Il Principe del Machiavelli: un libro carico di humanità

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Un articolo di Sandro Invidia e il cinquecentenario della stesura del Principe di Machiavelli (1513) stimolano alcune riflessioni sulla valenza di quest’opera come “classico”.

Principe

Ho letto con gusto e interesse il pezzo di Sandro Invidia sulla discussione a più voci sul Principe del Machiavelli, della quale è stato attore-spettatore: concordo con lui sul fatto che discutere di libri non possa che dare a questi un rinnovato calore e una nuova vita. Sta proprio qui – credo – l’importanza dei cosiddetti “classici”, cioè di quelle opere che – lette e rilette nel corso dei secoli – non solo hanno avuto una funzione magistrale, ma che sono state anche reinterpretate con il filtro della cultura e dei valori delle varie epoche. Ed il Principe del Machiavelli – del quale si celebra quest’anno il cinquecentesimo anniversario – non manca certo delle più varie letture e riletture.
Ma è davvero lo stesso autore quel Machiavelli sentito da sempre come uno spietato ideologo del potere, rispetto a quello che – paragonato al cinico Guicciardini – è stato invece visto da alcuni come un idealista? Oppure rispetto a quel grande che – nella lettura foscoliana – più che spiegare le logiche del potere inteso come governo della realtà, ne ha mostrato il lato oscuro, drammatico, poiché temprando lo scettro a’ regnatori / gli allor ne sfronda, ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue (Dei Sepolcri, vv. 154-156). Oppure, ancora, rispetto a quella sorta di eroe proto-risorgimentale costruito da Francesco De Sanctis, il quale ha enfatizzato (e in parte consapevolmente strumentalizzato in chiave pre-unitaria) l’esortazione ai Medici a liberare l’Italia dal servaggio straniero espressa dal segretario fiorentino nel finale del Principe? Insomma, è bello pensare che chi ha scritto sul Machiavelli ne abbia discusso prima pubblicamente, come è avvenuto nel racconto di Sandro Invidia tra Riccardo Bruscagli, Fabrizio Gifuni, Sonia Bergamasco, oppure – più semplicemente – ne abbia dialogato con se stesso: dunque parlare del Principe, tra di noi colleghi, coi nostri studenti, od anche solo rifletterci sopra, ci pone sulla scia – oltre che di Foscolo e De Sanctis – anche di Bacone, Spinoza, Rousseau, Hegel, Gramsci… C’è di che spaventarsi o inorgoglirsi, a piacer nostro, ma è questa l’incredibile forza dei libri, oggetto nella storia di polemica o esaltazione e – in questo caso – perfino di censura, se è vero che Il Principe venne messo all’indice nel 1557. Eppure il testo resiste ancora, e – come si diceva – ci permette “democraticamente” non solo di leggerlo, ma anche di interrogarlo e di dire la nostra su di esso; e anche chi lo stravolge, chi cita solo – a sproposito – la massima (mai scritta dal Nostro) il fine giustifica i mezzi, gli rende un prezioso servizio per conservarlo – come direbbe Orazio – aere perennius.

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Certo tale sorte non capita a tutti i libri, ma a quelli che per loro humanità … rispondono alle nostre domande. Sì, forse è questa la definizione migliore di “classico”, al di là di tante “acrobatiche” perifrasi che spesso usiamo: un “classico” è un libro tanto carico di humanità (dal latino humanitas, intesa come forza culturale e/o spessore valoriale e/o impegno educativo…) che è capace di rispondere – secoli dopo – a qualcuna delle nostre domande. Magari a grandi domande etiche o esistenziali… Chi, infatti, non si è mai interrogato sulla malvagità umana? O sul rapporto tra fortuna e virtù? O sul legame tra morale e politica? O sulla differenza tra l’essere e l’apparire? O sulla legittimità – in certi casi – della menzogna e della violenza? Tutte cose di cui Il Principe parla! Anch’io posso dunque dire che, leggendo Machiavelli, le sue parole per loro humanità mi rispondono, pure se cinquecento anni dopo la loro redazione. E mi piace usare con insistenza questa espressione perché è usata proprio dal Machiavelli, nella sua celeberrima Lettera al Vettori (1513), per dirci come – nel confino di San Casciano – si rifugi egli stesso nei “classici” per trovare risposte alle sue domande. Infatti se di giorno si è letto “al volo” Dante e  Petrarca, Tibullo e Ovidio, alla sera l’incontro coi libri diventa per lui un vero e proprio rituale, che così ci descrive.

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Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.

Purtroppo (o per fortuna, finché si lavora…) nessuno di noi può dedicare alla lettura quattro ore al giorno, e probabilmente noia, affanno, povertà e morte non se vanno dalla nostra testa neppure davanti a un avvincente volume. Eppure non dobbiamo smettere di leggere i grandi scrittori e interrogarli, senza vergognarsi di parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni. E dobbiamo insegnare a farlo anche ai nostri studenti, pur se recalcitranti davanti a testi sentiti come lontani: lontani solo nel tempo, però, e non nei temi, perché – se ben guidati – anche i giovani impareranno a cogliere la loro humanità e a decifrarne le risposte. Perché, dunque, non usare il Principe per una riflessione disincantata sulla politica, soprattutto con gli studenti che si apprestano ad esercitare per la prima volta il diritto di voto? E magari constatare – con amarezza – il proliferare tra i nostri candidati di golpe di seconda o terza categoria, e l’indubbia assenza di un lione di grande peso morale e istituzionale, eccezion fatta per quel grande e moderno “principe illuminato” che risiede al Quirinale…

Oppure – nell’imminenza del Conclave – perché non leggere (o rileggere) con i ragazzi gli affannosi quanto vani maneggi del duca Valentino alla morte di papa Alessandro VI, suo padre (Il Principe, capitolo VII)? E riproporre, di conseguenza,  l’annosa domanda: meglio puntare tutto sulla scelta del papa migliore, oppure sull’evitare che lo diventi il meno adeguato? Valentino sbagliò, perché, come è detto, non potendo fare uno papa a suo modo, e’ poteva tenere che uno non fussi papa…, eppure lasciò eleggere il vendicativo Giulio II: speriamo che a marzo i cardinali alla Sistina non abbiano la stessa mala elezione.

Insomma, in una realtà sempre più scialbamente virtuale, in un mondo nel quale sempre più chi fa domande si dà risposte da solo (come da Marzullo, insomma…), interrogare i libri è indizio di umiltà e intelligenza. E se leggendoli, invece dei panni curiali, indosseremo jeans e maglietta sono sicuro che la antique corti delli antiqui huomini ci accoglieranno lo stesso; a patto che si evitino braghe corte e ciabatte infradito: i miei studenti sanno che non le sopporto proprio!

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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