico. Il francese del Maghreb può essere in realtà considerato il vero continuatore della lingua franca.

D: I pidgin possiedono peculiarità proprie tanto da assomigliarsi più fra loro che non ogni pidgin alla propria lingua madre. Se a questa costanza aggiungiamo un lessico italianizzato, possiamo concludere che un immigrato di lingua araba giunto oggi in una città veneta tenderà spontaneamene a elaborare un sabir?

R: Certamente questo è possibile. Però non dobbiamo dimenticare che esiste una differenza sostanziale dal pidgin. Perché i linguisti parlino di pidgin, deve trattarsi di un fenomeno socialmente stabile e accettato.
In altre parole, se noi ci trovassimo in Russia e ci mettessimo a parlare un russo molto imperfetto, senza le declinazioni e con le terminazioni verbali drasticamente ridotte, queste sarebbero solo delle nostre diffocoltà individuali: perché si parli di pidgin, vi dev’essere un fenomeno socialmente rilevante, ad esempio deve esistere una comunità o un determinato ambiente che ne fa un uso abituale. Così fu certamente per la lingua franca, o anche per il pidgin english della Cina.
Ma dobbiamo comunque sempre tenere presente che in situazioni di contatto tra due o più lingue la creazione di una nuova lingua (quali sono il pidgin e il creolo) è un fatto decisamente antieconomico, e perciò non rappresenta mai la regola ma l’eccezione.

Guido Cifoletti è docente di Glottologia e Linguistica all’Università di Udine

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